il Potere - anno II - n. 2-3 - febbraio-marzo 1971

pag. 4 127 CHE COS'E' L'ATTUALE «STABILE» CITTADINO Il teatro • ' tutto e mio "FINO a pochi anni fa questo (owe- ro il teatro) era un privilegio di 5 mila persone. Oggi riguarda 60 mila cittadini fra adulti e ragazzi. Fra voi e noi possiamo fare in modo che finisca per riguardare veramente tutti •. Questo In– vito augurale, che orecchia il celebre slo– gan della nettezza urbana « Voi e noi per una città pulita•, modificabile per l'occa– sione in « Voi e noi per una città tea– trale•, conclude il testo di un volantino distribuito dallo Stabile genovese al pub– blico in occasione dello spettacolo • de– centrato•: • L'obbedienza non è più una virtù • della Mezzadri. Dovremo, perciò, dedurre che tut– to fila come l'olio in via Bacigalupo? L'a– ver raggiunto 60 mila presenze annue al– lo Stabile è senz'altro un risultato lu– singhiero ma è anche un risultato asso– luto e cioè statisticamente non confron– tabile che semmai ci permette di stabilire che il pubblico della prosa in Genova e provincia non supera le 60 mila unità. ln altre parole manca la controprova per la completa carenza di altre attività tea– trali (serie e continuate) cittadine. Tra grandi e piccole, a Genova esistono 9 sedi teatrali più o meno degne di que– sto nome: di queste 3, ovvero il • Ge– novese•, il • Duse • ed il largamente de– ficitario, se non inutlle (visti i risultati} • Teatrino di piazza Marsala • gestite di– rettamente dall'ente Teatro Stabile; l'•Au– ditorium•, se non di nome ma di fatto, è passato al • gruppo Chiesa•, il • Mar– gherita " è a mezzadria fra l'ente di don– na Lanfranco, lo stesso Stabile e la pro– prietaria del muri, signora Gadolla, che sporadicamente vi ospita le sempre più scarse compagnie di rivista e di teatro leggero disposte a venire a Genova e, nella stagione estiva, il cinema. Il •Mar– gherita• del resto è destinato a divenire un cinematografo stabile, non appena si concluderà una segreta operazione che sancirà la scomparsa del cinema Univer– sale. V'è poi il littorio • Teatro della Gio– ventù , (inadeguato, gelido, inospitale) che è il • refrigerium peccatorum • del valoroso circuito alternativo dell'Arei, de– gno di sedi migliori e più comode, !'in– giustamente malfamato • Superba • che ospita il glorioso avanspettacolo, il •Fal– cone•, proprietà dell'università e sede del Cut, sempre in difficoltà per scarsità di mezzì, ed infine la • Sala Carignano •, de– corosa ma modesta sede del coraggioso Stabile dialettale. Ci perdoni il lettore la lungadigres· sione, peraltro necessaria, per dimostra– re (se ce ne fosse bisogno) che il mo– nopolio teatrale cittadino dell'ente comu– nale è quanto mai assoluto ed inoppu– gnabile e l'unica concorrenza possibile è costituita dalla televisione. La dirigenza dell'ente, non potendo pro– durre in proprio un cartellone di otto mesi, è costretta a ricorrere alle • com– pagnie ospiti •. La faccenda a questo pun– to si complica: il dr. Chiesa (escludiamo dall'argomento Squarzina che notoriamen– te si disinteressa di queste pastoie cui– turai-diplomatiche, impegnato com'è a scrivere testi e a dirigerli) ha sempre formalmente dichiarato di essere • co– stretto • ad operare le proprie scelte quando assume le vesti di e impresario • della cultura teatrale cittadina, tentando di scritturare quanto di più dignitoso è disponibile sulla • piazza • nazionale. Na– turalmente in questo discorso è implicita la (del resto giustificabile) presunzione del primato delle produzioni locali. Che le scelte per quanto concerne le compagnie ospiti siano obiettive ed im– parziali non potremmo giurarlo. Certe mi– steriose omissioni, talune • dimentican– ze•, sospette predilizioni per determinate compagnie, specie di altri Stabili, sono quanto meno sorprendenti. Sia chiaro, non ci scandalizziamo: il mondo del teatro è fatto di piccole e grandi invidie ed anche in questo consi– ste il suo fascino. Peraltro che il teatro di repertorio delle compagnie ospiti ri– sponda a certe conclamate esigenze di ordine culturale è un'affermazione un tan– tino azzardata: commercialmente il discor– so è diverso e, entro certi limiti, può es– sere accettato. Esiste poi una sorta di • biblioteca dei classici , ad uso e consumo del pubbli– co genovese e foresto: • Il Teatro Sta– bile di Genova è l'unico teatro di reper– torio» italiano; è l'unico teatro cioè che, a somiglianza di molti modelli stranieri, dispone di quadri stabili di attori e può quindi conservare nel tempo i propri spet– tacoli migliori •. Verissimo: infatti Aloer– to Lionello, che aveva abbandonato sde– gnosamente la sua attività presso il no– stro Stabile, v'è ritornato per • I due ge– melli veneziani • chiedendo un e cachet• vertiginoso che ha fatto scoppiare un grosso vespaio di natura sindacale. Né crediamo che il gioco sia valso la can– dela. Con simili premesse riteniamo che valga la pena ridimensionare il significato della cifra di 60 mila spettatori che ri– mane un risultato lusinghiero ma quanto meno obbligato e privo di quei significati sottintesi che gli si sono voluti attribuire. Teatro in •decentramento•. Chlesa ha dovuto giocoforza accettare gli spettacoli decentrati per la spietata concorrenza che il circuito alternativo dell'Arei si accin– geva a scatenare. Catturando un pubbli– co operaio, convenientemente sensibiliz– zato e raggiunto direttamente sui posti di lavoro, presentando opere di grande interesse sociale e politico (da • La scuo– la dell'obbligo• a • La madre. di Brecht, senza contare l'apporto di Dario Fo) rea– lizzate rigorosamente e validamente da compagnie coraggiose e teatralmente do– tate, a volte molto più di certe • Com– pagnie ospiti • viste da queste parti, l'Arei costituiva • in fieri • un grosso pe– ricolo o meglio poteva scalfire il grani– tico monopolio teatrale di Chiesa e dei suoi collaboratori, colpendo un punto ab– bastanza delicato, la presenza del mondo del lavoro a teatro. Su questo argomento Chiesa ha da tem– po adottato una politica squisitamente paternalista: • Voglio gli operai a teatro, il mondo del lavoro deve convincersi che le sale dello Stabile sono anche dei la– voratori così come di tutta la collettività genovese. Gli operai devono convincer– si che a teatro non si deve andare col vestito buono, ben rasati e con la cra– vatta•. Chiesa aveva lo scorso anno un asso nella manica: • Cinque giorni al porto • del secondo commediografo ufficiale dello Stabile, Vico Faggi, e manco a dirlo di Luigi Squarzina. Inviti ai sindacati, richieste dì dar vita a commissioni formate da teatranti e sin– dacalisti piovvero copiosamente da via Ba– cigalupo mentre i dirigenti dello Stabile sognavano già sedi di organizzazioni sin– dacali trasformate in enormi botteghini dove operai in tuta facevano la coda per procurarsi l'abbonamento a prezzi ecce– zionali. L'iniziativa naufragò miseramente non appena • Cinque giorni al porto • con– cluse le repliche; anche perché qualcuno ebbe l'infelice idea di proporre una di– scussione sul futuro cartellone. Quest'anno a fungere da botteghino si era pensato alle sedi dei partiti, in occa– sione di • Otto settembre • ma senza so– verchio successo. Dati i presupposti era indispensabile controbilanciare l'iniziativa dell'Arei con una equipollente, senza pe– raltro gravare eccessivamente sul bilan– cio dello Stabile (vero