Come è potuto succedere che il relativismo culturale, cavallo di battaglia dell'antirazzismo, sia divenuto il fondan non più convinto dell'inferiorità di qualcuno, ma esaltatore della differenza e del valore di ogni cultura. La dell'universale: gli uomini non sono condannati fatalisticamente a vivere nella cultura in cui nascono, al con cambiare. La mondializzazione che distrugge le identità e la diffusione di micronazionalismi e conflitti idenfi L'allontanamento dalla religione spinge gli individui alla mescolanza. La necessità di ripensare tutti i nostri strum Pierre-André Taguieff è direttore di ricerca al CNRS e professore ali' Istituto di Studi Politici di Parigi, da tempo si occupa di razzismo e antisemitismo. Nell' intervista si/a riferimento a: La forza del pregiudizio Il Mulino '94, Les fins de l'antiracismeEd. Michalon'95 e Les Protocolesdes sages de Sion. Faux et usages d'un faux Berg lnternational '92. Può spiegarci attraverso quale tragitto di ricerca lei è arrivato a mettere sotto accusa molto duramente il discorso antirazzista dominante in Europa? Ne la forza del pregiudizio, apparsa nell '88, ho appuntato la mia attenzione essenzialmente sulle ideologie razziste costituite, non sui comportamenti sociali razzisti. Anche se ora il razzismo comportamentale, ossia le attitudini, le opinioni, i sondaggi, così come le pratiche sociali che stigmatizzano, discriminano o segregano è al centro della mia ricerca. Bene, in quella ricerca ho riscontrato uno scarto fra il bersaglio del discorso antirazzista dominante in Occidente dal '45 in poi e i discors·i ideologici che oggi possono consideràrsi razzisti. Questi discorsi non si riferiscono più in alcun modo alla nozione di razza biologica, intesa come varietà di una specie definita attraverso criteri somatici, morfologici, anatomici o genetici. In pratica, il pensiero razzista ha conosciuto una de-biologizzazione. ln secondo luogo, non si trovava più, o sempre più raramente, l'affennazione di una diseguaglianza o di una scala gerarchica fra gruppi umani denominati "razze", bensì c'era l'affennazione di una differenza insonnontabile, irriducibile fra gruppi umani chiamati ora "popoli", "nazioni", "culture" oppure "civiltà", "mentalità". In altre parole, questi due spostamenti daJla razza biologica alla cultura e dall 'affennazione dell'ineguaglianza all'affennazione della differenza assoluta, mi sembrarono segnare una mutazione nel discorso ideologico razzista. Ho chiamato questa nuova fonna di razzismo non-biologico "neorazzismo culturale e differenzialista". All'inizio questa mia analisi ha scioccato, non è stata compresa e ho dovuto affrontare molte polemiche con esponenti dell 'anti-razzismo professionale e istituzionale, che avevano una certezza assoluta: il razzismo doveva avere un volto nazista. Ma questo non era altro che la nazificazione del razzismo: tutto ciò che non assomigliava ai discorsi nazisti non era considerato razzista; un discorso razzista doveva essere implicitamente neonazista. Anch'io all'inizio condividevo questa prospettiva, ma poco alla volta mi sono allontanato dal1 'idea per cui ogni razzismo è una fonna bio-inegualitaria di pensiero. Anzi, mi convincevo sempre più dell'esistenza di un razzismo de-biologizzato e differenzialista. Molti studiosi anglosassoni avevano già osservato l'importanza assunta dall'affermazione della differenza, ma pensavano si trattasse di una modo mascherato di affermare l'ineguaglianza, mentre a mio avviso, invece, si tratta di pura affennazione della differenza. l'antirazzismo è innanzitutto lotta contro se stessi Attraverso un relativismo culturale radicale si può inventare un razzismo, perché non c'è contraddizione tra l'affennazione di una differenza insonnontabile e quella del pluralismo culturale. E qui arriviamo alla difficoltà interna dell'argomentazione antirazzista: il relativismo culturale, più o meno radicale, era la macchina da guerra dell'antirazzismo. L'antirazzismo faceva la lezione ai bambini nelle scuole dicendo: "Decentratevi, rispettate le differenze, siate coscienti che l'umanità è variegata". E credeva, attraverso questa affennazione della differenza, di lottare definitivamente contro il razzismo. Albert Jacquard aveva pubblicato un libro nel 1978 intitolato significativamente Elo- B . 