Una città - anno II - n. 18 - dicembre 1992

di politica LARICERCACUINON SI PUO' RINUNCIARE intervista ad Afl,erto Asor Rosa Alberto Asor Rosa, docente di Letteratura Italiana all'Università "La Sapienza" di Roma ed a cui si devono alcuni testi fondamentali di critica letteraria, è da molto tempo anche uno degli autori più presenti nel dibattito della sinistra italiana. Ha recentemente pubblicato "Fuori dall'Occidente. Ragionamento sull' Apocalissi" (Einaudi editore) che è stato presentato, a fine ottobre, anche a Forlì. Al termine delle serata lo abbiamo incontrato. Nel suo libro lei sembra quasi sostenere che siamo alla "fine della storia", per lo meno della storia intesa come storia dei conflitti fra realtà ed ideologie contrapposte, come erano comunismo e capitalismo. Eppure proprio la finedel comunismo hadato il via all'esplosione dei nazionalismi, al ritorno, anche violento, alle radici. In questo lei vede solo una convulsione finale, un fatto momentaneo che non mette in forse l'espansione mondiale dell'Occidente, o inquesta esplosione può esserci invece un tentativo di non omologarsi alla mondializzazione dell'uomo occidentale? Una prima precisazione: il tema della fine della storia è totalmente estraneo al discorso che faccio ed è anche un tema che trovo ridicolo. Evidentemente ci sono tante "fini" della storia quante sono le grandi epoche in cui la storia umana si è distinta, ma ad ogni fine è seguito un principio. Quello che ora possiamo dire è che si è chiusa una grande epoca della storia umana e che ne è cominciata un'altra. Un'epoca che è cominciata sotto il segno della disgregazione, del disfacimento. lo sono portato a pensare che i fenomeni a cui stiamo facencfo riferimento, cioè i conflitti interetnici, i nazionalismi violenti, non siano una risposta all'occidentalizzazione del mondo, quanto piuttosto una conseguenza dell' occidentalizzazione stessa. E questo perché mi pare che la loro genesi si possa ~ttr!buire alla disgregazione di quell'impero socialista-sovieti~o ·che in qualche modo, del tutto negativamente, aveva tenuto in piedi un'alternativa di sistema all'occidentalizzazione del mondo. Nel momento in cui questa alternativa di sistema crolla ad intervenire è la disgregazione e la dissoluzione pura e semplice, cioè senza nessun segno di positiva riconquista dell'identità. In un certo senso si torna indietro, a prima che i grandi imperi si costituissero. Ma il comunismo, che lei vede come alternativa di sistema al capitalismo occidentale, era, sia teoricamente che nella sua azione politica quotidiana, una lotta all'Occidente in nome dei valori fondanti dell'Occidente stesso. E allora la fine di quell'esperienza non è forse la fine di un abbaglio e quindi, almeno per certi versi, non può essere !"'apertura" reale all'Occidente? Esattamente. Le nuove realtà nazionali, nate dal crollo del sistema socialista sovietico, sono ben lontane dal desiderare di imboccare una strada diversa tanto dal sistema socialista che dal sistema capitalista. Sono in una lotta atroce tra di loro perché fanno di principi elementari, come la nazione, la razza o la lingua, degli strumenti di ricompattamento di identità che non c'erano prima del socialismo, ed in tutti i casi non c'erano da sempre, ma sono tutte attratte verso il polo di identificazione rappresentato dall'occidente capitalistico. La Croazia, la Serbia, la Bosnia non si muovono alla ricerca di un 'autonoma identità culturale, politica ed economica. Sono fra di loro in conflitto, ma non di meno sono concordi nel guardare all'Occidente come al referente da raggiungere il più presto possibile. Altrettanto vale per la Cecoslovacchia, l'Ungheria, la Polonia, la Russia ... Le sembra che questo valga anche per i rinascenti sciovinismi e nazionalismi dell'Europa occidentale? Qui il discorso è diverso. Lo sciovinismo occidentale, il razzismo rinascente, è una forma estrema di ricerca dell'identità nazionale dentro il grande corpo dell'Occidente. I naziskin, nella brutalità delle loro espressioni e delle loro manifestazioni, fanno riferimento al principio nazionale tedesco, ali' identità nazionale e razziale della Germania. Il loro è un percorso tipico della cultura occidentale. Ma nella cultura occidentale c'è anche