e proprio oggetto misterioso, questo bilancio: tutti ne par– lano ma pochissimi hanno avuto la for– tuna di vederlo,Il Gheper un etnte pub– blico è abbastanza strano). Lo spettacolo era bello e pronto (quello dalla Mezza– dri): procurate le sowenzionl romane, non restava che partire. L'unica fatica doveva sostenerla una manciata dì persone: la stessa Mezzadri per i dibattiti, due attori sconosciuti, po– chi tecnici; per qualche mese hanno sgob– bato come negri tutti i giorni, compresi i festivi. Portato nei saloni, nelle palestre, nei cinema, In teatrini parrocchiall, •L'ob– bedienza non è più una virtù .. non può dirsi un esperimento riuscito: si trattava di avvicinare per la prima volta un pub– blico che forse non era mai stato a tea– tro e che dopo questa esperienza certa– mente non vi andrà più. Tre ore buone di discorsi, alti e profondi sin che si vuole ma l'opera risulta priva di quello • specifico teatrale • che le rappresenta– zioni del circuito Arei, non meno prive di validissiml contenuti, hanno saputo co– gliere con grande efficacia. Trascurando, per spirito di campanile, d'infierire sull'incredibile • I dodici mesi •. spettacolo per bambini Integrati nel si– stema con la connivenza di presidi ben– pensanti (una vicenda metereologica pri– va di qualsiasi valore educativo e peda– gogicamente scellerata) e senza contare la stagione al porto che ha provocato le ire volonghiane, vediamo ,se possibile, di tracciare delle conclusioni. Lungi dall'essere il • Teatro di tutti ,, lo Stabile cittadino ha nelle mani e per diverse ragioni il monopolio di un setto– re culturale quanto mai delicato. Se sul piano organizzativo l'Ente opera abbastanza positivamente, su quello cul– turale il discorso di Chiesa e Squarzina è quanto mai lacunoso e contraddittorio. Se è vero che il taumaturgico nome di Brecht e di pochi altri autori, etichettati • di sinistra •, non ha il potere di assol– vere una politica perbenista e piccolo borghese perseguita da troppo tempo, è anche vero che molte responsabilità van– no ascritte a quelle forze partitiche che b1b10ecaginobianco il POTERE si accontentano di alibi di comodo per rilasciare un frettoloso imprimatur a sif– fatte politiche. A questo punto è molto più opportuno scegliere una buona volta la strada della chiarezza. Noi per primi sosteniamo che l'attività teatrale pubblica cittadina (che è poi l'unica) non debba gravare eccessi– vamente sulle tasche dei contribuenti -e che, con tutte le riserve del caso, un di– scorso commerciale possa essere anche valido, avendo gli incassi una loro im– portanza. Se Chiesa e Squarzina hanno il potere politlco di operare scelte chia– ramente privatistiche e consumistiche, pa– dronissimi di farlo: in questo caso si cessi una buona volta di contrabbandare per culturale un discorso teatrale che di culturale h"a poco o nulla. Restano, a nostro parere, due strade da percorrere: e qui ci rivolgiamo più che ai direttori dell'ente al potere politico. O Chiesa e Squarzina continueranno ad es– sere, non solo a considerarsi, i padroni del teatro, avendo la facoltà di compilare il cartellone a loro piacimento, allora lo Stabile non sarà di tutti ma solo ed esclu– sivamente " loro • con scelte più o meno accettabili e valide. Oppure lo Stabile è davvero di tutta la cittadinanza; in questo caso è tempo che sindacati, associazioni ricreative demo– cratiche (con netta preclusione all'Enal), partiti (il cui interesse è molto sporadico e sinora consiste nell'avvallare supina– mente le scelte dei dioscuri dello Sta– bile) collaborino, tramite tecnici da loro designati, con parere deliberativo e non consultivo alla gestione dell'ente, anche e soprattutto