'h della dijf1re11zrofi se l'elogio della differenza potesse essere un' argomentazione radicalmente antirazzista. Non è vero: si può fare del razzismo anche attraverso l'elogio della differenza! Ho tentato di mostrare che le cose erano più complesse di quanto gli antirazzisti potessero pensare e di mettere in luce le zone di ambiguità fra neorazzismo e antirazzismo. Per questo certi ambienti antirazzisti hanno pensato addirittura che facessi il gioco del loro nemico. La polemica lanciata nel '93 dale Monde ruotava intorno all 'ideache, a forza di analisi sofisticate e precise, finivo per legittimare ciò che studiavo. E questa è un 'assurdità, perché ogni scienziato, e io sono un ricercatore, lavora con passione e senza limiti nel suo campo! Ma in quanto cittadino sono impegnato contro il razzismo. Ho sempre distinto un lavoro scientifico che poteva portare a dei risultati imprevisti da un impegno civile che deve tener conto di ciò che è accettabile o meno in una situazione data, perché quando si entra in un dibattito pubblico si deve tener conto delle conseguenze di quel che si dice. Tuttavia l'aver mostrato come non ci fossero differenze assolute fra le argomentazioni antirazziste da un lato e quelle neorazziste dall'altro -anzi, emergeva un continuum-; l'aver relativizzato la posizione antirazzista, mostrando come fosse incerta, malfondata, in quanto utilizzava spesso gli stessi argomenti del suo avversario, in particolare il diritto alla differenza, il culto delle identità culturali o dell'etnicità; l'aver dimostrato che si sbagliava sul conto del suo avversario, ritenendolo eternamente somigliante a Gobineau o a Hitler, mentre non è più così, tuttò questo ha fatto scandalo. In tal modo si complicavano le cose mentre il postulato antirazzista è un postulato eugenetico di disannante semplicità: essere antirazzista significa non essere in alcun modo razzista! L'antirazzismo, invece, è una lotta con se stessi, contro i propri pregiudizi razzistoidi, non solamente contro un nemico cattivo che sarebbe totalmente razzista e che si potrebbe insultare, ingiuriare, gettare in prigione oppure eliminare. Come si è costruita, nel tempo, questa continuità fra razzismo e antirazzismo basata sul culto della differenza e sulla riduzione dell'individuo alle sue origini culturali? Una certa fonna di antirazzismo è nata nel periodo fra le due guerre mondiali dal relativismo culturale degli antropologi e degli etnologi che facevano la lezione agli occidentali dicendo: "La nostra ideologia evoluzionista, che suppone un progresso continuo dei popoli arretrati verso la condizione dei popoli evoluti, ossia i bianchi occidentali, deve essere abbandonata a vantaggio di una visione relativista fondata sul! 'eguaglianza delle culture, quali esse siano". ln altre parole, il primo gesto dell 'antirazzismo erudito fu quello di eguagliare tutte le civilizzazioni, le culture, le mentalità, le fonne di vita, dando così avvio a una deriva ideologica verso la tesi secondo cui l'essenza di un individuo, quello, cioè, che un individuo è nel profondo di se stesso, risiede nella sua cultura di origine. Pertanto, nascere in una cultura detenninata vuol dire essere parte di questa cultura, qualsiasi cosa si faccia poi: la cultura è un destino. "Ci sono tanti destini, quante culture", ma questo è falso. E' una specie di neofatalismo particolarista in cui l'individuo è ridotto alla sua cultura, è chiuso nelle sue origini e nei suoi sistemi di appartenenza, come se costituissero uno stato di natura: la cultura diventa natura. Se così fosse, si potrebbe dire a un bianco moderno: "La tua natura è quella di essere il rappresentante della civiltà tecnico-scientifica, niente di più. Non potrai mai comprendere i modi di vivere di una tribù o di un 'etnia africana". Anche i testi antirazzisti dell'Unesco, che vanno dal 