l'opposto; da sempre si postula la relatività della radice nazionale e culturale. Pensiamo al concetto di "cittadino", che, di fatto, altro non è che un individuo astratto. E ~on è in questo intervento 11 12 DICIMBIIIDI fANfl ANNI Ci sono stati anni in cui il 12 dicembre di ogni anno era ben evidenziato nell'agenda politica di chi stava a sinistra: l'attentato di Piazza Fontana del 1969aveva avviato il ciclo tragico della strategia della tensione e il ricorrere del suo anniversarioera occasione di mobilitazione e denuncia contro il carattere "di Stl\to" della strage. Ma era come se il manifestare (in tanti e in pubblico e per motivazioni e obiettivi politici) assorbisse ed esaurisse le emozioni e i sentimenti interiori suscitati in ognuno anche solo dalle foto di quella devastata filiale milanese della banca Nazionale dell' Agricoltura, atroce visione di guerra catapultataali' improvvisoneltempo di pace di un paese democratico. Poi seguirono anni in cui il 12 dicembre tornò ad essere un giorno come gli altri, per la semplice ragione che molti non tenevano neppure più un'agenda politica in cui evidenziarlo. E a poco a poco la dimensione emozionale legata a quella piazza e a quella banca finì col ri-emergere e prendere il sopravvento su quella tutta e solo politica: finché a vent'anni di distanza proprio chi era stato in prima fila contro la strage di stato non ebbe ad esplicitare che con Piazza Fontana "si era persa per sempre l'innocenza", l'innocenza dei vent'anni di chi prendeva per la prima volta la pubblica parola con l'entusiasmo dei giovani e la genuinità-ingenuitàdei movimenti. Intanto, così come la fine degli anni '60, anche l'inizio di un decennio tanto diverso quale quello degli anni '80 era avvenuto sotto il segno delle stragi (stazione di Bologna, Ustica): adesso che un altro 12 dicembre si avvicina mi viene da pensare a come esattamente inverso sia stato il percorso (dalladimensioneinterioreaquella pubblica) dei nuovi soggetti (i familiaridelle vittimedi quelle nuove stragi) che hanno alzato questa volta la propria voce di protesta (alta, rigorosa, informata, civile). E a come sia per certi versi straordinario che, proprio in un clima culturale Cil!atterizzatodal predo- (' minio del privato in ogni sfera, questi nuovi soggetti abbiano trovato nella dimensione privata per eccellenza -quella della sofferenza per la perdita di una persona cara- la ragioneperun' azionepubblica, per una mobilitazione collettiva, per fare ricorso al più tipico degli strumenti a disposizione della società civile: quello di riunirsi in associazione, così per la strage di Bologna del 2 agosto 1980 come per Ustica. Fratelli, genitori, mogli e mariti delle vittime non si sono fermati a questa sola identità: e riconoscendosi anche un'altra identità (quella di vittime a loro volta dell'ingiustizia derivante dalla mancanza di verità sulle morti dei loro cari) hanno scelto di far penetrare il dolore nella dimensione pubblica per rivendicare per l'appunto giustizia e democrazia. Di fronte al silenzio in cui si voleva lasciare quelle vicende hanno rotto il silenzio del dolore per non essere complici, hanno fatto del loro grande dolore privato anche un grande dolore civile e di tutti. Da molto tempo ormai diciamo e leggiamo, anche su questogiornale, che nella nostra società la morte e la malattia vengono sempre più consegnate al solo binomio rimozione-spettacolarizzazione e che le norme socialmente accettate imporrebbero ai familiaridi vittime rassegnazione e sentimenti contenuti di lutto. I parenti delle vittime di Ustica e dell'attentato alla Stazione di Bologna hanno deviato da queste norme: non per riproporre forme di elaborazione collettivadel lutto ormai scomparse ma producendo un nuovo modello di comportamento sociale per i tempi d'oggi, accettabile dagli altri soggetti sociali: lo stesso modello che, a partire da condizioni e bisogni affatto diversi, hanno finito sostanzialmente per praticare contro il racket i commercianti di Capo d'Orlando che hanno dato vi la ali' ACIO. Non credo sia stato facile, non credo sia tuttora facile per quelle r!.l)_e così colpite nei loro affetti rinnovare quotidianamente il proprio dolore nelle tante iniziative che promuovono o cui partecipano; è stata