Una città - anno VI - n. 47 - gen.-feb. 1996

Alla base della sperimentazione sugli animali c'è un presupposto etico-culturale, non scientifico. Quello che dice che si può fare agli animali ciò che non si può fare all'uomo. La sperimentazione animale è divenuta uno schermo alla pigrizia della ricerca, un alibi alla commercializzazione di prodotti nocivi per l'uomo. La sempre maggiore difficoltà di usare un modello animale per le malattie moderne. La spinta alla ricerca di pratiche alternative deve venire dalla società prima che dalla scienza. Intervista a Franco Travaglini. Franco Travaglini, direttore di Cucina e salute, ha curato per Aporie il libro Vivisezione-Gli animali sperimentali nella ricerca scientifica e nella vita quotidiana. Ultimamente hai partecipato a molti convegni con veterinari e con ricercatori sul tema della vivisezione e sperimentazione animale. Quali problemi hai incontrato? Parlando anche con persone molto preparate, con docenti di queste materie, emerge in maniera assolutamente chiara che hanno grandi blocchi psicologici, forti resistenze a rinunciare ad un paradigma culturale che fa parte del loro modo di affrontare la vita e la professione. Senti dei veterinari dire: "Ma chi più di noi si pone il problema del benessere animale, del far star bene gli animali?", e poco dopo senti sempre gli stessi riferirsi al1'animale che viene usato nella sperimentazione dicendo: "Il prodotto noi lo"prendiamo da un allevamento specializzato". Oppure ti dicono: "Discutiamo pure del problema della sperimentazione animale, però l'uso degli animali è insostituibile". Anche solo riuscire a far sì che aggiungano semplici espressioni come "per ora", "date le conoscenze attuali", "finché non si trovano altre strade", diventa molto difficile. Sostanzialmente questo paradigma dice: "E' moralmente giusto fare agli animali quelle cose che invece agli uomini non è giusto fare". Per cui è giusto addomesticarli, ucciderli, mangiarli, usarli per la sperimentazione, tutte cose che nell'ambito delle relazioni fra umani, anche se poi si fanno lo stesso, sono messeall'indice dal punto di vista della morale e della legge. Voglio dire che ciò che rende gratuito l'uso degli animali dal punto di vista morale, ciò che per-· mette di far soffrire l'animale presentando poi su uno schermo tutti i dati rilevati e che ci consente Iranquillamente di dire: "Continuiamo così", è un presupposto culturale e non scientifico. Per spiegare questo concetto faccio un esempio che mi sembra calzante: le guerre hanno consentito grandi progressi nella chirurgia, nella medicina traumatica, e anche, a ·paì1ire dalle ultime guerre di massa, nella medicina sociale, nel controllo, cioè, di fenomeni morbosi che riguardano intere popolazioni. Ma il fatto che tutto ciò sia vero non è sufficiente per poter dire: ''Facciamo delle altre guerre perché così scopriamo aitre cose buone per il futuro dell'umanità". Ma ciò sarebbe perfettamente normale e legittimo seci immaginassimo una società in cui il paradigma culturale sia: "La guerra è ufl modo giusto e normale di risolvere i conflitti fra esseri umani". la guerra, per la medicina è stata utile Potremmo allora immaginarci un convegno sulla ricerca medica che riporti una serie di tabelle suquello che è successonella tal guerra, cosa si è ricavato dall'esperimento in vivo fatto durante la guerra, al cui termine si dica: "La prossima guerra che faremo, utilizziamola per bene. Ci potrà dare grossi risultati". D'altra parte, studiare gli animali non era certo il modo scientifico migliore per capire come funziona l'organismo umano o per conoscere la patologia umana. Lari- . cerca fisiologica di base dell'800 non ha preso prima gli uomini per poi dire: "No, non vanno benecome modello sperimentale, prendiamo il cane...". Hanno preso gli uomini e poi è cresciuto il rifiuto verso questa sperimentazione, tant'è che per un lungo periodo non si poteva fare neanche anatomia, si andava a trafugare i cadaveri e in Inghilterra, per questo motivo, si rischiava addirittura l'impiccagione. Tanto più, ovviamente, c'era il tabù dell'uomo vivo, anche sepoi magari prendevano i dementi. Ma tu sostieni che è discutibile anche dal punto di vista dei progressi scientifici... Tutti sanno e sostengono che la cosa migliore sarebbe sperimentare sull'uomo, perché nessuno è miglior modello di sesiesso. I veterinari, per esempio, dicono che la sperimentazione va fatta