il Potere - anno II - n. 2-3 - febbraio-marzo 1971

MENSI ,J.JE - CA!SELIJA POST<M.E~665- 16100G.BNov,A La protesta e il potere M AO ha ricostituito i komsomol e messo in naftaltna le guardie ros– se. Anche in Cina il ciclo della sini– stra extraparlamentare e dell'iniziati– va di base sembra al tramonto. Tut– to torna come prima: il potere ha dosato il tempo e lo spazio della pro– testa. In Europa le speranze e le tensio– ni degli ultimi anni '60 sono in via di riassorbimento. In Italia la nouvelle vague sindacale sembra essere l'uni– co risultato concreto della protesta gio– vanile e operaia. Ma, anche per i sin– dacati, è difficile essere forze di mu– tamento reale. Uno dei teorici della società opu– lenta, il Galbraith, .ci ha insegnato che la tecnostruttura è di solito capace di integrare le pressioni di base con o senza la mediazione sindacale. Il sostanziale consenso dei sindacati ver– so il processo di concentrazione indu– striale, privata e pubblica, che carat– terizza l'attuale fase dello sviluppo e– conomico italiano, segna anche il lo– ro punto limite, la loro reale difficol– tà nell'esprimere globalmente le istan– ze più profonde e generali del paese. Infatti il vero nodo politico italiano, quello che pone problemi di movimen– to, nasce non tanto dalla dialettica tra sindacati e padronato al nord, quanto dallo sradicamento, dalla po– vertà e dalla disoccupazione delle masse al sud. Tali tensioni sono destinate ad ac– cre,scersi: l'unificazione europea ha ri– solto questioni vecchie, ma ha posto problemi nuovi. Essr consistono principalmente nel- l'accentuarsi degli squilibri all'in– terno del nostro paese e nel mani– festarsi di difficoltà sempre più gra– vi sul piano dell'occupazione. Le concentrazioni economiche e pro– duttive italiane importano, ad alti co– sti, dall'Europa ricca, macchinari stu– diati per risparmiare la scarsa mano d'opera aborigena francese e tedesca. Il Giappone, in condizioni analoghe alle nostre, ha affrontato seriamente il problema del rapporto tra investi– menti ed occupazione (e cioè quello del costo di ogni posto-lavoro) e si è costruito da solo gli impianti, rifiutan– do quelli europei; ciò non gli ha im– pedito di raggiungere livelli di efficien– za tecnologica analoghi a quelli occi– dentali più avanzati. L'esperienza nip– ponica, pur criticabile per lo sfrutta– mento della forza lavoro e per l'inade- guatezza della politica di sicurezza so– ciale, presenta quindi, anche per noi, interessanti elementi di meditazione. Il ministro del lavoro aveva indi– cato un anno fa nella bella cifra di quattro milioni di unità il numero dei disoccupati previsti per la fine del 1970: quella sortita, diversamente dal– l'elenco delle industrie in difficoltà, non determinò né scandali né contri– te doglianze. Del resto il problema non concer– ne soltanto il sud: la progressiva con– centrazio_ne del potere economico, in atto su scala europea, rischia di me– ridionalizzare tutta l'Italia rispetto al– la vera fascia egemone, accorpata in– torno alle valli del Reno e della Mo– sa. Occorre quindi elaborare una po– litica che gestisca l'europeismo in ter– mini realistici e la programmazione in termini concreti, evitando gli er– rori che potrebbero condannare la struttura economica italiana alla sub– alternità ed il mezzogiorno all'emigra– zione permanente. LE ricorrenti rivolte del sud non sono liquidabili soltanto condannan– done gli aspetti neo-squadristici e la strumentalizzazione missina: occorre analizzarne e co1nprenderne l'autentica genesi sociale. Come si può ignorare che la tensione politica del sud na– sce da profondi sentimenti di ingiu– sta esclusione, dall'alternativa forzosa tra povertà ed emigrazione, dalla strut– tura oligarchica e corrotta del pote– re? Per queste ragioni il mezzogiorno è oggi una polveriera che le occasioni campanilistiche fanno localmente espio. dere. Il Pci non è in grado di ege– monizzare tali tensioni (neppure quan– do, come a Reggio, esse hanno per epicentro le sue roccaforti elettorali) perché è largamente corresponsabile della gestione del potere. E non par– liamo del Psi: alla fin fine la ragio– ne decisiva per cui Catanzaro è il ca– poluogo della Calabria sta nell'interes– se elettorale dell'onorevole Mancini. La tensione popolare può essere par– zialmente utilizzata dall'estrema destra solo perché il neo-fascismo - che a Roma è cosi ben inserito negli orga– nigrammi del padronato pubblico e privato - nella periferia meridionale si presenta, spesso, col volto della pu– ra protesta, I comunisti hanno di fatto favorito il tentativo della destra di guidare i moti, scomunicando sbrigativamente la rivolta come fascis1a e polemizzando con il e< Manifesto» che aveva coper– to della sua platonica autorità i tu– multi reggini: per un partito di mas– sa è un pessimo segno liquidare così facilmente dei movimenti di protesta anche se certamente equivoci da tutti i punti di vista. J L mezzogiorno, oggi, non ha un av- venire concreto, a tempi ragionevol• mente brevi, che non passi per le vie dell'emigrazione. Prima l'emigrazione in Usa, poi nell'Impero, infine nella area del M ec e nella valle Padana: le soluzioni che lo stato unitario ha offerto al sud sono sempre, più o me– no, le stesse. Adesso si concedono i capoluoghi regionali e le università, come ai tempi di Giolitti si concede– vano le sottoprefetture. Il mezzogior– no è sempre