Una città - anno VI - n. 47 - gen.-feb. 1996

■ ■ ■ nuta insopportabile. Si vedono già dei segnali in questo senso. I motivi per inquietarsi non mancano. nento di un nuovo razzismo, non più biologista, 1 necessità di riaffermare con forza il primato rario, hanno tutti la potenzialità di muoversi, ;itari. La tenuta, per ora, degli Stati nazionali. raentidi lotta. Intervista a Pierre-André Taguieff. Ma sarebbe veramente grave andare verso una fonna di neo-razzismo europeo, per cui chi non è cli razza bianca, di cultura europea, più o meno cristianizzato e democratico, è ritenuto un pericolo per l'Europa. Questa tendenza è già visibile nei comportamenti sociali, quando polacchi, ungheresi, russi, ucraini sono considerati immigrati buoni, contrapposti a maghrebini, turchi, caucasici, visti come dei meteci. Per evitare questo non c'è dubbio che vada rafforzata la protezione legale delle minoranze esposte alla discriminazione e alla persecuzione, mediante una legislazione antirazzista che non può essere diversa per ogni Stato europeo, ma comune a tutta l'Europa. So bene che non si lotta contro un fenomeno etno-socialecomplesso come il razzismo semplicemente con cielle leggi, ma queste permettono di evitare debordamenti, cli fissare una soglia simbolica o anche solo di far paura. Durante le guerre civili le leggi non contano più. ma finché siamo in pace le leggi sono necessarie a garanzia della convivenza etnica. ma, un certo mescolarsi dei diversi gruppi, mentre a Sarajevo, come ha scoperto Emmanuel Todd, il tasso dei matrimoni misti fra bosniaci mussulmani, serbi ortodossi e croati cauolici era basso. Questo vuol dire che, quantomeno, c'era un ripiegamento dei diversi gruppi su se stessi. Credo in realtà, come ho già accennato, che il problema della Bosnia si inquadri nel problema più generale costituito dall'invenzione di piccole nazioni in seguito alla diffusione di sentimenti nazionali nati dai trattati di pace del '19, impregnati dell'ideologia del presidente americano Wilson, secondo cui il principio di nazionalità, "ogni popolo, ogni cultura ha diritto a uno Stato", si doveva applicare a tutti i livelli, anche alla più piccola popolazione che si sentisse un popolo. Ma così, e lo stiamo vedendo, nessuna grande unità, nessuna macro-nazione può esistere perché le entità complesse sono destinate a dissolversi in unità sempre più piccole. Se arriviamo alle estreme conseguenze di questa regressione all'infinito si potrebbe giungere all'idea che siano solo i legami di parentela e la famiglia a fondare l'unità del gruppo. Insomma, avremmo tante belle unità biologiche su cui fondare altreuanti piccoli Stati! Sfortunatamente, nell'ex-Jugoslavia l'ideale federale, o confederale, è sempre stato distorto da un ideale nazionalista. Con l'immagine della "vecchia Jugoslavia meravigliosa·• non bisogna esagerare: era pur sempre un regime, sotto Tito. a metà strada fra autoritarismo e totalitarismo, in cui confliui e difficoltà di coabitazione interetnica erano ben mascherati. A proposito degli Stati nazionali, lei crede possibile una loro dissoluzione? Credo che non siamo ancora usciti dall'epoca degli Stati nazionali. Anche se colpiti dall ·alto e dal basso, dalla mondializzazione economica e dal localismo, sono ancora gli Stati nazionali a fare la grande politica internazionale. Contrariamente alle profezie liberali di un'estensione planetaria del mercato, di un commercio "dolce" che "ingentilisce i costumi", il capitalismo non solo non li ingentilisce, ma alimenta i micronazionalismi, ossia i confliui identitari più bassi, nonché lo scontro fra civiltà diverse. Il capitalismo selvaggio, che unifica il mondo in un grande e unico mercato. è una macchina che distrugge, senza rimpiazzarle, le identità del mondo, che, allora, molto più convulsivamente che in passato, si ricreano un po' ovunque, pensandosi miticamente secondo il principio di nazionalità e legittimandosi con l'ideologia del relativismo culturale, secondo la quale ogni cultura ha diritto ad essere rispettata e ad esistere politicamente. Non credo che il prossimo secolo sarà il secolo dell'unità armoniosa del mondo. Al contrario, sarà il secolo della radicalizzazione e moltiplicazione dei conflitti di identità, etnici o nazionali che siano, e dei conflitti fra grandi civiltà. Pertanto, quello che chiamiamo, più o meno correttamente, "razzismo" non soltanto continuerà ad esistere, ma passerà all'atto in un modo molto più grave che in passato. Attraverso una mobilitazione dei gruppi si potrebbe creare una situazione simile a quella già verificatasi negli ultimi anni in Africa, che ha conosciuto genocidi o quasi-genocidi. Nei prossimi dieci o trent'anni assisteremo a una dismisura identitaria conflittuale, mai vista prima, che segnerà il passaggio al XXI secolo. I razzismi saranno veicolati da