insieme una scelta ed una necessità, come hadetto Daria Bonfietti-Presidentedell'Associazione parenti vittime di Usticaaprendo a Bologna i lavori di un convegnodedicato proprio al "dolore civile" in occasione del dodicesimo anniversario di quella strage: "La nostra scelta è stata una scelta. Abbiamo proprio scelto di ricordare i nostri cari pubblicamente parlando di società civile e di diritti dei cittadini; dei diritti calpestati e della vergognosa necessità dell'esistenza, nel nostro paese, di associazioni di parenti delle vittime di stragi". E pensiamo solo per un attimo a quanto ben più lontana sarebbe certamente la verità su Ustica se Daria Bonfietti ed altri come lei non avessero fatto quella scelta. Peraltro, proprio in questi giorni le due Associazioni del 2 agosto e di Ustica si trovano ad affrontare altre prove: il nuovo giudizio di appello sulla strage alla stazione di Bologna, disposto dalla Cassazione, rischia di essere rinviatoal I994perunaconcomitanza con iI processo alla "banda delle coop"; i fondi (280milioni) finora sottoscrittida cittadiniedenti pubblici e privati per sostenere la battaglia politico-giudiziaria su Ustica sono praticamente terminati e l'attività dell'Associazione rischia di interrompersi. E allora, a 23 anni da Piazza Fontana, dovremmo forse tutti quanti riprendere ad evidenziare anche il 12 dicembre e tutte le altre date di strage nella nostra agenda di impegni, sulla cui prima pagina non stonerebbe neppure la trascrizione di questo motto della sapienza ebraica: "Se non ora, quando? Se non qui, dove? Se non io, chi?". Si può cominciare anche da un numero di conto corrente bancario: I O 11I della Cassa di Risparmiodi Bologna-Agenzia 17-intestato a Daria Bonfietti quale Presidente dell'Associazione parenti vittime strage di Ustica. Giorgio Calderoni CO sradicamento il segno più vero ed attuale dell 'Occidente? Attualmente, la ricerca delle radici è certamente la pulsione più visibile, non la più generalizzata. Ma, all'estremo opposto di questa ricerca delle radici, non c'è più il culto dell'individuo astratto, del "citoyen" fuori da ogni caratterizzazione nazionale, c'è invece una pericolosa indeterminatezza di confini, di atteggiamento. Questo nel senso che il polo determinato è il polo razzistico e nazionalistico ed all'estremo opposto non troviamo una cultura della cittadinanza, o dei valori sovranazionali, o delle diversità e delle differenze. Troviamo solo una grande massa informe. Ed è esattamente questo il grande dramma attuale. I naziskin non crescono e non si affermano per loro forza endogena, crescono e si affermano perché laddove dovrebbe esserci il polo opposto, cioè la massa democratica, trovano una massa informe, in cui lo spirito della democrazia si è pericolosamente attenuato. Questa almeno è la mia diagnosi. Per lei, quindi, nell'Europa occidentale l'attenuazione della spinta verso la democrazia coincide col momento in cui l'Occidente come potenza si mondializza. Tutto questo non può significare che il "sogno" dell'Occidente, la democrazia occidentale, non è stato altro che un errore? Una questione di questo genere è veramente una questione disperante, per usare una espressione usata come giudizio per il mio libro. Disperante perché, se le cose fossero davvero così, la storia dell'Occidente sarebbe veramente chiusa e ne comincerebbe una, totalmente altra, difficilmente definibile. Il perno di un ragionamento molto realistico, ma al tempo stesso non disperante, è invece quello che consiste nel dire: siamo in un momento in cui le vecchie forme non bastano più e se restano le vecchie forme va avanti la risposta delle "radici"; bisogna quindi passare dalle vecchie forme a nuove forme. Ma è possibile fare questo salto critico, che prima che un salto istituzionale è un salto di coscienza? Io spero lo sia, ma più di questo è difficile dire. Lei conclude il suo libro con l'invito ad un"'etica della responsabilità", della resistenza alla potenza imperante. In questo appello c'è però un problema. E' molto difficile pensare ad un'etica che non faccia perno su dei valori, ma i valori di cui noi siamoportatori possono rischiare di essere dei valori non veri, frutto di un sogno. Allora, come si può pensare un'etica forte, che permetta