per quanto concerne i pro– grammi. Chiesa (di Squarzina non conosciamo l'opinione ma abbiamo ragionevoli motivi per ritenere che sia d'accordo) sostiene che la programmazione vada effettuata da gente di teatro valida e competente ma– gari riunita a tavolino con due sole pol– trone per due soli interlocutori: lui stesso ed il suo partner. I non addetti ai lavori si accomodino fuori a vendere biglietti. Franco Cavenaghi Chi è ~ebért I DAL secondo numero del « Po- tere» abbiamo ricevuto un certo numero cli lettere - 56 per la precisione - contenenti tutte la stessa domanda: chi è Bébert? Chi si nasconde sotto questo feli– no pseudonimo? Nelle lettere è compresa anche la risposta, ogni lettore non ri– nuncia al « toto-Bébert ». Non po– tendo riassumere tutte le missive, diamo qui in percentuale le solu– zioni del « mistero ». Il 40 per cen– to, circa, suggeriscono Gianni Ba– get Bozzo, il 20 per cento Bruno Orsini, il 15 per cento il giornali– sta Nino Berruti del « Secolo XIX», un altro 15 per cento il suo collega e discepolo Paolo Lingua, il restante dieci per cento indica: il consigliere regionale Antonio Canepa, il nostro direttore respon– sabile Alberto Gagliardi, il gior– nalista Paolo Sa/etti clell'«Unità». Chi ha azzeccato? Ci spiace de– ludere i nostri lettori, così intel– ligenti e spiritosi, ma nessuno ha fatto centro. La logica viene in aiu– to: Baget Bozzo è un prete che vi– ve fuori del mondo dedito agli stu– di teologici, come fa a essere in– formato tanto dettagliatamente su fatti e persone? Nino Berruti e Paolo Lingua sono - è vero - molto informati ma il primo non si permetterebbe mai di mancare di rispetto a Taviani e Cattanei, e il secondo è troppo laico, noto– riamente, per collaborare a una rivista «confessionale» come que– sta. Antonio Canepa è troppo pro– fessore e troppo uomo politico per essere - ci scusiamo per la immodestia - spiritoso come Bé– bert. Bruno Orsini e Alberto Ga– gliardi firmano i loro articoli e sono troppo seriosi per scrivere i corsivetti. Paolo Sa/etti è un co– munista ortodosso e non fa nulla contro il partito ... E allora? Allo– ra pazienza. Il mistero ha il suo fascino. Ma, se i nostri lettori più colti ci pensano su un minuto, la soluzione è abbastanza facile. Bé– bert è il gatto di Céline . Bébert Febbraio-Marzo 1971 INCONTRO CON FABRIZIO DE ANDRE' Fedele al dio ignoto D IRE cose nuove su Fabrizio de An- dré non è molto facile, soprat– tuto perche questo cantautore geno– vese presta al pubblico solamente Ja voce, ~enendo la sua persona estranea alle vicende e ai div1Smi che caratte– rizzano il mondo della canzone. Un uo.mo che non vive di scandali e di crisi sentimentali da rotocalco: un uomo che ha saputo creare una sua d.imeD:Sione di vita, una sua filosofia, ~a cw trae motivo per portare avan– ti un fatto artistico diverso dal solito o, comunque, ricco di contenuti. In una decina di anni il nome di Fabrizio de André ha assunto un po– sto ben definito nel contesto artisti– co_(e_anche_ culturale) italiano. I pri– nu dischi, 1 pnmi successi: « Carlo Martello» e « II testamento ». « Avevo bisogno di qualche cosa che mi aiutasse a rompere, ad essere co– Il':)Sciu.to- dice Fabrizio - per poter d1re ciò che mi interessava: così sono di~,entato quello che_ diceva "putta– na nelle sue canzoru >). Un espedien– te come un altro, ammesso francamen– te; ma il pubblico se subito è stato solleticato e shoccato dal linguaggio nuovo e senza inibizioni, in seguito si è accorto di ciò che stava dietro a queste canzoni: un intensissimo mon– do poetico, ricco dì sentimenti e una lucida,. sin?era coscienza della dispe– rata s1tuaz10ne degli uomini, certi so– lo .della morte e della propria insuf– ficienza di fronte a questa prova e– strema. E' questo il tema dominante delle canzoni-poesie di Fabrizio de André: (< Ho cominciato a scrivere in modo anarchico e qualunquista e sono arri– vato a parlare di problemi sociali che mi maturavano dentro a poco a po– co: elemento comune delle mie can– zoni sono le nevrosi, la paura della ~~!