Una città - anno VI - n. 50 - maggio 1996

$ D lJn LA SOLITUDI E DEL EDICO Un medico di base che non sia solo un burocrate passacarte. L'importanza della relazione medico-paziente, laddove, spesso, lo studio del medico della mutua diventa un osservatorio del disagio psicologico e sociale. Il problema di anziani sempre più soli e la responsabilità del medico di fronte al problema della dignità nel morire. Intervista a Gianni Pettenella. Gianni Pettenella è medico di base a Verona. Com'è oggi il lavoro del medico di base? Purtroppo, non mi sento di dire che il deprezzamento, l'abbruttimento addirittura, della professionalità del medico di base, che durava fin dagli anni '60 sia stato superato. L' immagine di un medico interessato solo a quanto gli rende la ricetta, a quanto gli rende il mutuato, non è solo la caricatura di un film di successo. Anzi, secondo me, è ancor più lontano l'obiettivo di avere dei professionisti che non siano solo dei passacarte, che filtrino i problemi, che non mandino automaticamente dallo specialista o in farmacia e che abbiano attenzione e cura per il disagio del paziente. Anche la formazione del medico di base, di cui si è parlato in questi anni, è stata una cosa inventata a tavolino per offrire un'occupazione ai disoccupati post-laurea, per far fare loro un paio d'anni di tirocinio. Va detto però, che dal momento in cui si è introdotta la quota capitaria, col servizio sanitario nazionale del 1980 e il medico di base è stato pagato a mutuato e non più a ricetta, qualcosa è cambiato. Prima era facilissimo che il medico che doveva ordinare cinque medicine, costringesse l'assistito a andare per cinque giorni successivi da lui perché, altrimenti, avendo la stessa data sarebbero state considerate una prestazione sola. La quota capitaria incentiva a lavorare più seriamente. Per fare un esempio: ora un iperteso posso vederlo solo ogni due mesi, non è necessario che venga tutte le settimane in ambulatorio a perder tempo lui e a farlo perdere a me; quando lo vedo, gli dedico mezz'ora, tiro fuori la cartella e valutiamo il tutto. Ma se io, vedendolo una sola volta, perdessi altre quattro quote di quelle a ricetta, naturalmente sarei disincentivato. Ma, secondo lei, qual è il problema principale del medico di base? Il lavoro in solitudine. Siamo immersi in realtà che non hanno niente di eccezionale, niente di tragico, niente di particolare, realtà di quartieri diversi fra loro che rendono difficile anche il paragone tra colleghi. Questa è una delle grosse differenze rispetto al lavoro in ospedale, per cui a volte invidiamo il collega d'ospedale. Poi può essere che lui, per via del clima di sudditanza verso il primario, di servilismo verso rutti i più anziani, invidi la nostra libertà, ma non c'è dubbio che il poter lavorare insieme sia una gran cosa. Il fatto di essere sempre da sol i può portare, fra l'altro, ad avere fissazioni, abitudini, magari anche relativamente innocue ma, comunque, scorrette perché applicate indistintamente a tutti i pazienti. La presenza di un altro sarebbe una verifica continua e proficua della qualità del proprio lavoro. Qui a Verona abbiamo due o tre studi che si sono organizzati come medicina di gruppo, ma non di quelli dove insieme al medico di base c'è il pediatra, l'oculista, il ginecologo. Sono tutt'altra cosa: sono proprio gruppi di due o tre medici di base che si mettono insieme contando su un buon affiatamento. I vantaggi sono tanti. Il paziente che resta iscritto da quel singolo medico sa che comunque può andare anche a sentirne un altro, senza gelosie senza conflitti, senza complicazioni particolari. Si possono sfruttare eventuali specifiche competenze di uno dovute alla specializzazione acquisita all'università o per passione. L'orario può diventare più flessibile: se una mattina della settimana gli altri due non ci sono io posso ricevere anche i loro assistiti, dopodiché potrò prendermi un pomeriggio in più di libertà per me. Non c'è dubbio, insomma, che si lavora meglio e credo che questa sia la strada del futuro della medicina di base. Il rapporto con l'ospedale? Adesso, con l'ansia della spesa sanitaria, stanno cambiando tante cose. Già ora gli ospedali devono presentare un bilancio indipendente da