di resistere al male ormai imperante, ma che, tuttavia, sia anche capace di non farsi abbagliare dai propri valori? Non si può pensare di ripartire da una carta dei valori data, finemente disegnata. Noi partiamo, al contrario, dalla constatazione a cui ci conduce questo famoso nichilismo occidentale, cioè che i valori sono in un certo senso azzerati. Questo significa cadere nella ricerca di spiegazioni più elementari, più bestiali, come quelle della razza, della nazione, del1'identità localistica e così via? Secondo me significa invece toccare il fondo di una situazione e da quella ripartire per una ricerca. Oggi un'etica della responsabilità è anche, anzi è soprattutto, un'etica della ricerca. Una ricerca che parte da una rilevazione empirica di ciò che nella situazione attuale non si può accettare, perché se lo si accettasse allora veramente la storia dell'Occidente sarebbe conci usa. L'etica del la responsabilità di cui parlo parte innanzitutto dalla rilevazione di ciò che non si può praticare come valore, sia che si presenti come ingiustizia o negazione di verità, sia che si presenti come falsa giustizia o falsa affermazione di verità. Ma una ricerca che parta innanzitutto da un rifiutonon può poi portare ad arroccarsi sul rifiuto stesso? Un rifiuto magari validissimo, ma tutto sommato sterile? No, perché io credo che su questo punto la nostra esperienza storica conti qualcosa; conti nella nostra memoria e anche nel nostro modo di atteggiarci di fronte al reale. Non è che noi, in quanto abbiamo coscienza della crisi verticale dei valori dell'Occidente, non abbiamo più passato. Noi abbiamo il Cristianesimo, la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione d'Ottobre, cioè una serie di tentativi volti alla modifica del mondo umano. Il fatto che questi tentativi siano poi, nella conduzione pratica, tutti falliti non significa che sia fallimentare la ricerca, lo spirito di ricerca che li ha mossi. Una ricerca che quindi riapre all'utopia? "Utopia" è un termine che non mi è mai andato a genio. Io direi rifiuto di rinunciare alla ricerca. Ricerca nel nostro passato, nell'esperienza concreta compiuta dalle generazioni precedenti, ricerca di verità e di giustizia. Ricerca anche di comprensione di quel lo che, in questa ricerca, è stato giusto e di quello che è stato sbagliato. In una situazione come la nostra questo è forse il terreno da cui si può ricominciare a capire da che parte muoversi. Mi pare che il problema sia soprattutto questo: in che direzione muoversi. - Pest Control Igiene ambientale • Disinfestazioni - Derattizzazioni - Disinfezioni • Allontanamento colombi da edifici e monumenti • Disinfestazioni di parchi e giardini • Indagini naturalistiche 47100Forll - viaMe11cc2i,4 (Zo11a Industriale) Te/.(0543)722062 Telefax(0543)722083 NICHILISMO FRASVIRSALI La passerella televisiva fa risuonare nelle case, in nome del diritto ali' informazione, le voci dei politici affaccendati attorno al cosiddetto "tavolo" delle riforme istituzionali. Fa risuonare, non "diffonde". Perché sono voci sempre più metalliche, direi "digitali". Sono le voci che oggi sono costrette a dichiarare la verità della democrazia, ossia lo svelamento della democrazia nella sua verità "tecnica". La famosa svolta, il punto di non ritorno cui saremmo di fronte, la curva storica del Paese, non è altro che un problema tecnico, per come viene mostrato. La rappresentanza è divenuta completamente un problema tecnico. Pare così (così è se vi pare) che la scelta fra i vari proporzionali, misti, maggioritari, all'inglese, all'americana, alla francese, sia il vero nodo da sciogliere per ritrovare un'autentica sovranità. Ci viene fatto credere che, attraverso la soluzione tecnica del problema della rappresentanza e del consenso, la rappresentanza e il consenso riacquistano autenticità, ossia riacquistano, in ultima analisi, "tiascendenza". Ed ecco che la trasversalità diviene il criterio universale dello schieramento. Ossia: di fronte alla riduzione "tecnica" estrema, è l'uniformità della tecnica che la fa da padrone. Il concetto di cittadinanza non è che lo "sfondo" (bestand) su cui l"' impianto" (gestell) tecnico-ingegneristico-istituzionale getta la sua ombra, poiché la tecnica è proprio la riduzione