che hanno dato vita a nuove forme di socializzazione, se così si può dire. Tutto ciò ha prefigurato qualcosa di nuovo? Vedremo se tra sei mesi o un anno tutto ciò si svilupperà. E' vero che la popolazione ha voluto continuare a lavorare senza innervosirsi, senza alcuna violenza verso gli scioperanti. E' vero, altresì, che c'è stata una certa "convivialità", che nelle strade si camminava invece di correre per prendere l'autobus o il métro. E grazie a un tempo non catastrofico spostarsi a piedi era sopportabile. li problema è l'importanza che bisogna dare a questo fenomeno e qual è il suo significalo. Direi che si tratta di un fenomeno che non ha indicato un'innovazione culturale, un cambiamento importante, ma ha segnato, credo, un rifiuto generale della società verso il Governo. Io interpreto questa solidarietà, queste discussioni per strada e questa non-ostilità allo sciopero come se fosse stata la società a dire: "No"; non sono stati solo gli scioperanti, ma il corpo sociale nel suo insieme a dire: "No". In tal modo ha trovato una sua unità, manifestatasi in queste forme di convivialità, incontro e discussione. toccare con mano che si vive troppo velocemente Quindi, secondo me non c'è stato un movimento sociale nel senso preciso del termine, cioè un'azione conflittuale di un attore sociale contro un altro attore sociale, ma una sorta di reazione difensiva, non aggressiva, del corpo sociale. Dunque, non bisogna dargli troppa importanza. Analizzerei questo fenomeno in termini socio-politici e non in termini di innovazione culturale. Non credo sia stato inventato qualcosa di fondamentale. Indubbiamente, però, lo sciopero ha anche dimostrato che è possibile vivere diversamente e che in presenza di un'emergenza e di una certa unità del corpo sociale è possibile inventare forme di comportamento più ecologiche: si può, ad esempio, andare in quattro in auto anziché da soli, si possono ospitare in casa persone che non si conoscono. ci si può spostare in bicideua o sui pattini. Tutto ciò si è dimostrato possibile, ma sfortunatamente non ha segnato sufficientemente la vita degli abitanti delle grandi città francesi, perché se ne riproducano effetti forti e visibili. Sono colpito innanzitutto dal fatto che nessuno ha cercato di capitalizzare questa dimensione, non ho sentito persone dire: "Continueremo a vivere così", o meglio ho sentito qualcuno dirlo individualmente, ma non in modo diffuso. In realtà, una città come Parigi non è fatta per i ciclisti, l'organizzazione urbana non prevede praticamente nulla per ciclisti o pattinatori. Né vi sono state forze politiche che abbiano capitalizzato questo comportamento collettivo: il movimento ecologista in Francia è molto debole. Tuttavia, quello che i francesi, e i parigini in particolare, hanno scoperto nelle settimane dello sciopero è stato un rallentamento dei ritmi di vita e di lavoro. Se questo è stato drammatico per i commercianti, perché hanno avuto meno clienti, è invece stato ben apprezzato nelle amministrazioni e nei luoghi di lavoro perché non si era sotto pressione, c'era meno urgenza, c'era più tempo ... In breve, lo sciopero ha fatto capire a tutti che si vive troppo velocemente, e questa scoperta e valutazione della lentezza, secondo me, dovrebbe essere lo scopo di un vero movimento ecologista in Francia, se non di una sinistra radicalmente rinnovata. Purtroppo, per il momento, noi, come gli altri paesi sviluppati, viviamo in una società dove fatti "pesanti" scacciano continuamente altri fatti "pesanti". Mi spiego: in Francia, nel giro di qualche settimana, c'è stata un'ondata di attentati terroristici, poi uno sciopero enorme, infine la morte del suo vecchio Presidente. Ecco tre avvenimenti successivi, ognuno dei quali ha scacciato quello precedente. Domani ci sarà qualcos'altro. Beh, tutto ciò è inquietante in un certo senso: vi sono avvenimenti sufficientemente "pesanti", problemi sufficientemente strutturali, perché si possa vivere altrimenti che in questa specie di zapping dell'attualità? Me lo auguro, ma per il momento si passa da una cosa all'altra. - ... :-::. . ' ·., ; • :~~{ • ; • ,J~ .. , .