1950 al 1953, pur se formalmente ben fatti, cadono nell'illusione relativista che non si possano fare comparazioni, il che vuol dire che non vi sono tennini comuni. Presuppongono, insomma, la tesi del!' incommensurabilità che si rifà al principio di Shapiro, secondo cui gli esseri u~i sono chius~e 0oro culture, senza porte né finestre, senza appartenere ad una comune umanità. Ma l'individuo umano si caratterizza, invece, per una grande mobilità geografica e culturale e per una grande malleabilità che non lo costringe certo a riprodurre le sue caratteristiche culturali di origine. Quella teoria fissi sta è smentita dai fatti. Non solo: ma sul piano filosofico e metafisico questo neofatalismo, questa chiusura in un destino culturale mette le briglie alla libertà umana. L'assunto relativista, quindi, oltre che falso scientificamente è metafisicamente condannabile, perché nega la libertà degli individui: ogni difensore della libertà umana dovrebbe ribellarsi contro una simile riduzione al fatale, all'ineluttabile. Al contrario, un antirazzismo filosoficamente ben fondato, argomentativamente coerente dovrebbe essere radicato nel principio, nell'esigenza di universalità. Per fare questo si deve supporre non solo una natura biologica e genetica comune a tutti gli uomini, ma anche l'esistenza di universali culturali comuni. Non sto parlando, evidentemente, di costumi, ma di potenzialità che fanno sì che tutti gli uomini, alla nascita, possano accedere a ogni fonna di cultura. Ma non vi è una contraddizione radicale e insanabile fra universalismo e particolarismo delle differenze? Il primo tentativo serio di superare questa antinomia fu portato avanti negli anni '30 e '40 da pensatori cattolici come Jacques Maritain, Henri de Lubac e altri che cercavano di articolare l'universalismo cristiano -per definizione la cattolicità è universalità- con il rispetto delle differenze. Ma, significativamente, la soluzione proposta viene sempre espressa attraverso metafore, immagini, analogie e simboli del tipo: "Tutti i ruscelli sfociano nel medesimo fiume", o anche: "L'umanità è una sinfonia a molte voci tutte egualmente rispettabili che contribuiscono a creare questa 'bella totalità"'. Si tratta di un tentativo estetico di superare una difficoltà che non è estetica, ma antropologica, etica. Estetico perché lo schema della soluzione, del superamento, dell'Aujhebung in senso hegeliano, non è che la definizione più classica della bellezza: la varietà nell'unità, l'unità nella varietà. E' la definizione di kòsmos più diffusa nell'antica Grecia. Ne la forza del pregiudizio ho proposto che nel!' ordine etico e metafisico I' affermazione della differenza, del particolare sia subordinata all'affennazione dell'universale, cioè di una comune essenza, di una natura comune a tutti gli umani, quali che siano le loro reciproche differenze. i caratteri universali e quel nonsoche caratteristico di ognuno Il rispetto delle differenze viene solo secondariamente attraverso la loro conoscenza, che ci è data dall'antropologia culturale. E' una soluzione semplice, forse semplicista, ma non si può esitare nel!' essere chiari su un problema che tocca il fondamento. Se si pensa che le differenze sono prioritarie non si giungerà mai ali 'universale, ma solo a una somma di elementi eterogenei. La differenza è un fatto, ma non si può eleggerla a norma senza cadere in quel sofisma naturalista che consiste nel derivare da un "questo è" un "tu devi". L'etica non si può ridurre ad una semplice inferenza a partire dai fatti né può fondarsi su quel che la scienza dice o su ciò che il senso comune constata. Ora, l'esigenza di universalità rivela una posizione etica, che, miracolosamente direi, corrisponde a ciò che la biologia ci insegna. Che gli umani non nascono con istinti particolari legati a questa o quella cultura, ma, al contrario, con un certo numero di attitudini, di comportamenti comuni a tutti, universali, è il riflesso fattuale, attestato dalle neuroscienze, dalla genetica, dell'esigenza di universalità. E questa, ripeto, è un'esigenza