~tfc:~l~~siderio, insoddisfatto, di Ma la «paura» che Fabrizio sente non appare in ciò che scnve in ter– ffillli anestetizzanti, non lo porta allo isolamento, al nuuto della vita attiva. Questo <e senso della morte » serve da st_unolo per costrwre qualche cosa per se e per gli altri, per cercare di vi– vere la vita nel modo migliore pos– sibile, non edonisticamente, ma re– sponsabilmente. « Vorrei giungere ad una specie di eutanasia: morire con– sapevolmente e con la coscienza di es– sere almeno in parte servito a quel– li che continuano. Alla tine avere ma.. gari dei rimpianti ma non dei rimor– si, da non dovermi dire: io sono uno strumento che la vita non ha usato)>. Fabrizio non accetta la metafisica, crede più all'azione che all'idea, tan– to più che l'una e l'altra non posso– no vivere distinte. Dice: « se l'idea.. le serve per modificare la realtà è altrettanto vero che la realtà vissuta da vicino porta alla modificazione del– l'ideale». Tuffarsi, quindi, nel mondo e viverlo concretamente, scegliendo la propria strada, cercando di servire a qualche cosa. « Io sono un commer– ciante, un venditore: smercio le mie idee e le mie canzoni. Ma anche in questo mestiere l'importante è com– merciare prodotti più o meno com1ne stibili ». Senza degradarsi in strumen– talizzazioni festivaliere o a produrre in serie canzoni che mandano in vacan– za il cervello, ma cercando di propor– re dei temi, dei problemi veri alla gente. E' questo il discorso che fa Fabrizio, scoprendo quale è la fun– zione dell'artista nel nostro mondo: non un imbonitore, né un noioso cat– tedratico, ma un uomo che parla con gli altri uomini e propone le sue idee, i suoi problemi e le sue crisi. L'ultimo Fabrizio Gli ultimi dischi di Fabrizio rientra– no in questo contesto di impegno cul– turale e di dialogo. « Il pescatore » è un 45 giri in cui si pone il problema del contrasto giustizia-bontà nel mo– do caro all'autore: sotto forma di fa– vola. Un pescatore sfama e successi– vamente salva un assassino inseguito dai gendarmi. E' la scelta consapevole della bontà, sentimento profondamento umano, sul– la giustizia, ordinamento costruito al di fuori dell'uomo, seppure dall'uo– mo. Questo discorso è andato avanti con « Tutti morimmo a stento» in cui alcuni problemi fondamentali della so– cietà (droga, pena di morte, guerra, e– goismo ...) si pongono in modo diretto e drammatico. Ma Fabrizio non è del tutto soddisfatto di questo suo lavo– ro, che pure ha ottenuto molti rico– noscimenti dalla critica e ha venduto cento mila copie, una cosa straordi– naria per il mercato italiano dei 33 giri. « Molti mi hanno scritto e mi sono venuti a trovare per parlare di ciò che ho detto, ma in parecchi ca– si mi è stato chiesto che cosa volevo dire. Ciò non dimostra che il pubbli– co è ignorante, ma che io non sono riuscito a spiegarmi. Ho quindi im– postato "La buona novella" in mo– do del tutto differente». « La buona novella>> è l'ultima fatica di de An– dré. Sul mercato da pochi mesi, que– sto « long play» ha già fatto discutere sociologi, teologi, insegnanti. Vi sono state persino recensioni (favorevoli) su riviste teologiche (« Il regno», « Re– novatio »). Con questo disco Fabrizio ha raggiun– to, a 30 anni, la sua più piena maturi– tà espressiva, anche al di là di alcune imperfezioni