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Grazia Marchianò

.....

E possibile un'arte felice?

S

OLITAMENTE

il

visitatore

cli

una mostra

d'arte

è

un soggetto inattivo. Egli per–

cepisce, fruisce, giudica

«

oggetti

»

compiuti,

estranei al suo tempo

di

vita;

il

loro,

in–

fatti,

è

stato imposto una volta per sem–

pre dall'artista ed

è

definitivo come una

cifra che lo spettatore si limita a leggere,

a commentare, ma a cui resta sostanzial–

mente estraneo. Astratta, concreta, forma–

le, seriale, l'arte di questo sessantennio ha

già cercato di modificare quel rapporto sta–

tico tra opera e fruitore, provocandolo nei

modi

più

esasperanti che potevano consen–

tirle

i

suoi mezzi artigiani e non

è

stata

un'arte

«

felice

».

L'immagine che ha proiet–

tato dell'uomo del tempo

è

stata ansiosa,

frenetica, ossessiva; lo si

è

potuto consta–

tare a Nash House, la scorsa primavera, e

già

ne riferimmo

in

una lettera da Londra

(Tempo presente,

maggio 1968).

In quella occasione Michael Kustow, uno

degli animatori delle iniziative dell'ICA

(Istituto d'arte contemporanea), ci aveva an–

ticipato una grossa « sorpresa » prevista per

la tarda estate; ma si trattava di un fatto

top secret

e si limitò a profferire, a propo–

sito dell'arte infelice:

«

Serendipity ...

! »

Ci affrettammo a documentarci sul signifi–

cato di quella strana parola: Orazio Walpole

l'aveva coniata nel lontano 1754 nel suo

I

tre princìpi di Serendip

col significato di

«

capacità di fare felici scoperte, di trovar

tesori

».

Su quell'unico indizio abbiamo al–

manaccato per vari mesi, invano frugando

nelle rubriche delle

«

anticipazioni

»

delle ri–

viste londinesi specializzate. Poi, ad agosto,

la bomba:

Studio,

uno dei periodici più ac–

creditati di architettura, grafica e

design,

esce in edizione speciale con una copertina

bianca e azzurra in cui campeggia

il

titolo

Cybernetic Serendipity.

Il mistero cominciava

a svelarsi: quella

<<

capacità di trovar tesori,

di fare felici scoperte

»

poteva forse offrirla

la cibernetica?

Norbert Wiener nel 1948, battezzando la

nuova scienza, la definl « Processo

di

comu–

nicazione e controllo nell'animale e nella

macchina ». Dunque, nell'universo tecnolo–

gico, comparivano dei nuovi personaggi, i

computers,

«stranier i » anch'essi come certi

loro antenati romanzeschi ma perfettamente

allergici al tragico, alla nausea esistenziale,

alla passione inutile. Tycotech, Forget-me–

not, Torre-luce, Carm-O-Matic si presenta–

vano come servo-macchine impassibili, esclu–

sivamente operative e inattaccabili dagli sti–

moli dell'invenzione, cioè: arte e cibernetica

permanevano estranee.

La mostra di Nash House, oggi,

è

par–

sa in grado di sconfessarlo. I

computers,

i

mobiles,

i

robots-poeti,

le macchine-pittrici

invitano

il

fruitore a una esperienza scon–

certante , a

«

entrare

»

nel gioco dell'inven–

zione, modificarlo, provocare combinazioni

impreviste, partecipare

in

modo estetico a

una serie di eventi aperti, il cui protagonista

è

il soggetto che guarda, che ode, che tocca

e che tutte queste sensazioni sperimenta si–

multaneamente, eccitandosi alla propria de–

strezza, riscoprendosi sveglio e forse, per

qualche attimo, felice.

«

L'idea dietro questo azzardo - scrive

su

Studio

Jasia Reichardt, organizzatrice del–

la rassegna con Mark Dowson e Peter

Schmidt -

è

di mostrare un campionario

di forme creative prodotte dalla tecnologia

in quell'area ancora ignota

in

cui avvengono

gli scambi di invenzione tra operatori del–

l'arte e scienziati, tra i caso-sistemi impiegati

dagli artisti, poeti, compositori e le cambi-