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R I N A S C I T A

gllere ogni «les i» dal suo nesso con le altre. Così la

logica diventa antilogica e così via.

Una personalità che emerge è quella di Spazzapan;

più scattante e ricco di De Pisis, più umano di Dufy,

nel disegno filamentoso e guizzante, nelle accensioni

del colore (rubini, topazi e smeraldi, incastonati nel

ferro o nel carbone), questo artista dà nella sua sala

ìl segno di una fantasia che anche quando sembra più

sbrigliata (fino al fuoco d'artificio), non perde mai

conlattò, con ìl suo terrestre punto di partenza. Nel

Paesaggio amalfitano

e nel

Partigiano impiccato,

opere

entrambe del '54, si rivela pienamente i l suo talento.

Poiché la giuria dei premi della Biennale non è riu–

scita finora a « rivelare » nessuno, dovrebbe forse l imi –

ta: i a laureare un artista e una opera che si siano

svolti sotto ìl segno della coerenza e dell'amore della

arte, come già

fece

quattro anni fa per Carrà.

Ma Fanno scorso, i l premio che doveva andare a

Rosai, non gl i fu dato, e quest'anno ìl premio che,

secondo questo criterio, doveva andare a Melii, non

gl i è stato dato! La sala di Mellì dà conto di una vita

d'artista in ogni senso esemplare. Un passato che testi–

monia la sua presenza attiva nelle polemiche di idee

più importanti della pittura italiana del

'20;

e lo svi–

luppo successivo della sua arte costruita per toni e

spazi, che influì su gran parte della giovane arte ro–

mana; una giovanile freschezza nell 'ultima sua produ–

zione di paesaggi, ri trat t i , nature morte; mi pare siano

meriti che non sono in molti ad avere. Ma chi pensa

più a queste cose? Chi guarda più le date dei quadri?

I l critico passa correndo, cerca quel che serve alle sue

tesi, tace sul resto e passa via-

Varie personalità di artisti ci chiamano dalle pareti

lungo i rapidi g i r i : anzitutto la bella serie di quadri

di Carlo Carrà; e i cinque Rosai, pieni, profondi, poe–

t ici , segni della matur i tà di un artista che è davvero

tra ì pochissimi in questa Biennale, a dirci parole di

poesia su un mondo autentico, su luoghi e persone di

questo mondo. Vediamo un Campigli rinnovato nel co–

lore, un De Pisis presentato in chiave decorativa, e

poi opere di V. Ciardo, dì Pasquarosa (una natura morta

con ventaglio bianco che resta nella memoria), una

serena parete di Trombadori, un gruppo di paesaggi

di De Grada osservati con i l consueto amore, una

Dafne

di Ferrazzi dolcemente atteggiata. Accenti dì una rara

finezza poetica si trovano nelle arruffate acquefortì di'

Ciarrocchi, di seria coscienza in quelle, classiche, di

B. Barraviera, in quelle assai notevoli del ventiquat–

trenne

'

Alberto Manfredi; una bella natura morta di

Cesettì, dal colore vibrante e nuovo, la parete di Borra,

le « case a Zoppè » di Tornea, e Menzio sempre più

maturo ed espressivo, e Tamburi, Cantatore, Bonghi,

Pippo Rizzo che insiste nel suo gusto dei temi popolari

con ironia e poetica partecipazione; le ampie vedute dì

Perottì.

Un eroe dell'arte democratica : Gustavo Courbet

Incontriamo più avanti Scordia che non accenna a

uscire dal suo schema,, ma conferma le sue qualità,

Scialoia di cui non sappiamo davvero spiegarci questa

tardiva conversione al formalismo astratto, filtrata nella

concezione morandiana (e mandelliana, persino) dello

spazio tonale, e Stradone che ci dà nuove prove della

sua maniera di espressionismo magico; tre vivaci imma–

gini di Titìna Maselli, tre accurati disegni (Vespignanì

più mondano) di Bruno Caruso; tre bronzi, infine, di

Giuseppe Tarantino, scultore di vero talento, ma che

è necessario si guardi dallo scivolare nelle acrobazie

formali vuote di senso.

Chiuso nel suo onesto e consueto rigore formale ci

appare Reggiani, unico astrattista, assieme a Prampo-

l l n l , nel quale appare una convinzione provata e non

provvisoria nella tesi non figurativa.