etica, ossia l'esigenza di considerare sempre l'altro, chiunque sia, in primo luogo un mio simile, qualcuno che mi assomiglia, con il quale condivido un certo numero di tendenze e interessi, qualcuno con il quale posso comunicare e dialogare. Anche se siamo separati dalla lingua, si può sempre tradurre. Si possono tradurre le culture l'una nell'altra, anche se tutto non può essere tradotto, anche se c'è sempre quel non-so-che che appartiene ali 'esperienza singolare di un individuo all'interno di una cultura particolare. Ogni individuo ha un proprio non-so-che. "Non-so-che" è una bella espressione che viene dal XVII secolo e può ben definire lo charme proprio a ogni individuo. Il razzismo differenzialista è per lei più pericoloso del razzismo tradizionale, inegualitario, perché può portare al genocidio. Può spiegare? li razzismo classico, che va dalla seconda metà del XIX secolo fino alla sconfitta del nazismo, pur essendo inegualitario presuppone nondimeno una comparabilità fra le razze umane. Per situarle su una sola scala di valori, per stilare una classifica che vada dalle razze superiori a quelle inferiori, occorre che siano innanzitutto comparabili, che abbiano, quantomeno, qualcosa in comune. Nel nazismo, invece, si aveva un mix fra il razzismo classico, bio-inegualitario, la cui logica sociale e politica è il dominio e lo sfruttamento economico delle razze inferiori, e il razzismo differenzialista, la cui logica è l'esclusione, la proibizione di ogni contatto, lo stern1inio di quella che non si considera neppure una razza inferiore, ma una non-razza o contro-razza, pericolosa per il fatto stesso di esistere. Hitler e Himmler utilizzavano la parola gegenrasse (antirazza) nei confronti degli ebrei. La distinzione fra razzismo di sfruttamento e razzismo di sterminio permette di comprendere la doppia valenza dei campi di concentramento, allo stesso tempo luoghi di sfruttamento e di stenninio. Si poteva sfruttare il lavoro degli ebrei finché era possibile, ma nel contempo si utilizzavano le camere a gas per portare avanti la logica dello sterminio. Anche gli ebrei che lavoravano, quelli che ne avevano ancora la forza, erano comunque votati alla morte. Gli storici revisionisti, rifacendosi per I' appunto al concetto di razzismo di sfruttamento, negano il genocidio hitleriano degli ebrei, sostenendo che in fondo Hitler non aveva alcun interesse a distruggere mano d'opera sfruttabile in tempo di guerra. Ma in Hitler c'era anche qualcos'altro che non aveva niente a che vedere con una mentalità di tipo economico, basata su scelte razionali. C'era una mentalità mitica, una visione mitica, secondo la quale sfruttare una contro-razza è pericoloso perché questa è contagiosa, incarna un virus, un bacillo: è una malattia. Tutto ciò non ha niente a che vedere con il razzismo di sfruttamento di stampo coloniale. Questa differenza fra razzismo coloniale e razzismo nazista era già stata messa in luce da Jeanne Hersch, in un articolo del 1967 apparso su Diogène, ripreso da Finkielk.raut nel suo la défaite de la pensée. L'articolo però non evidenziava la differenza fra le diverse logiche: sfruttamento e sterminio, ineguaglianza e differenza, biologizzazione e culturalizzazione. Ma a questo punto la parola "razzismo" può ancora essere utile? Non si possono certo cambiare le parole come si cambiano i vestiti, non si può fare del!' eugenismo lessicale, ma certamente si tratta di una parola mal fabbricata, che in se stessa inganna. Bisognerebbe usare altre parole come "culturalismo" o "etnismo" che, però, hanno già un altro senso. Per esempio è addirittura scandaloso parlare di razzismo nel caso di un sentimento di identità etnica, che può essere assolutamente legittimo e innocente. In un ebreo o in un maghrebino -per intendere un 'identità al contempo etnica e religiosa-, l'attaccamento alle proprie origini, quando non assolutizzato né integrato in un'ideologia politica esclusivista o xenofoba, non ha nulla di censurabile. La parola "razzismo" andrebbe applicata a pratiche di persecuzione motivate da criteri