musicali. Qui trovano spa– zio tutta la sua filosofia della vita il suo modo di intendere la religion~ e il cristianesimo e, a differenza di « Tutti morimmo a stento », il discor– so è monografico. Prendendo spunto (soprattutto nella prima parte) dai van– geli cosiddetti apocrifi, cioè non uffi. ciali, si narra la vita di Maria, di Giuseppe e di Gesù fino alla crocifis– sione. Ma gli apocrifi sono per Fa– brizio più che altro una scusa: egli voleva fare un discorso più ampio, trattare ancora una volta un tema che lo interessa da vicino e a cui è dif– ficile dare una risposta. E' lo stes– so tema di un suo disco di qualche anno fa, << Si chiamava Gesù», in cui~ il cantautore genovese esprime la pro– pria interpretazione della figura di Cri. sto. « La religione tradizionale è alle– nante - dice de André - è un modo di reagire al disagio provocato dalla società: si tratta di una religiosi– tà per difesa». Ne « La buona no– vella » Fabrizio mette sotto accusa la ignoranza e la mancanza di umanità (e soprattutto di amore) del religiosi– potenti del tempo di Gesù. Maria, Giu– seppe e lo stesso Cristo vi appaiono schiacciati da una divinità che sta al di fuori di loro e del loro mondo e che condiziona Implacabilmente tut– ta la loro vita. Religione della speranza « Io non accetto le forme canoniz– zate di religiosità - continua Fabri– zio - vedo piuttosto una religione di tipo umano, fondata sulla speran– za più che sulla fede ». E sperare vuol dire creare le condizioni di opportu– nità per concretizzare la propria spe– ranza; vedere la divinità nell'uomo e nell'amore e seguire gli esempi di chi ha fatto una scelta veramente rivolu– zionaria in questo senso. « E in quest'ambito mi va benissi– mo Gesù, con1e possono andarmi bene Gandhi o Martin Luther King ». Solo concependo Gesù come un proprio fra– tello-uomo, un fratello migliore che ha avuto un enorme coraggio e delle fantastiche intuizioni, secondo de An– dré si può cercare di imitarlo e se– guire « l'unico comandamento per me valido: ama il prossimo tuo come te stesso ». (E per chi, ne « La buona novella», ascolta « Il testamento di Ti– to», sarà palese questa concezione che Fabrizio ha dell'uomo-modello da imi– tare: il ladrone che ne ha fatte di tutti i colori per tutta la vita, andan– do contro tutti i comandamenti, alla fine sulla croce, vicino a Gesù, sco– pre l'amore). Dare a Gesù una figura divina, può, secondo de André, essere un alibi del– l'uomo per sentirsi esentato dall'imi– tarlo: allora si perde la possibilità di modificare radicalmente la realtà e la natura umana e ricercare la ve– ra civiltà che non è assolutamente progredita in rapporto proporzionale al progresso tecnologico. Ma esiste un modello di società in cui si possa par– lare di conquista reale della civiltà? Fabrizio dice di si. « Basta pensare a quelle comunità indiane dove si è cer– cato di cancellare l'egoismo nelle sue forme di invidia e gelosia, dove tut– to è in comune e frutto di libera scel– ta. Chi non si adegua è scacciato». Egoismo e amore, senso della mor– te; sono un po' i temi dominanti delle proposte musicali che Fabrizio de An– dré è andato elaborando in questi an– ni. Sono anche il tema del 33 giri che sta attualmente preparando, in colla– borazione, per gli arrangiamenti, con il maestro Piovani. Si tratterà di una rielaborazione su musiche folk, genui– namente popolari, dei versi dello « Spoon river » di Edgar Lee Masters. Le tombe, interrogate dal vento, rac– contano la storia di chi vi è sepolto: sono epitaffi finalmente sinceri, com– pletamente diversi da quelli Ipocriti incisi sulle lapidi. Mario Bottaro

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