sul target specifico: se si cerca un farmaco per la brucellosi bovina si deve sperimentare sul bovino. Ma anche qui vediamo che i presupposti scientifici sono condizionati da altri presupposti, in questo caso economici. Un bovino costa tanto, un cavallo di più, per cui un conto è fare prove tossicologiche su cento 10polini cavia che costano mille lire l'uno e un altro farle sucento cavalli. Però è assolu1amentechiaro che la sperimentazione andrebbe fatta sul tariet specifico. Tant'è vero che poi anche la sperimentazione definitiva è fatta su li 'uomo. Quella sull'animale ha come unico scopo quello di arrivare a fare la sperimentazione sull'uomo, facendogli correre meno rischi possibile. E' un modo per raccogliere informazioni sugli effetti di un determinato farmaco, eliminando man mano sostanze che hanno effetti m;ingraditi. Alla fine. però, il farmaco va sperimentato sull'uomo, prima su quello sano, per vedere se non è dannoso, poi su quello malato per vedere se ha efficacia. Non a caso la vita sperimentale di un farmaco non finisce nemmeno con la fase della sperimentazione clinica, ma continua nel controllo clinico: una volta in commercio, i medici sono tenuti a segnalare eventuali reazioni strane che si riscontrino nell'uso prolungato del farmaco. A proposito degli animali usati nella sperimentazione tu parli di effetto canarino, che è abbastanza pericoloso ... Ho paragonato l'animale sperimentale al canarino che veniva portato dai minatori in miniera, perché, essendo più sensibile degli uomini ai gas venefici, quando dava segni di disturbo, oppure schiattava, i minatori scappavano. Questo effetto ··canarino in gabbia" ha tanto più importanza perché, se si esce dal campo della ricerca biomedica o farmacologica e si va invece nel campo più generale della ricerca e dell'uso di sostanze chimiche, tutti i prodotti che nederivano, dai pesticidi agli additivi alimentari, alle vernici, alle sos1anzecon cui vengono prodotti i mobili, le pipe, a tutto quello, cioè, che comporta uso di sostanze di sintesi chimica o chimiche naturali in qualche modo modificate e rielaborate, ebbene, per una serie di leggi diverse, tutti questi prodotti devono esseresottoposti atest. Test di tossicità acuta, per vedere se ti fanno morire; cronica, per vedere se ti provocano dei disturbi nel lungo periodo; di mutagenesi, per vedere se provocano mutazioni nelle cellule; di cancerogenesi, per vedere se hanno la possibilità di produrre il cancro; di teratogenesi, per vedere se creano problemi ai feti, alla vita appena concepita. Per tutte queste classi di rischi esistono dei protocolli di esperimenti, che vanno eseguiti su diversi animali. test animali su tutti i prodotti . . 1ncommercio Dal 1982-83, ogni nuovo prodotto che si vuole commero,ializzare deve passare attraverso questo filtro. Ci sono dei marchi, tipo la testina di morto, che sono attribuiti sulla base di esperimenti fatti su animali. E sia detto fra parentesi: la presenza dell'animale sperimentale nella vita quotidiana è una realtà alla quale non si può più sfuggire; se tu compri qualcosa per sturare il cesso hai IL DOPPIO ISMAELE Mi ha sempre colpito la tonalità maligna degli attacchi periodicamente rivolti ad una persona come Bruno Bettelheim. Riflettendoci sopra, mi è venuta in mente una curiosa coincidenza. Quando lessi per la prima volta la sua analisi dei campi nazisti mi capitò di scrivere alcune osservazioni, venendomi del tutto spontaneo di intitolarle "E io sono scampato a raccontarvelo", il versetto di Giobbe che sigla l'epilogo del Moby Dick. Non sono esperta della Bibbia; nel mio ricordo Ismaele era il figlio della schiava scacciato nel deserto e salvato dall'angelo che rivela a sua madre la fonte dell'acqua. Mi sembrava owio che a questo si riferisse il nome del protagonista del romanzo, salvato dal deserto del mare per raccontare la lotta con la Balena. Più di vent'anni dopo, dall'ultima intervista concessa da Bettelheim qualche settimana prima di morire, appresi che stava leggendo Moby Dick, e ne parlava così: "Lo scrittore Melville scelse quel nome perché tutto il mondo sapeva chi è stato B lsh~e nel raccont~iblico: r~ sul quale tutti gli altri alzano lamano, e che alza la mano contro tutti gli altri. Un uomo che sta ai margini, in conflitto con se stesso e con gli altri. Proprio come in un certo senso sono io. Ci sono cose alle quali non potrò mai rassegnarmi". Rimasi molto colpita e