L'arte legata alla vita, alla società, allo sviluppo delia

realtà ha tuttavia i n questa Biennale i l suo gigante:

Gustavo Courbet. A ritrovarlo, uscendo dalle sale ita–

liane, non si crede ai propri occhi. Da che mondo

viene costui? Eppure i l mondo da cui viene è ancora i l

nostro, la società in cui viviamo è la stessa; le cose

che l'offendevano e contro cui sì batteva, sono le stesse

(sebbene oggi aggravate da una accresciuta coscienza)

contro le quali ci battiamo noi.

Molto ci sarebbe da dire dei socialista, del comunardo,

dell'assertore e propugnatore di un'arte nuova, realisti–

ca, democratica. Gustavo Coubert fu colui che stabilì

un punto fermo della pittura moderna; colui che, dopo

Delacroix, riprendeva le tesi di Géricault e del migliore

David, immergendole direttamente nel cuore della real tà

democratica, con la sua perentoria irruenza di conta–

dino e con la sua rinnovata coscienza di socialista.

Egli è, in certo senso, i l primo realista moderno; un

artista capace di parlare un linguaggio nuovo appar–

tenente alla realtà moderna, e la cui risonanza arriva

lontano; fuori dell'ambito delle stesse tradizioni occi–

dentali.

Simile a Caravaggio che affermava sdegnare gl i esem–

pi della passata grandezza, ma ne custodiva i l retaggio

nazionale e culturale, Courbet porta i n sé i l nutrimento

di una grande tradizione, ma lo sposa a una fedeltà

incondizionata al vero, al moderno, al sociale. Simile

a Caravaggio porta fuori dalla sua patria i l frutto della

conquista realista, compie ìl momento del salto rivolu–

zionario, nella pittura, e ne afferma i l significato di

progresso per tut t i .

La sua eredità giunse in Francia a Cézanne, e fino a

Picasso e Derain, e i l suo esempio aiutò Cammarano a

Napoli, Muncashy i n Ungheria, Repin in Russia; l'eco

della sua opera giunse dovunque nasceva la necessità

di un rinnovamento, • dovunque si levava vento d'indi–

pendenza e di progresso democratico.

Nella mostra ordinata dalla Biennale, manca tutta

una parte dell'opera sua: la presenza

dell'Atelier

(dna

delle opere fondamentali dell'arte moderna), delle

De-

moisetles de la Seine,

del

Rencontre,

degli

Spaccapietre,

del

Seppellimento,

avrebbero mostrato Courbet nella sua

luce e, forse, evitato a molti cri t ici affrettate conclusioni

e giudizi sciocchi. Ma se la Biennale non è colpevole

di questi vuoti (dovuti sembra a ragioni di forza mag–

giore) non si può non rilevare la « politicità » e la

inopportunità della prefazione di Germain Bazin che

si dichiara nemico delle idee dei pi t tori (e certo delle

idee di Courbet) ma anche del disegno di Courbet

(« straordinariamente indigente »), e del suo modo di

comporre. Sciocchezze, queste, che la parte più reazio–

naria della nostra critica d'arte non ha mancato di

far proprie!

Ma dimentichiamoci di tutto ciò. Quanto ci è offerto

nelle tre sale di Venezia basta per farcì inchinare di

fronte a un artista che amò la natura e gl i uomini e ne

espresse la forza e la bellezza. Guardiamo i paesaggi

vasti, la

Quercia

che riempie i l cielo, la monumentale

Ondata,

i l tenero gesto della

Femme d'Irlande,

la bimba

di Prudhon che giuoca carponi, l'effige dell'artista in

carcere; guardiamo

II cervo

assetato precipitarsi verso

di noi, nella sera, mentre all'orizzonte un bagliore breve

di fiamma ci riporta ad altre immagini : un commento

che ricorda quello di Tiziano sullo sfondo del

Carlo V.

La via dell'arte democratica, aperta da Goya, da Gé–

ricault, la via di Courbet sembra, in questa Biennale,

una via sbarrata. Ci sono tuttavia, compressi in una •

specie di bagagliaio (e qualche altro disseminato nelle

varie sale) anche quegli artisti che la via dell'arte

realistica e democratica intendono battere.