quello della Usi. Soprattutto, però, stanno approntando criteri di riferimento economici standardizz:atiper ogni tipodi patologia, nemmeno per tipo di prestazione. Vorrà dire che se un intervento di appendicectomia viene valutato, poniamo, tre milioni, conviene che ogni quattro giorni quel letto sia rinnovato. Le complicazioni si tramuteranno in un danno economico immediato per la struttura ospedaliera che quindi tenderà a scaricarlo ali' esterno. Credo che in questo periodo per i colleghi ospedalieri non stia andando troppo bene, ma qualche problema l'abbiamo anche noi. Per la prima volta quest'anno ho avuto, per esempio, un vecchio dimesso da geriatria con le agocannule delle flebo ancora nelle braccia: per la fretta di dimetterlo non avevano neanche pensato a tirargli su le maniche del pigiama. E' una stupidaggine, intendiamoci, perché l 'agocannula posso toglierla anch'io a casa; però non era mai successo negli anni scorsi. E' un segnale del decadimento del servizio. Adesso un mio paziente, per una patologia un po' complicata, è arrivato alla fine di un ricovero durato 32 giorni. L'amico ospedaliero mi dice che sono in serie difficoltà per giustificare un ricovero così lungo, visto che alla fine, per fortuna, da tutti gli accertamenti, non è risultata una patologia maligna come invece si sospettava. A parte la mia contrarietà di principio a una concezione della sanità che veda solo nel criterio economico la misura della propria efficienza, è anche vero che la medicina di base, in questa situazione, probabilmente potrà avere più spazio. Infatti, mentre resterà comunque difficilissimo controllare la spesa ospedaliera, l'unica possibilità per risparmiare sarà il potenziamento della medicina di base, affinché lavori meglio e riduca la quantità di ricoveri. Per far questo dobbiamo riqualificare il nostro lavoro, anche a partire da cose molto piccole, che possono sembrare banali. Con alcuni amici o colleghi, siamo una dozzina, facciamo due o tre volte al mese un corso di aggiornamento. Unadellecosecheabbiamo · stabilito è che non potevamo più lavorare senza cartelle cliniche. So che in altri posti sono già usate nella medicina di base, ma da noi no. Quando viene la persona anziana a dirmi di aver finito le pillole, non posso ricordare quale terapia sta seguendo, non posso ricordarmi tutto. Lo stesso per il paziente maniaco degli e ami: grazie alla cartella clinica posso vedere su bito quante radiografie ha fatto negli ultimi cinque anni o quanti prelievi del sangue e quali problemi realmente sono emersi. Così facendo, 16 UNA CITTA' ,O perdo più tempo, mai meno di un quarto d'ora, perché devo prendere nota del problema del momento, magari aggiungere la trascrizione di qualche esame eseguito da terzi, fare la nota riassuntiva della terapia che propongo, ma i I rapporto si semplifica e probabilmente, nel complesso, non lavoro neanche di più perché riduco la quantità degli incontri. Una persona sa di essere ascoltata e quindi non ha bisogno di venire ogni giorno a dirmi che è cambiata una virgola. Un'altra decisione che abbiamo preso è quella di lavorare in parte anche su appuntamento. Se ci sono persone con le quali si sa che le visite vanno per le lunghe, abbiamo riscontrato che ci provoca meno disagio perdere 45 minuti nel tempo extra-ambulatorio che con I 'ambulatorio aperto e 8 persone in sala d'aspetto. E' una perdita di tempo che viene compensata dal fatto che si lavora meglio con gli altri. Sono esempi banali, forse, che possono contribuire a rendere meno stressante la giornata e anche il rapporto con i pazienti in visita. La relazione medico-paziente, che sembrava ormai relegata in un lontano passato pre-tecnologico oggi comincia a essere riscoperta. E il medico di base è il primo interessato. Lei cosa ne pensa? Sono già 5 o 6 anni che ci riuniamo in un gruppetto di medici per approfondire la relazione medico-paziente, seguendo le tecniche della psicologia di gruppo. Discutiamo non tanto del caso clinico e delle reciproche capacità diagnostiche o terapeuti che, ma del I 'impatto emotivo che quella persona ha prodotto in noi, dell'aggressività o anche del sentimento di condivisione o immedesimazione che ha provocato in noi. Questo non dÙisultati clinici