andai a cercare nella Bibbia questo secondo Ismaele che non sapevo. In effetti ci sono due racconti successivi su Ismaele: nel primo è colui su cui tutti possono alzare la mano, quello in cui Bettelheim identificava se stesso; nel secondo è colui che viene salvato dalla morte nel deserto, quello in cui mi era venuto immediato di identificare Bettelheim. L'Ismaele cui si sentiva così prossimo il vecchio ebreo scampato al Male è presentato dal testo biblico come il capostipite del popolo arabo, i nomadi del deserto indipendenti come l'asino selvatico. Forse sta qui il nucleo di questa identificazione. se il suo tono emotivo risente della depressione che colpì Bettelheim dopo la morte della moglie, ciò non offusca il suo contenuto i::r~à~me il~oe è inviso ai sedentari perché la sua libertà è lo specchio del loro autoimprigionamento, così tutti noi difficilmente sappiamo perdonare chi ci costringe a guardarci allo specchio. (Perché gli Ateniesi si vollero liberare a tutti i costi dell'importuno concittadino che andava per le strade costringendo ciascuno a esaminare se stesso; e anche lui non si sapeva rassegnare?) Bruno Bettelheim non ha inventato teorie nuove, è rimasto sempre un affezionato discepolo di Freud: non del fondatore di una Internazionale psicoanalitica di stampo leninista, bensì del vecchio saggio che alla paziente impaziente di guarire rispondeva: "Cara signora, riteniamoci fortunati se potremo trasformare la sua disperazione in ordinaria infelicità". E che ascriveva il suo mestiere, insieme a quelli di educare e di governare, tra le professioni impossibili, il cui insuccesso cioè è garantito a priori. Il militante parte dalle speranze, proprie e altrui, facendosi carico della loro realizzazione. Il saggio parte dalla disperazione, per tentare di trasformarla in speranza. Questo ha fatto Bettelheim per cinquanta anni, dopo uscito da Buchenwald e Dachau. Avere un simile punto di partenza comporta, tra molte altre, due conseguenze. La prima è di non poter usare le limitazioni di tempo. Se integrare il lager nel proprio io è compito interminabile, analogamente non si può porre dei termini alla riparazione dei danni psichici che gli esseri umani si procurano vicendevolmente con indefessa energia. Se un bambino è vissuto di paura, ostilità, disprezzo o abbandono per 12 anni, è ragionevole supporre (dice Bettelheim) che ne occorrano almeno altrettanti per costruire insieme a lui una speranza di vita decente. Ma una idea così semplice è incompatibile con una società dove il tempo è denaro, che ha inglobato in questo principio onnivoro anche la cura delle anime, nonostante il suo assunto che buona parte della psiche umana risulta inalterabile allo scorrere del tempo. La seconda conseguenza è la disponibilità a vivere senza risparmio a che fare con la sperimentazione animale. Tutte le sostanze, per lo meno quelle nuove, -ma anchequelle vecchie nei prossimi 20-30 anni verranno tutte sottoposte ad ogni genere di test-, sono testate in questo modo. Qual è la differenza rispetto al farmaco? Che se il farmaco una volta passato attraverso la sperimenlazione animale, prima di arrivare al pubblico, passa attraverso quella sull'uomo sano e sull'uomo malato, queste sostanze di cui abbiamo parlato finora, invece, vengono testate sugli animali per vedere che effetto hanno, poi sono dis1ribuite direttamente al pubblico. L'animale in questo caso è l'esclusivo filtro prima di decidere se un prodotto può essere impiegato. E' così che usare l'animale diventa un 'autorizzazione adelinquere: tu fai una serie di test sugli animali, che ti danno delle conoscenze presunte, che ti dicono che un prodotto non risulta cancerogeno per il topo, il coniglio, il ratto, che sono gli animali-base su cui si fanno queste sperimen1azioni, dopodiché lo immetti sul mercato in grande scala. E infatti oggi è possibilissimo che si scopra che un pesticida ha effetto cancerogeno pur essendo passato attraverso tutti i test obbligatori, per il semplice motivo che ciò che non risulta cancerogeno per un animale non è detto che non lo sia per l'uomo. Ora le cose cominciano a cambiare, per esempio in America, perché lì, se uno si prende i I cancro ed è in grado di dimostrare la responsabilità in questo del tal prodotto, può farsi pagare miliardi dalla ditta produttrice. E infatti ora una serie di prodotti viene testata anche sugli uomini unicamente a scopo cautelativo da parte delle