Una città - anno II - n. 16 - ottobre 1992

' . madri l,osniaclte raccontano Nella colonia di lgea Marina dove sono ospitati bambini bosniaci, abbiamo incontrato Ade/a Micie, Lamila Lutvic e Si/va Popovic. Ade/a Micie lavorava, e lavora tuttora, per l'Ambasciata dei bambini. Lamila Lutvic è medico pedriatra e lavorava in un istituto per bambini abbandonati o non seguiti dai genitori. Si/va Popovic è pedagogista. Sono venute dalla Bosnia per portare via i bambini e vivono con loro a lgea Marina. Abbiamo ascoltato i loro racconti della guerra, del viaggio, dei bambini. E del ritorno. ADELA: lto dovuto rubare mio marito Ad aprile abitavo ancora a Sarajevo, nella parte della città che si chiama Grbavica. C'era già la guerra, ma ancora si poteva attraversare il fiume che divide la città in due parti e raggiungere il centro, che dista IO minuti di macchina. Ogni giorno normalmente andavo in centro, ali' Ambasciata dei bambini dove lavoravo, e si poteva ancora comprare qualcosa per l'Ambasciata. Ma nella notte fra l'uno e il due di maggio i cetnici hanno occupato questa parte della città e da quel momento non si poteva più entrare od uscire. Il 21 maggio con mia madre, mfa figlia e un gruppo di bambini, figli dei miei vicini di casa, abbiamo tentato di attraversare fortunosamente il fiume, dove c'era un ponte. Fino a quel momento i cetnici erano entrati nel mjo appartamento per cinque volte e ogni volta non sapevo come sarebbe finita, se mi avrebbero portato via o no, perché mio marito è nato a Belgrado, per cui è serbo e io sono musulmana. Entrambi siamo pacifisti e non volevamo nessuna guerra. Un giorno hanno fermato tutti gli uomini serbi delle case intorno, fra cui mio marito, per portarli nelle prime linee a combattere. Li avrebbero mandati nelle prime linee per poter controllare se sparavano oppure no. Fu un vero shock per me e da quel momento non ho avuto più paura dei cetnici né delle granate, non mi importava più di come sarebbe finita. Ma mio marito è riuscito a convincerli che lui era pacifista, che lavorava con i bambini e che per il suo lavoro non poteva avere a che fare con le armi. Ogni giornodj più non si sapeva cosa sarebbe successo il giorno dopo, per cui abbiamo deciso di lasciare quella parte della città e fuggire. Ci siamo accordati di dividerci in due gruppi per partire. Nel primo gruppo c'ero io con mia madre e mia figlia, nel secondo mio marito con mia sorella. Ho raccolto i bambini dei vicini, in tutto eravamo in 15, e abbiamo portato con noi solo poche cose in piccoli zaini. Abbiamo attraversato cinque posti di blocco dei serbi e quando siamo arrivati nel centro della città abbiamo trovato una sistemazione per i bambini da dei loro parenti o amici. Io, con i miei, sono andata ali' Ambasciata dei bambini e siamo stati due mesi nelle cantine di questo edificio, che è uno dei più grandi e importanti di Sarajevo. L'edificio è stato colpito da almeno una trentina di granate. Una notte di giugno il palazzo era a fuoco dal quinto piano fino al venticinquesimo, tutto era bruciato senza possibilità di risistemare. Eravamo tutti là, quella notte. Quando sono arrivati i pompieri è iniziato un bombardamento fittissimo per fermarli. Questo era un modo dei cetnici per fermare ogni tipo di aiuto. Dall'altra parte dell'edificio si poteva vedere il palazzo dove abitavo, a 150 metri di distanza. Mio marito, che in quel momento stava là, mi raccontò poi che quella era stata la notte più brutta della sua vita: vedeva il fuoco, sapendo che sua moglie era lì dentro, e tutta Sarajevo era illuminatadaquell'incendio. Per tutta la notte, dal terrazzo, ha guardato le fiamme senza potersi muovere e fare qualcosa per aiutarmi. Per due mesi e mezzo abbiamo dormito su dei sacchi di farina sistemati nei corridoi delle cantine e abbiamo mangiato solo riso e spaghetti. Ed eravamo fortunati ... In altre parti della città, senza elettricità, mettevano gli spaghetti nell'acqua alla sera e li mangiavano così crudi la mattina dopo. Con questa alimentazione ho preso la paradentosi. Quando mi hanno tolto un dente non potevo sciacquarmi la bocca perché non c'era acqua ... E ripeto, in fondo io sono stata fortunata. Una madre è venuta ali' Ambasciata venti giorni dopo la morte dei suoi bambini: ha visto morire i suoi due figli e quello di sua sorella colpiti, da una granata nel giardino di casa. Non hanno potuto neanche far loro il funerale perché erano in piccoli