visibili ma certamente fa stare meglio noi e probabilmente anche più contenta la gente che ci avvicina. Le faccio il mio esempio. Sono medico di base in un quartiere benestante, ma con una prevalente popolazione anziana. Adesso, su 1250 mutuati 1'8% è ultraottantenne e il 36% è oltre i 65 anni. La maggior parte di questi vecchi, in particolare dai 70 anni in su, non ha grossi problemi clinici nascosti che richiedano chissà quale brillante diagnosi. Sono contento quando un cardiopatico scompensato riesco a gestirmelo io, magari facendogli fare il controllo dallo specialista solo una volta ali 'anno che mi conferma che sto facendo bene, oppure quando riesco a reinquadrare problemi di scompenso metabolico, di diabete o altro. Tutt'al più mi possono capitare, alla fine dell'inverno, le patologie infettive stagionali, bronchiti, polmoniti, insufficienze respiratorie acute. Ma quello che questi miei pazienti chiedono è altro. La loro malattia principale è la solitudine, che per alcuni qui sta diventando un macigno. E non è retorica. In sedici anni ho visto un cambiamento preciso nella popolazione. Per esempio: se devi fare una terapia intramuscolare, cioè far fare5-6 punture per una polmonite, una volta si sapeva benissimo chi, nel caseggiato o nella via, era in grado di fare le punture. Adesso uno può vivere con due infermiere professionali nello stesso palazzo, "buon giorno", "buona sera", e non saprà mai che lavoro fanno. Vado a visitare persone anche bene tanti e porto su qualche campione di farmaco, perché so che staranno 24 o 48 ore senza che nessuno vada a visitarli, a vederli, che gli suoni alla porta e gli dica: "Signora ha bisogno che vada in farmacia, le serve qualcosa?" Sono cose sempre più comuni e che vedo venire avanti anche in altri quartieri. Naturalmente, bisogna essere capaci di adattarsi a esigenze diverse. Ad alcuni vecchi basta dedicare del tempo perché il rapporto sia di piena fiducia, ma con altre persone questo non basta, bisogna entrare in sintonia perché i messaggi siano accettati, recepiti. Direi che bisogna accettare di buon grado anche di prestarsi a fare da trascrittore di ricette prescritte dal medico privato perché probabilmente per quei pazienti va bene così. Non bisogna convincerli che in me possono avere un buon aiuto, un buon appoggio. Se ne accorgeranno, casomai, la prima volta che il medico specialista, a pagamento, da cui sono sempre andati si negherà nel momento in cui stanno male. Può darsi, allora, che si accorgeranno che io non sono né peggio né più generico nei consigli o nelle proposte. Lo ripeto: il discorso della relazione umana è fondamentale. Le esigenze sono sempre più esigenze sociali, non solo mediche. Siamo riusciti, rispetto a 15 anni fa, a prolungare la vita della gente, ma poi la facciamo vivere sola, senza nessun interesse, abbandonata a se stessa, in condizioni economicamente sempre più precarie perché l'assistenza può anche costare diversi milioni al mese ... In questo senso, le soluzioni, per ora, sono completamente affidate alla buona volontà del singolo medico. Io prendo in mano il telefono, chiamo I 'assistente sociale, segnalo il caso, sento cosa si può fare, seguo qualcuno nella pratiche della pensione, nel dirgli che carte deve fare, nelle piccole pratiche assicurative; la certificazione mia è il primo scalino per poi fame allri. Loro non sanno assolutamente da chi andare e passano prima da me. In realtà, lo studio del medico di base è un luogo di osservazione, di ascolto del disagio. Per questo, fra l'altro, molti di noi si batteranno fino ali 'estremo perché in ogni caso ne resti gratuito l'accesso. Il ticket che avevano proposto sulla visita del medico curante, poi solo sulla prima visita, cosa vuol dire? Se è una polmonite, so che lo vedrò almeno 4 o 5 volte, paga una e le altre 5 lo vedo gratis, ma se uno sta male, nel senso che non ha un buon rapporto con se stesso, poniamo con la sua digestione, qual è la prima visita? Quella di oggi, quella di otto mesi fa, o quella di otto anni fa? Se uno sta male perché ha dei conflitti in casa, qual è la prima volta? Il ticket sulla prima visita è una bestialità, una cosa senza senso. E' il voler ridurre a regole economiche quello che in realtà bisogna