·~-::,. ,,,✓ \t QUEL SILENZIO Il dibattito fra i Verdi tedeschi sulla necessità di un intervento militare in Bosnia, conclusosi con la vittoria, di misura, dei contrari a ogni azione militare. Un pacifismo di principio che, per riaffermare una pratica comunque non-violenta, rischia di dimenticare Auschwitz. La battaglia contro l'inerzia davanti al genocidio. Intervista a Hubert Gasser. HubertGasser, di Bolzano, ha partecipato nel 1994-95 a varie iniziative promosse da Alexander Langer per la pacificazione e la riconciliazione nei paesi della ex Jugoslavia. E' attento osservatore dell'azione politica dei Verdi tedeschi. Tra i Verdi tedeschi si è svolto negli ultimi tempi un approfondito dibattito a proposito dell'intervento militare occidentale in Bosnia e intorno al dilemma se sia un obbligo della comunità internazionale intervenire militarmente in caso di genocidio. Puoi parlarci delle diatribe che sono scoppiate intorno a questo tema? Prima di parlare del dibattito che si è aperto recentemente tra i Verdi tedeschi, vorrei fare alcune considerazioni su come si sta ragionando e sragionando intorno alla Bosnia. Si sentono 1 dire tante cose, dentro e fuori la Bosnia. Ovviamente, il discorso cambia molto a seconda dell'interlocutore che ci troviamo di fronte. In breve, farei una distinzione di fondo: da un lato, le persone che seguono da vicino gli eventi, soprattutto quelle impegnate direttamente negli aiuti alle vittime; dall'altro, le persone che non sono direttamente coinvolte. In linea di massima, le prime sono più favorevoli ali' intervento internazionale (anche militare) in Bosnia, le seconde sono più scettiche. Spesso si tende a travisare la realtà dell'ex Jugoslavia o a coglierla in maniera molto parziale. Non voglio qui dilungarmi su quanto sentito in occasione di dibattiti parlamentari, il discorso ci porterebbe troppo lontano. Vorrei, invece, accennare ad alcuni luoghi comuni molto diffusi, come il parlare di guerra civile ("si ammazzino pure a vicenda se non sanno fare di meglio, io che ci posso fare?"), oppure individuare la causa principale dell'esplosione del conflitto nel prematuro riconoscimento della Slovenia e della Croazia da parte dei paesi occidentali (Germania in testa), oppure spiegare il conflitto con le inclinazioni caratteriali di quelle popolazioni ("basta pensare alle atrocità che hanno commesso durante la seconda guerra mondiale"). Sono, questi, i soliti discorsi che si possono ascoltare al bar e che esprimono distacco dagli eventi, spesso anche un senso di superiorità di noi occidentali rispetto alla presunta arretratezza dei popoli slavi, dimenticando, però, che nell'Europa "civile" sono avvenuti fatti ben più gravi appena mezzo secolo fa. Ammetto di avere notevole difficoltà a capire alcune delle ragioni addotte dai pacifisti. Ultimamente, mi è capitato di leggere le seguenti perplessità sulla spedizione militare delle forze Nato in Bosnia:"Ora, tutto diventa possibile: che muoiano altri soldati italiani" -che siano volontari è questione insignificante- "in un'area dove esiste un numero enorme di mine (molte delle quali made in ltaly ); che vengano uccisi soldati Usa per cui si avranno reazioni imprevedibili, anche un bombardamento a tappeto alla 'irachena'. "(da Repubblica del 2/1/ '96, lettere). Di fronte a posizioni del genere mi viene spontaneo domandarmi che significato abbia per noi, e quanto valga, la vita delle migliaia di bosniaci vittime del1'aggressione serba e croata, vittime proprio per il fatto di essere indifesi ed inermi. All'inizio del dicembre scorso i Verdi tedeschi si sono pronunciati, al loro congresso di Brema, contro la partecipazione della Germania al programma di intervento militare delle forze Nato. Questo atteggiamento è da ricondurre alla presenza di correnti pacifiste e alla difficoltà di accettare questo nuovo ruolo delle forze armate tedesche che tornerebbero in veste di forze di pace nei luoghi occupati nel corso della seconda guerra mondiale con ben altri obiettivi. La non-violenza nei rapporti internazionali è un principio essenziale per i Verdi tedeschi. Prima