pezzi ... E' venuta con un mazzo di fiori, dicendo che se i suoi bambini non potevano più godere dei fiori almeno potevano farlo i bambini che erano con noi. Mio marito è stato arrestato nel nostro appartamento, perché non voleva combattere ed è rimasto nella prigione di Lukavica per cinque giorni. Questa è una ex caserma dell'esercito, ora uno dei centri dei cetnici. Con l'intervento dei caschi blu della "United Nation Protection Forces" siamo riusciti a portarlo via, a "rubarlo". Lo hanno messo in un'autoblindo e "contrabbandato" verso la città. Mia sorella è rimasta nell 'appartamento e dal 2 di giugno non ho più sue notizie, perché quando i cetnici sono arrivati nella casa hanno tagliato le linee telefoniche con il resto della città. Da allora non so cosa le accade, se è viva, se ha da mangiare ... Soprattutto ho paura perché lei è musulmana e non so cosa può succederle. Forse è una storia che può sembrare incredibile, invece è la nostra cattiva realtà. Sono due mesi che non abbiamo notizie dei nostri, le linee sono state distrutte e le batterie sulle montagne impediscono di riattivarle. Quella di cui parlo è una parte della città molto grande e tutti hanno qualcuno, amici o parenti, in questo quartiere. Siamo in tanti nelle stesse condizioni, senza sapere più niente di chi è rimasto là. Quello che temiamo è che in futuro queste persone possano essere usate come scudo umano, perché questo è già successo. Nessuno può capire quello che veramente succede se non vede con i propri occhi. Il mio gruppo doveva partire, la prima volta, il primo maggio, ma abbiamo dovuto rimandare. Ci sono stati problemi con il permesso per la partenza, perché l'Ambasciata dei bambini B1bl10eca Gino Bianco non voleva negoziare con i cetnici. Anche la seconda data, il 18 luglio, stava per essere annullata, ma è arrivato un gruppo di pacifisti francesi, l'organizzazione "Equilibrio", e siamo potuti partire scortati da loro. Alle IOdi sera ci hanno informato che saremmo partiti al mattino seguente. Dovevamo rispettare un orario ed un itinerario precisi. C'era una lista precisa di persone e se ci fosse stato un piccolo errore in queste cose ci avrebbero dovuti riportare a Sarajevo. Era previsto che sarebbero potuti 30 bambini, i telefoni non funzionavano e l'unica cosa che potevamo fare per informare le famiglie era dare notizia, al telegiornale delle 23,30, che l'indomani alle 8 dovevano trovarsi di fronte ali' Ambasciata dei bambini per partire. Così 13bambini sono rimasti a Sarajevo, perché non hanno potuto sentire questa notizia e noi non avevamo altra possibilità di raccoglierli. Dopo due mesi che aspettavano ogni giorno di partire per l'Italia, sono rimasti là... Durante il nostro viaggio siamo rimasti shoccati quando, a soli 10 chilometri da Sarajevo, abbiamo visto la vita scorrere normalmente: i contadini che lavoravano la terra, la gente nei bar ... Ieri parlavamo fra noi chiedendoci come sarà quando torneremo, quando cominceremo a contare chi fra i nostri amici è morto, chi è ferito o invalido, chi è un criminale, perché ci sono molti traditori in città: gente che minaccia i vecchi amici, che dà le coordinate alle artiglierie per colpire le case dei vicini. Ci sono alcuni nostri amici che sono in giro per il mondo e già dicono che sarà impossibile tornare, ma io non penso così. lo penso a tornare. Proprio ieri, mettendo in ordine dentro la mia borsa mi sono accorta di avere il mazzo della chiavi di casa. Sono l'unica cosa che mi è rimasta, non so se avrò ancora una casa dove abitare, ma aspetto ogni minuto di tornare a casa. Per cominciare ancora una volta. LAMILA:. è sfato • • un v1agg10 senza fine Vorrei parlare del viaggio. Tutto mi sembra incredibile. E' stato un viaggio che non si sapeva come sarebbe finito. Da un giornalista della CBS ho saputo della possibilità di venire in Italia 24 ore prima della partenza. Solo 24 ore per preparare la partenza mia e di 48 bambini dell'istituto dove lavoro. Non ho avuto neppure il tempo di salutare mio marito e i miei genitori perché si doveva fare in fretta, raccogliere qualcosa per questi bambini. Avevo sentito già i racconti di quello che i cetnici fanno nei posti di controllo, ma non avevo il tempo di pensarci. Nell'ultima postazione dei serbi, a 30 chilometri da. Sarajevo, tutto il convoglio era fermo, un poliziotto è entrato nel pullman. Ha chiesto le carte d'identità e quando ha visto il mio nome mi ha detto