affrontare con altri criteri. Ma si dice che il dispendio di medicine sia ormai eccessivo e non giustificato da reali patologie. Lì, al momento di decidere, ci siete voi. Cosa sta succedendo? Non c'è dubbio che i maggiori controll i, l'ansia di risparmiare, ci stressa non poco. Qui a Verona, già da anni, siamo controllati sulla spesa farmaceutica. Ogni tre mesi ti mandano un foglio, elaborato da un calcolatore centrale, dove ti dicono quanto hai fatto spendere per assistito e la media della spesa dei medici del Veneto. Quindi tu sai se sei tra i medici che fanno spendere di più o di meno. Io non sono un "buon" prescrittore in questo periodo. Prima di tutto perché può capitare che ci siano delle patologie particolari, per esempio certi farmaci antitumorali che costano trecentomila a fiala, e se ne hai tre di pazienti in quella terapia, il tuo budget per i farmaci sparasubitocifreterribili. Poi, avendo una popolazione anziana, la frequenza di medicine assunte è molto più alta che non in una popolazione più giovane. Ad ogni modo, anche sulle spese per analisi, visite specialistiche, radiografie, e tutto quello che non è la prescrizione del farmaco, promettono che entro breve arriveranno controlli ben precisi. Allora, la battaglia sarà ancora più dura con certi pazienti perché dopo saremo chiamati noi ad essere responsabili di questi costi. Il che può costituire uno stimolo a un'educazione sanitaria del paziente e, per il medico di base, a non essere un puro passacarte, un burocrate. Devo dire che non sono contrario a questo banale controllo sulla spesa, anche se creerà dei problemi. Ovviamente nessuno lo vive con intenti punitivi: se vado sopra la media, nessuno dice niente. Però a me piace andare a vedere quali sono le medicine che prescrivo di più. Ed è un buon servizio perché, come ovunque, troviamo anche la meschinità: colleghi che si accordavano con le case farmaceutiche per vendere tanti pezzi di una certa medicina in cambio di viaggi e altro. Quando tutto viene registrato elettronicamente, se emergesse che io prescrivo solo i farmaci di due case farmaceutiche, qualche sospetto potrebbe nascere. Si stanno diffondendo sempre più pratiche di medicina alternativa. E ci sono pazienti molto esigenti, informati, a volte anche presuntuosi, che vanno dal medico perché quella cosa l'hanno letta sul giornale. Che problema creano al medico di base? Certamente, oggi c'è un'informazione sanitaria molto più diffusa. Credo che il problema stia nel singolo medico che deve dare risposte concrete a ogni singolo paziente. Tutto dipende dalla fiducia che il paziente ha verso di me, ci deve essere una serenità nel rapporto che permetta di dirmi tranquillamente se sta seguendo la medicina alternativa o un'altra cosa. E da parte mia devo poter contrapporre una argomentazione seria oppure aver la modestia di non modificare quella che può essere una sensibilità, un'intuizione, un modo di fare che forse risponde, in quel momento, al disagio di quel paziente. Mi pare che il trionfalismo della medicina occidentale, ancora molto sostenuto a certi livelli specialistici, stia conoscendo un ridimensionamento tutto sommato salutare. E credo che ci sia la possibilità di fornire lo stesso un buon servizio, perché i disagi della gente sono molto spesso disagi esistenziali. Di medicina psicosomatica ora si parla e straparla, ma non c'è dubbio che ci sono moltissimi disturbi con una componente emotiva, con una componente sociale, con una componente non strettamente organica, che possono essere meglio affrontati insieme che non dal paziente da solo. Allora io sono sufficientemente sereno da sapere che, salvo casi precisi e circoscritti, le mie medicine, di solito, non sono eccezionalmente più valide rispetto ad altre cose. Se uno ha l'ulcera posso avere nella medicina occidentale attuale dei buoni strumenti per cicatrizzarla anche senza portarlo al tavolo operatorio, ma se uno ha una gastrite da stress e la vuole curare prendendo dei rimedi alternativi in cui ha fiducia o che ha voglia di sperimentare, non credo che io debba impedirglielo. Nel caso degli antinfiammatori, che sono, fra l'altro, un notevole capitolo di spesa, noi dobbiamo am-

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