degli ultimi sviluppi della situazione in Bosnia che hanno portato ali' accordo di Dayton essi erano sostanzialmente d 'accordo con le iniziative dell'Onu in Bosnia ed hanno appoggiato la partecipazione della Germania ai programmi di aiuto umanitario. Le ragioni contro l'impegno militare della Germania sono state esposte in maniera molto chiara in una lettera aperta, firmata da quattro esponenti di spicco (Kerstin Miiller, Claudia Roth, Jiirgen Trittin, Ludger Vollmer) e intesa come risposta ad una precedente lettera aperta firmata da Joschka Fischer, capogruppo dei Verdi tedeschi al Parlamento Federale, che si era espresso esplicitamente a favore dell'intervento militare occidentale in Bosnia. Va notato che la lettera di Joschka Fischer risale alla fine di luglio quando, dopo i fatti di Srebrenica e di Zepa, si profilava orn,ai in modo palese il fallimento delle iniziative Onu, quando si era ancora molto lontani dall'accordo di Dayton. Lo scambio di lettere è avvenuto sulle pagine del mensile Kommune nei numeri 9/95, 12/95 e 1/96. Schematizzando in modo un po' didascalico, le ragioni della maggioranza dei Verdi tedeschi contro l'impegno militaredella Germania sono le seguenti. Primo. Innanzi tutto, occorre chiarire il concetto di genocidio. In base alle definizioni correnti di diritto nazionale ed internazionale, "genocidio" è qualsiasi tentativo di distruggere, per intero o parzialmente, un gruppo che si distingua per etnia, religione, razza o quant'altro. In base a questa definizione una buona parte delle circa 40 guerre, più o meno grandi, attualmente in corso nel mondo, ricadono in questa fattispecie. Chi è a favore di un intervento militare in Bosnia dovrebbe quindi chiedere lo stesso tipo di intervento anche in Sudan, Somalia, Ruanda, Kashmir, nel Timororientaleed in molti altri paesi. Sarebbe un impegno infinito, con ben poche prospettive di riuscita. Secondo. Come rendersi conto tempestivamente che sono in corso atti di genocidio, in modo da poter intervenire per bloccarli? La storia è piena di atrocità che si configurano La sicurezza diunapensionientegrativa, \U• . Per maggiolrni fonnaztornivlolgitai lle Agenzie Unlpol W~P/4?'~ ASSICURAZIONI I vostri valori sono i nos1rivalori ® come genocidi, riconosciuti come tali solo successivamente, a danno compiuto. E chi vuole assumersi il compito di decidere nella situazione specifica se si tratta di genocidio omeno? Quale maggioranza in seno all 'Onu vorrà assumersi tale responsabilità? Terzo. Visto che l 'Onu, unico consesso internazionale che è al di sopra delle parti -o almeno pretende di ispirarsi a tale principio- non è riuscita a condurre a buon termine le sue iniziative di pace, un intervento più decisamente militare comporterebbe il rischio che si creino nuovi blocchi. Nel nostro caso si corre il pericolo che la Nato ritrovi una nuova legittimazione, riaggregando intorno a sé gli interessi degli Stati Maggiori e dell'industria delle armi degli Usa e del1'Europa. Quarto. Questa prospettiva assume dimensioni ancora maggiori quando si pensa ad un intervento militare anche in altre zone. Si pensi al Sudan, al Ruanda. Dovrebbero essere di nuovo le forze Nato ad intervenire in questi Stati, visto che non esistono alleanze di difesa di questo genere nell'Africa stessa? Oppure, visto da un'angolazione diversa, chi dovrebbe intervenire contro la Turchia (membro della Nato) in difesa dei curdi, o contro il Brasile in difesa delle popolazioni indigene dell'Amazzonia? E chi difenderebbe il Tibet contro la Cina? Se si volesse assumere l'assioma che in caso di genocidio esiste un obbligo di intervento da parte dei paesi democratici come unico modo per non diventare corresponsabili dei crimini perpetrati, in tutti questi casi, e in altri ancora, bisognerebbe intervenire. Quinto. Come dimostra I'esperienza, il risultato di un intervento militare è spesso più che discutibile. Pensiamo solo agli esempi più recenti come l'intervento contro l'Iraq di Saddam Hussein o quello in Somalia. Ma il più delle volte nel dibattito interno ai Verdi non è neppure avanzata l'idea di intervenire: "E' un dato