che non era sicuro che potessi prosegui re. Tullo dipendeva da Vojvoda, un capo dei cetnici. E' arrivata allora una "creatura umana", non saprei in quale altro modo definirlo. Piccolino e grasso, con una maglia arancione sgargiante, pantaloni mimetici, occhialini da sole tondi, bombe e coltelli alla cintura e un cappellino che portano i contadini in Serbia con lo stemma dei cetnici, un teschio. Mi ha chiesto come mi chiamavo e, alla mia risposta, ha chiesto dov'era mio marito. Ho risposto che era rimasto a Sarajevo. Mi ha chiesto se combatteva contro di loro, ma io gli ho detto: "Lui lavora, è l'unica maniera di sopravvivere". E lui: "Allora è rimasto a difendere la vostra città. Tu devi scendere, non ti lasciamo finché tuo marito non arriva qui". Il tutto è durato 15-20 minuti. Avevamo tutti una paura da morire. Ma, alla fine, forse perché eravamo un convoglio sotto scorta dell'ONU, siamo riusciti a passare. Cento-duecento metri più avanti siamo arrivati alla seconda barricata dove c'erano i croati. Sono entrati nel pullman, ma con modo più civili e gentili. Ci hanno anche augurato buon viaggio. Il viaggio è durato 48 ore. Abbiamo dormito nel pullman. Molti bambini erano ancora in pantofole e con le magliette che avevano alla partenza. Nella prima parte del viaggio abbiamo fatto un lunghissimo giro impiegando cinque ore per una distanza da 20 minuti per evitare le postazioni dei serbi e percorrere la terra di nessuno. In aprile, ali' inizio della guerra, volevamo spostare da Sarajevo i bambini più piccoli. A quel tempo esisteva la possibilità di trasferirli a Belgrado o, comunque, fuori dalla Bosnia. Abbiamo contattato il direttore di un centro che era daccordo per accogli ere questi bambini. Ma dopo due o tre giorni ci ha chiamato dicendo che loro volevano prendere solo i serbi. Gli altri, i musulmani, dovevala uerra in Bosnia no cambiare nome e sarebbero poi stati dati in adozione a famiglie del posto. SILVA: la guerra mi lta reso parte di qualcosa Durante il tempo di guerra passato a Sarajevo, né io né il mio bambino pensavamo che saremmo rimasti vivi. Avevo lasciato Sarajevo durante il periodo degli studi e ci sono tornata perché la mia vita era andata in quella direzione, anche se non ho mai avuto particolari legami con questa città. Ma la guerra ha fatto questo: per la prima volta ho sentito di far parte di qualcosa e di qualcuno. Sono cresciuta in una famiglia dove non c'erano sentimenti nazionalisti. Il mio studio, le mie letture, erano in direzione pacifista e tutto quello che stava succedendo attorno a me in questi ultimi anni era molto strano. I primi due mesi siamo rimasti nella parte bombardata della città. Il mio appartamento era distrutto. Per essere sicuri potevamo stare esclusivamente nel bagno. Avevamo un po' di cibo, ma non potevamo entrare nella cucina perché c'erano continue sparatorie. Poi, con il mio bambino e due borse, sono passata nell'altra parte della città. Abbiamo fatto la fame per più di due mesi. Io ho mangiato solo pane con grasso. Ho lasciato che mio figlio, che ha undici anni, andasse ali' esercito bosniaco che l'ha preso come mascotte. Pu1iva i fucili e stava con i feriti e almeno così poteva mangiare. Durante questo periodo, mentre mio figlio era nella difesa territoriale, nelle strade, io ero in una cantina. Ad un certo punto non ho retto più, mi sono saltati i nervi e non sono voluta più scendere nella cantina. In questo periodo mio figlio mi ha dato la forza di vivere, mi ha salvato la vita. Pensavo che sarei rimasta a Sarajevo quando, per caso, ho saputo della possibilità di venire in Italia. Era un modo per salvare la vita di mio figlio e anche la mia. Quel giorno stesso dovetti decidere se rimanere o partire. Mio figlio ha saputo dalla radio di questo viaggio e mi ha raggiunto nella notte. Non avevo nessun contatto con l'Ambasciata dei bambini, anche se era a cinque minuti dal- ]' appartamento in cui stavo e avevo molta paura di non riuscire a fare niente. Nella mattina siamo partiti verso una direzione sconosciuta e quando siamo arrivati alle prime montagne, fra le bellezze di quei boschi, non ci potevo credere. fE,r>iEéA 1-~;s;~ i:·)~~,< .r?t(~· / ✓ . ;E·--f fli\\! 6b'4Ì Nt_ •·;.,, ~:. ~., . ;~. . . >~{/t',1r"' ·x~;.'"'."'>~~x<( ?,, :yfy_,,,'1,&;J&. .. Nelle foro: alcuni disegni falli dai bambini di Sarajevo che sono a Igea Marina. UNA CITTA' 7

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