assicurazioni che cercano di avere maggiori probabilità di poter vincere le cause legali. In sostanzacosa succede? I prodotti vengono testati, si accerta la loro pericolosità, si scrive nell'etichetta e si mette in commercio senza por secondo il principio "nihil humani a me alienum puto": chi ha vissuto la degradazione e l'annichilimento può riconoscere nell'essere più degradato, nelle azioni più insensate e distruttive qualcosa di simile a sè. Questo riconoscimento empatico, che è l'unica base della terapie d'anime, è l'instancabile insegnamento di Bettelheim. "Che cosa farei io al suo posto?" E' la domanda che ritorna ossessiva nelle sue pagine, invitandosi a dare un significato vicino là dove la nostra paura ci spinge a prendere le distanze, con etichette, stereotipi, classificazioni pseudoscientifiche e quant'altro riusciamo a inventare per difenderci dall'alieno, sia esso il capriccio inspiegabile del bambino normale oppure l'esplosione di rabbia impotente dello psicotico. Persino il suicidio può essere un punto di partenza. Il suicidio è un atto comunicativo che ha uno statuto singolare, in quanto il messaggio consiste nel1a' utoelimi nazione dell'emittente. Pertanto i destinatari, trasformati ipso facto in sopravvissuti, passeranno il resto della loro vita nel tentativo di decifrare il messaggio, e di indovinare quale risposta si attendesse da loro colui o colei che lo ha formulato in maniera così deniente in mezzo. Poi, magari dopo I O, 15,20 anni, le ricerche epidemiologiche dimostrano che nelle zone in cui sono stati usati quei prodotti c'è un'incidenza del cancro maggiore che in altri. A quel punto quei prodotti vengono ritirati. Questo vuol dire che la gratuità morale dell'animale è diventato un alibi per la suacommercializzazione, impedisce di trovare strumenti più raffinati e più efficaci per testare i prodotti, e perciò si sta tramutando in un ostacolo alla ricerca. Ma quando dico a un veterinario o a un medico che bisognerebbe sperimentare anche sull'uomo prima di mettere in commercio un prodotto, ti rispondono che non hanno dubbi a proposito dei farmaci, ma ne avrebbero tanti se si trattasse di un cosmetico, un pesticida, una vernice, un nuovo prodotto per fare la plastica. Il che, ovviamente, è paradossale perché si accetta tranquillamente che un prodotto venga sperimentato su milioni di uomini senza alcun controllo. Tu metti in discussione l'utilità non solo della sperimentazione, ma anche di tanti farmaci ottenuti grazie alla sperimentazione. Il problema non è solo stabilire quanti farmaci buoni si sono scoperti con la sperimentazione animale, ma anche quanti, di questi farmaci, hanno realmente contribuito a risolvere i problemi che volevano affrontare. Quando io rispondo: "Poco", medici e veterinari si ribellano. Ma se si eccettuano alcuni farmaci assolutamente importanti, come alcuni vaccini e gli antibiotici, per il resto la gran parte dei farmaci sono intervenuti nel momento in cui dal punto di vista epidemiologico le malattie che servivano a curare stavano già regredendo per via dell'intervento di fattori diversi dalla farmacologia, quali l'igiene e l'alimentazione. I cambiamenti del l'alimentazione e dell'igiene pubblica e privata sono stati, a detta di alcuni epidemiolofinitiva. Bettelheim racconta come nei bambini autistici, che la disperazione ha indotto a chiudere ogni varco alla comunicazione col mondo, la prima forma di sblocco dopo mesi o anni di terapia sia spesso un tentativo di suicidio. Anzi, si è spinto a dire che la maggior parte dei suicidi sono tentativi purtroppo riusciti, e rappresentano la richiesta estrema di ridare significato a una. vita che lo sta irrimediabilmente perdendo. Nell'ultima intervista, la stessa in cui si rappresenta come Ismaele, Bettelheim diceva: "Dopo la morte di mia moglie ho deciso fino a questo momento di non uccidermi perché ci sono alcune cose che per me hanno ancora valore. Voglio continuare a vivere". Poi l'Ismaele su cui tutti alzano la mano prevalse su quello che deve vivere per raccontare. Aveva cercato invano qualcuno che lo aiutasse a morire, come Freud quando la vita gli era diventata una inutile tortura. Coloro che, per scelta o per necessità, lavorano a contatto con la miseria e l'infelicità umana, continuano a ricavare grande aiuto e conforto dai racconti dello scampato al deserto dei lager. Carla Melazzini

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