di fatto, contro i criminali piccoli l'intervento non è necessario, contro quelli grandi esso non è possibile". Eppoi, si aggiunge, anche nel caso di un conflitto di media dimensione non c'è alcun.a garanzia di un successo militare. Perciò domandiamo: fino a che livello si può portare l'escalation militare per assicurarsi la vittoria in caso di persistenza del criminale? E quando, ad un certo punto, non si è più disposti a farsi ulteriormente coinvolgere nel conflitto, come si risponderà al rimprovero - che oggi viene fatto agli anti-interventisti- di assistere senza intervenire all'assassinio? Sesto. I fatti più cruenti degli ultimi mesi, in particolare l'occupazione di Srebrenica da parte dei serbi e il massacro della popolazione, hanno destato molti dubbi sul ruolo svolto in questa occasione dai caschi blu e ci sono vari indizi che il governo Usa sapesse con notevole anticipo delle intenzioni dei serbi, diventando in tal modo almeno connivente dell'ingente operazione di pulizia etnica perpetrata in questa occasione. Perché dovremmo continuare ad avere fiducia in queste stesse forze politiche che non sono state in grado di intervenire più tempestivamente e con maggiore efficacia e sulla cui buona fede si può avanzare più di un dubbio? A prima vista, queste ragioni possono apparire più o meno valide, alcune sicuramente convincenti. Ma nel loro insieme danno la netta sensazione di un ragionamento fatto più per giustificare la propria posizione che per prendere una decisione sulla Bosnia, soprattutto per l'enfasi posta sulle difficoltà ipotizzate e per l'ostinato c_oncentrarsi su problemi teorici piuttosto che sulla realtà del problema Bosnia. Da parte mia, non me la sentirei di ragionare così di fronte ad un bosniaco, semplicemente mi vergognerei. A conferma di questa impostazione viene avanzata un 'ulteriore ragione che emerge nella conclusione della lettera dei quattro, quando mettono in primo piano le questioni di principio:" Attualmente l'opinione pubblica si chiede se la politica tradizionale sarà in grado di strappare agli antimilitaristi un sì all'intervento militare o se invece le forze collegate al movimento pacifista siano sufficientemente forti per sostenere la chance, storicamente unica, del disarmo globale e della civilizzazione della politica internazionale. Chi, se non noi Verdi, può e deve ancora mantenere in vita, sulla scena politica, il pensiero antimilitarista e pacifista e tradurlo in azione? La ricerca sulla pace e il movimento paciijsta istituzionalizzato rimarrebbero senza interlocutori se anche noi volessimo legittimare la tradizionale politica militare". Joschka Fischer ha avuto buon gioco nel replicare mettendo in evidenza le ragioni per cui le Nazioni Unite hanno adottato nel 1948 la "Convenzione sulla prevenzione e la sanzione del genocidio" che, all'art. I, definisce il genocidio "un crimine di diritto internazionale" e impegna gli Stati aderenti a prevenire questo crimine e a punirne i responsabili. In questo senso, Fischer si richiama ad un obbligo della comunità internazionale, e della sinistra in particolare che a . suo tempo aveva coniato lo slogan "mai più Auschwitz!". Fa poi notare che la lettera dei quattro, formulata proprio nei giorni in cui ricorreva il cinquantesimo anniversario dell'apertura del processo di Norimberga contro i principali criminali di guerra nazisti, si dilunga su tutti i possibili genocidi che avvengono nel mondo, mentre non menziona nememno con una parola il più grande genocidio che la storia ricordi, l'Olocausto commesso dalla Germania nazista. Viste in questa luce le frasi sopra riportate: "E' un dato di fatto, contro i criminali piccoli l'intervento non è necessario, contro quelli grandi esso non è possibile. Ma anche nel caso di un conflitto di medie dimensioni non vi è nessuna garanzia di successo militare ...", hanno davvero il sapore della più gretta realpolitik di destra o qualunquista. - W CarrdaeRi irparmdiFi orlì s.p.A. 11■11■ '" ~}- • da O a 10 anni da 11 a 19 anni Perloroilmigliorfuturopossibile UNA CITTA' I I
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