tali conflitti identitari. Oggi, nelle società sviluppate, sul piano delle pratiche sociali, il razzismo si manifesta nelle discriminazioni sul lavoro e nelle segregazioni abitative, che colpiscono soprattutto gli immigrati, nell 'ammassamento degli "scarti dell'umanità" in luoghi ben definiti e nelle innumerevoli persecuzioni quotidiane. Ma questo è nulla rispetto a ciò che potrebbe succedere se gli Stati nazionali, che sono pur sempre degli Stati di diritto, scomparissero per effetto della mondializzazione. In quel caso non ci sarebbe più alcuna protezione. Non si vede come una legislazione che protegge le minoranze etniche dalla segregazione, permettendone, se lo vogliono, l'integrazione in una entità più vasta, possa funzionare B ro raotetcai CGì°n'b sviluppate, che sono molto giuridiche, sono, malgrado tutte le discriminazioni, quanto meno protettive nei confronti degli stranieri grazie al diritto d'asilo, ai diritti economici, civili e sociali. Ad esempio anche se privo dei diritti civici uno straniero può farsi curare in Francia pur sprovvisto documenti, perché c'è una deontologia. Ora, le nostre leggi e istituzioni antirazziste funzionano. che lo si voglia o no, a condizione che funzionino gli Stati di diritto che, fino a nuovo ordine, coincidono con gli Stati nazionali. Se gli Stati nazionali dovessero esplodere, noi entreremmo in una fase di transizione caotica dove i primi ad essere sacrificati saranno certamente i più deboli, i mal protetti. Non v'è dubbio che la mondializzazione provoca delle brecce nella sovranità degli Stati nazionali. Distruggendo posti di lavoro, producendo disoccupazione alimenta un razzismo da concorrenza verso una manodopera straniera considerata inutile. Negli anni che verranno, nei paesi sviluppati, il razzismo anti-immigrati non potrà che crescere: la presenza di immigrati che beneficiano della protezione e dei vantaggi dello Stato sociale sarà sempre più rite- ,-;'.::::~;:::~_.;;~::,. ,, · i;:::tlii02 In questo scenario cosa può fare una coerente pratica antirazzista? Credo che bisogna ricercare in primo luogo l'integrazione culturale delle minoranze straniere attraverso l'apprendimento della lingua, il rispetto dei costumi del paese di accoglienza. ecc. per non creare delle isolette comunitarie, dei ghetti. In secondo luogo, non bisogna considerare l'assimilazione come obbligatoria, bisogna rispettare le minoranze nel loro desidèrio di conservare certi tratti identitari, finché non costituiscono dei modi di esclusione e stigmatizzazione verso la maggioranza della popolazione. Volendo salvaguardare l'esigenza di universalità, non si deve partire dal diritto alla differenza per le , : ;.: :,Jf;:&;zfl1Y.!i1.:; :, • ', •✓~ :i~>:tjf itlA¾~tJ .•· ~'-~~-t~~1k;,;;$ffJq?t[@h ~ ~ /1/Y. --~~it;i~lJtllifJ~ r N • ~:❖=t••x~ _.; =*f P:J::--=.W.t#}f-- :::?.~¼~;;:(4W ~.•. ,~:::=?4-:...-/ '.:;;itrilll,w1tir minoranze: sarebbe un errore. Si deve partire eiaun 'idea molto semplice: moltiplicare i mezzi per ogni minoranza di integrarsi, privilegiando l'ingresso degli individui, più che dei gruppi. nella società globale. li modello anglosassone. ossia l'ingresso dei gruppi comunitari in quanto tali nello spazio sociale e politico, mi sembra un pessimo modello, per giunta iperconflittuale. In Francia non abbiamo mai avuto conflitti etnici simili a quelli che, da una decina d'anni a questa parte, colpiscono l'Inghilterra e che sono vere e proprie guerre civili. Ci sono comunità che abitano in alcuni quartieri di Londra, proibiti cli fatto a tutte le altre comunità, che un giorno mettono a ferro e fuoco "tutto ciò che passa", ingaggiando battaglie rabbiose con le comunità che abitano nei quartieri vicini. Mi sembra un modello molto pericoloso che non possiamo adottare, perché il ghetto, cioè il modello di una società compari imen tata dove ognuno sta con i suoi, va bene finché non ci sono i morti, ma non rappresenta certo un modello ideale di società. D'altra parte, però, la Francia deve moderare il proprio assimilazionismo. lo sono favorevole a un assimilazionismo sfumato, moderato che non si rovesci in stigmatizzazione, perché l'astuzia clell'assimilazionismo, di quello che chiamerei "razzismo universalista", è considerare esseri inferiori tutti quelli che non vogliono assimilarsi alla società globale o che non possono, perché troppo anziani o perché trovano difficoltà ad apprendere una nuova lingua o per altre ragioni ancora. In altri tennini, il "razzismo universalista" consiste nel gerarchizzare gli individui a seconda che siano più o meno assimilabili. Quindi, l'assimilazione in quanto tale non è un valore assoluto, bisogna che sia correua dal rispetto delle differenze. Insomma, il mio sistema è un piccolo meccano: correggere gli eccessi dell'universalismo mediante il differenzialismo e sottomettere il differenzialismo