somatici -il colore della pelle per esempio-, ma non a quelle motivate da criteri religiosi: sarebbe ingannevole. A mio avviso, per esempio, non si può dire che i serbi siano razzisti in senso stretto verso i bosniaci. Si potrà parlare di xenofobia, di relazioni inter-etniche conflittuali, ma non di razzismo. Si tratta di etnie a base religiosa che si credono delle nazioni dal 1918- '20 dopo l'invenzione di piccole nazioni in seguito ai trattati di pace che posero fine alla guerra' 14-' 18. Tutti i micronazionalismi europei sono, essenzialmente, invenzioni tedesche, inglesi, francesi o statunitensi per sbarrare la strada a quel pessimo universalismo che era il bolscevismo. Alla fine del XX secolo paghiamo ancora il prezzo di questa operazione. E si badi bene che l'etnicità, una volta inventata, diviene reale. L'errore di certi antirazzisti è credere che poiché un gruppo culturale e nazionale è stato inventato, creato dalla storia e nella storia, non abbia un 'esistenza reale. E invece sì, esiste, anche se è il prodotto di una strategia strumentale. Tornando alla domanda, ho cercato di ridefinire il termine "razzismo", innanzitutto declinandolo al plurale, cercando di distinguere più razzismi e altrettante forme di antirazzismo. E già questo può spiegare tanti malintesi, tanti qui-pro-quo, tanti discorsi senza capo né coda fra razzisti e antirazzisti. Facciamo l'esempio del Front National: in un primo periodo, fino all '82- '83, fino al momento, cioè, della sua irruzione nello scenario politico francese, il Front National poteva essere attaccato sul piano ideologico per il suo razzismo "coloniale", inegualitario. le piccole nazioni inventate nel 1918 contro i bolscevichi Ma a partire dalla metà degli anni '80 Le Pensi è convertito all'argomentazione differenzialista, manifestando, contro gli immigrati, in particolare i maghrebini, una xenofobia mirata, selettiva per proteggere la differenza e l'identità francese e, più avanti ancora, per proteggere la stessa identità culturale degli immigrati, messa in pericolo dal contatto con i francesi. Era un 'argomentazione relativista culturale e differenziali sta che Le Pen aveva scoperto negli ambienti della Nouvelle Droite la quale, invece, è giunta fino a prendere posizioni ostili al Front National. Partita da un nazionalismo europeo razzista di tipo "ariano", passando per una fase differenzialista, la Nouvelle Droite francese è ora approdata a una forma, in se stessa non razzista, di difesa delle identità etniche, una fonna moderata di relativismo culturale che si può ritrovare in un teorico del nazionalismo etnico come Anthony Smith in Inghilterra o in Lévi-Strauss e che trovo del tutto legittima. Lei ha polemizzato a lungo con la Nouvelle Droite ... Ho lottato contro il razzismo differenzialista della Nouvelle Droite francese, ripreso dalla Nuova Destra in Italia, dalla Neue Richtung inGermania,così come in Russia o in Serbia. Ho notato però che c'è uno scarto rilevante fra il movimento francese e le sue imitazioni europee. Alain de Benoist si è evoluto: come molti che dalla Nouvelle Droite sono passati a sinistra, ha fatto una specie di autocritica. Lui non è passato a sinistra, ma non neè lontano. Il paradosso è che ha sempre questa etichetta "Nouvelle Droite" appiccicata addosso. L' argomentazione che lui ha messo a punto onnai va avanti da sola senza di lui. Ha, per così dire, milioni di discepoli in Europa che lui oggi ricuserebbe! Ha citato la Bosnia. Non costituiva forse un esempio di convivenza positiva fra diverse etnie senza che vi fossero discriminazioni? Ritengo che il problema della Bosnia sia estremamente complesso. Penso innanzitutto che l'immagine di coabitazione armoniosa fra popolazioni di diversa religione, appartenenti a etnie differenti, sia un'immagine di Epinal, un'immagine propagandistica. A mio avviso si giudica la Bosnia da Sarajevo, da una città cioè relativamente cosmopolita. Dico relativamente perché in tutte le città cosmopolite, piccole o grandi, c'è un certo amalga-
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