della natura a "sfondo" indifferenziato per la manipolazione, è il coprire tutti i nomi delle cose della natura con il principio dell'"utilizzabilità". Le voci dei "trasversali" risuonano paurosamente, tragicamente metalliche. Esse sono come la voce gridata meccanicamente nel Cantico del gallo silvestre leopardiano. Sono come gli "ammiccamenti" del1'ultimo uomo di cui parla Nietzsche, "ciò che c'è di più spregevole". L'ultimo uomo proclama al popolo le domande filosofiche, si chiede che cos'è l'amore, che cos'è la creazione, che cos'è il desiderio, che cos'è la stella, e contemporaneamente "ammicca". "La terra è diventata piccola e su di lei saltella l'ultimo uomo che rende tutto piccolo" afferma ancora Nietzsche. Nel risuonare delle voci sugli schermi, le famose pause craxiane sembrano ormai abbassamenti di corrente in un computer. Le altrettanto famose inflessioni "dentali" e "labiali" da Magna Grecia di De Mita assomigliano a certe voci telefoniche digitalizzate, con la deformazione regolare delle consonanti. Il gramscismo trasformista di Occhetto non è ormai che il fantoccio della filosofia della storia dei "blocchi". Bossi sémbra doppiato da un film americano di Bruce Willis con pessime traduzioni dei testi. Martinazzoli stesso è uno Zaccagnini solo "funzionale", senza una pari identità umana da mettere in gioco. E l'elenco potrebbe continuare. Nella declinazione tecnica della democrazia, che è poi il suo sbocco naturale, costitutivo, la voce del "politico" rimbomba sempre più irreale, sempre più, in fondo, innocua nel suo misero potere in cui l'identità tace: perciò si apre al "trasversale" con tutta naturalezza. Ma è anche una voce i cui ammiccamenti sono ormai solo, appunto, televisivi, proprio perché l'uniformità dello schermo, la sua immaterialità, sono il suo luogo ideale. Essa può essere pronunciata ormai solo nello "sfondo" dello schermo, può essere rappresentata solo in uno sfondo indifferenziato. E non è quindi certo casuale l'affollarsi attorno alla regolamentazione del1'etere, o alla riforma del servizio radiotelevisivo pubblico. La riforma della RAI è la prima cosa di cui si è occupato Martinazzoli dopo essere stato eletto segretario della D.C., in modo quasi pervicace e ossessivo, con una insistenza apparentemente inspiegabile, data ]"'attualità" di ben altri "problemi". Sulle riforme istituzionali come soluzione tecnica al problema della democrazia si accaniscono i vecchi e nuovi partiti nella commissione bicamerale, per la conquista e la conservazione della rappresentanza, mentre l'autentico conflitto delle identità, per mezzo dello stesso schermo indifferenziato, per mezzo dello stesso "sfondo", è ora divenuto pienamente iI "teatrino" dei talk-show, dei Gad Lerner, dei Ferrara, dei Costanzo, delle samarcande. E tutti aspirano alla parte dei burattini, tutti aspirano al chiambrettismo, ad essere chiambrettizzati, quasi a voler disperatamente dire a se stessi e agli altri: "Guardate, questa mia rappresentazione pubblica, sullo schermo, rendiamola pure ridicola, copriamola di sberleffi e di insulti; questa mia funzione pubblica può anche essere annichilita, umiliata fino all 'annientamento, poiché in essa in realtà non è in gioco la mia identità. Anzi, forse se mi aiutate a ridicolizzarmi, se mi fate sentire forte i vostri risolini di scherno, posso sperare, nella solitudine, in qualche nuovo riflesso del mio io sfrondato dai cascami del "pubblico" . Ciò che sta accadendo è sicuramente una "svolta", nel senso in cui ne parlava Heidegger: è una fase di svelamento. Ma nessuna svolta potrà mai essere annunciata da uno schermo televisivo, né diffusa come notizia in un telegiornale; e neppure ce la troveremo di fronte come novità "tecnica" nel nostro collegio elettorale. Non sarà nemmeno una nuova formazione "trasversale". Anzi, tutto ciò che ci sarà presentato come tale da uno schermo possiamo vederlo come una parte del velo che ancora resta da togliere. Sarà più facile scorgere la svolta nello sguardo di un amico, di un collega, di un vicino, che non nella busta paga, o nella voce impersonale dei media, che impietosamente prolungano l'agonia del sistema. Ivan ?,attini la Cassa dei Risparmdii Fon I

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