a valori universali. Può essere una buona politica promuovere lo scambio tisico e culturale fra i diversi gruppi della popolazione? Rispetto alla questione della mescolanza, direi che non bisogna rovesciare semplicemente la tesi differenzialista. Se per il razzismo differenzialista la mescolanza è il peccato più grave, se l'avversario che combatto è terrorizzato dalla mescolanza, ciò non basta a fanni dire che questa è positiva. Bisogna lasciare la mescolanza nel silenzio della legge. Sulla scelta di fare o meno matrimoni misti non bisogna legiferare troppo né spingere troppo. Credo che più le società si alfabetizzano, più gli individui posseggono saperi astratti, più sono in movimento e più i matrimoni misti si verificheranno in modo del tutto naturale. La mescolanza si realizzerà poco alla volta, anche se non si farà mai integralmente: l'umanità resterà sempre diversa. Bisognerebbe piuttosto moltiplicare i mezzi, le condizioni affinché un matrimonio misto non sia percepito come un peccato contro il sangue. D'altra parte credo che questo movimento verso la mescolanza si vada realizzando grazie al processo di individualizzazione progressiva, che, devo dire, corregge un po' la mia visione pessimista sullo scontro inevitabile fra le diverse civilizzazioni e la moltiplicazione dei conflitti identitari. In questo senso, è il fattore di una pacificazione possibile. L'individualizzazione, o meglio la crescita culturale, geograficamente diffusa, fuori dell'Europa e dei paesi sviluppati, di individui con spirito critico, separati dalle tradizioni e in grado di prendere le distanze dalle rispettive chiusure comunitarie, etniche o religiose, è senz'altro un movimento molto positivo. La mia è una valutazione molto soggettiva, ma ritengo positivo anche il processo crescente di irreligiosità, che si accompagna all'individualizzazione e alla de-tradizionalizzazione dell'esistenza. Ovviamente, questo produce anche una domanda di senso che, se disattesa, può produrre effetti perversi, nuove imposture, come la new age, le sette e dare spazio a mercanti di sogni e di paradisi artificiali. L'umanità, sbarazzandosi del senso che le era dato dalle tradizioni e dai costumi, deve da se stessa ridarne uno alla propria esistenza. E comunque, dal punto di vista della lotta contro il razzismo, questo processo di individualizzazione è una buona cosa, perché un individuo può liberamente scegliere di sposarsi con chi gli pare senza che il matrimonio sia imposto dalla tradizione o dal colore della pelle. E' un processo di lunga durata molto positivo. Per concludere. Qual è il problema principale di una cultura antirazzista? Occorre cominciare a pensare una cultura antirazzista post-antifascista, che purtroppo non esiste ancora - e questo lo considero catastrofico-, perché le organizzazioni antirazziste continuano a vivacchiare sulle ultime briciole di una vecchia eredità. Bisognerebbe invece partire non già da una memoria che corrisponde sempre meno alla realtà, ma da un'analisi del presente, degli avyenimenti, delle tendenze profonde, di quel che si sta preparando con la mondializzazione e riflettere su una pratica antirazzista che verosimilmente non avrà niente a che vedere con quella cui siamo stati abituati. Fino agli anni '80 la legislazione antirazzista pennetteva di far condannare capi di gruppuscoli neo-nazisti microscopici che avevano detto di fronte a testimoni qualche mostruosità sugli ebrei o sugli immigrati. Tutto qui. La legislazione antirazzista era fatta per evitare la rinascita del nazismo. Più che antirazzista era una legislazione antinazista o antineonazista. Ma oggi il nazismo non è più un problema, il vero pericolo non è rappresentato da ragazzi che folkloristicamente si travestono da Hitler o Goebbels. Le cose sono cambiate, la xenofobiaanti-immigrati è una pratica razzista sostenuta da una simpatia sociale, secondo tutti i recenti sondaggi, che tocca il 30% circa dell'opinione pubblica nei paesi occidentali e non si lotta contro un terzo della popolazione, contro un partito come quello di Le Pen, che ha 4,5 milioni di elettori, come si lotta contro ridicoli gruppuscoli nazistoidi. Dobbiamo ripensare tutti gli strumenti di lotta. Siamo di fronte a pericoli, che non sappiamo nemmeno come chiamare: Fascismo? Populismo? Nazionalismo etnico? Tribalismo? Siamo poveri di idee, di pensieri, di analisi. Penso che l'antirazzismo abbia toccato forse il punto più basso della sua recente storia, poiché lo scarto fra le analisi che propone e la realtà che si sta preparando è aumentato enonnemente negli ultimi 7-8 anni. Per impiegare un'analogia utilizzata da Freud ne Il disagio della Civiltà, noi stiamo per partire per il Polo Nord con un equipaggiamento adatto a visitare i laghi italiani. • UNA ClnA'

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