considerato un proble– ma particolare dell'Italia, mentre de– ve esser~ un modo per guardare tut– ti i proòlemi italiani. Ma tutto ciò non è nemmeno giun– to a livello della nostra politica. Co– me si immagina la nostra inamovibi• le dirigenza, la nostra classe politica vitalizia, il paese negli anni '80 e '90? Non si sa. Siamo in epoca di program– mazione, esiste un comitato che ha redatto un cc programma » per il de– cennio futuro: ma come la mettiamo con i quattro milioni di disoccupati? Non rischiamo che, in realtà, si for– mi un fronte dell'ordine con alla ba– se i partiti che hanno profonde ra– dici nell'Italia opulenta, pronti a lan– ciare anatemi e corruzione verso la Italia depressa? Dal viaggio in Cala– bria dell'on. Fanfani (cci' ai vous com– pris ... ») del '61, siamo giunti, nel '71, all'esercito a Reggio come un'armata di occupazione. E' un segno. Frattanto la sinistra extraparlamentare diventa un fenomeno folkloristico di tipo uni– versitario, con radici nella Milano be– ne, capace di parlare di guerriglia ur– bana, ma incapace di fare politica. Nel paese sembra si sia perduto il gusto e la capacità dell'autentica crea– tività politica. Le iniziative nuove fi– niscono nella confusione e nella mi– schia: riforma universitaria, riforma tributaria. Il nostro parlamento vota benissimo i provvedimenti che richie– dono un non fare (le amnistie, il di– vorzio, eccetera), non quelli che richie– dono capacità creative. Quelli sono i provvedimenti impossibili. Al grido della Sorbona del maggio '68 cc l'ima– gination au pouvoir », si è risposto con i governi Colombo-Pompidou: la antimmaginazione al potere. Bruno Orsini } N Indocina (in Vietnam, nel Laos e INDOCINA E PALESTINA in Cambogia) si spara e si muore. Invece in Palestina c'è la tregua. Ep– pure la pace sembra più vicina sulle rive del Me-Kong che su quelle del Giordano. Nonostante il carattere di guerra ideologica, che il conflitto del Vietnam tende ad assumere, esso è in realtà un conflitto prevalentemente politico. Deriva dal fatto che le va– rie parti non stimano ancora giusto il momento di poter concludere una pa– ce di compromesso. Marte bifronte In Palestina, le cose sono molto di– verse. Non abbiamo qui un conflitto politico, ma un conflitto religioso-po– litico. Sia Israele che il mondo arabo sussistono sull'utilizzazione politica di una religione. Israele sussiste utiliz– zando a fini laico-politici il messiane– simo religioso-politico della sua tradi– zione. Una lettura temporalistica e lai– ca dell'Antico Testamento è alla base del « sacro esperimento » sionista. La stessa cosa si può dire dei po– poli arabi. Il nazionalismo arabo è la laicizzazione dell'umma, della comunità islamica dei fedeli: l'unità araba ha il suo senso nell'unità coranica. La ten-– sione con Israele è la versione politi– ca e moderna della guerra santa con l'infedele. Sia i regimi arabi che quello ebreo mantengono una linea laicistica e modernista in politica interna; co– me ritrovare i contatti con la Torah e con il Corano se non in politica este– ra? Gli ebrei mantengono l'idea di uno Stato etnico: uno Stato che compren– da tutta la terra promessa, i confini dell'impero davidico: « da Dan a Ber– sheba », dal Sinai alle colline di Golan: da Mishraim (Egitto) ad Aram (Si– ria). La realizzazione dell'impero da– vidico e della comunità etnica in Pale– stina può valere da compensazione al carattere laico di questa comunità. } SRAELE deve affrontare una posi- zione di forza dei partiti religiosi che si manifesta sul piano dell'intran– sigenza sulla questione dei confini. Lo stesso conservatorismo religioso sem– bra trovare il suo piano non nella cri– tica della laicità d'Israele, ma nella bibliotecaginob1anco difesa intransingente dei suoi attuali confini. Anche i paesi arabi debbono affron– tare il peso degli attacchi di un inte– grismo islamico. Se Nasser poté supe– rare l'opposizione dei cc fratelli musul– mani», che giunse persino all'attenta– to politico, se ha potuto fare la sua parte nel sentimento dell'unità islami– ca, ciò è dovuto alla sua belligeranza con Israele, anche se le tre guerre con Israele si sono risolte in tre sconfitte egiziane. La lotta intransigente, laica e militare, venne considerata religio– samente motivata. E l'alleanza con un paese ateo mandata per buona. Sia gli Stati arabi che Israele sono una combinazione di religione e di politica, in cui il momento religioso è strumentato a quello politico: ma può essere strumentato solo se la carica religiosa viene deviata in una carica aggressiva verso l'esterno. P ER questo, arabi ed ebrei hanno, per ragioni di politica interna, ne– cessità di una certa dose di tensione in politica estera. Come giustifichereb– bero, senza Israele, i colonnelli egizia– ni o siriani o libici o irakeni il fatto Sped. abb. post. gr. III (70%) - Anno Il • N. 2-3 - Febbraio-Marza 1971 - LIRE 100 A CONFRONTO Sindacati • • e partiti L A polemica antisindacale, se è arbi- traria sul terreno delle considera– zioni economiche, diventa frenetica quando passa al discorso schiettamen– te politico. Qui si rincorrono e si scon• trano, negandosi a vicenda, I più di– sparati giudizi. Per esempio: qualcu– no vede già all'orizzonte il panslnda– calismo, il superpartito sindacale? Im– mediatamente si fa avanti chi (come Fernando Di Giulio sulle colonne de «l'Unità») avverte che i sindacalisti corrono il risohio del qualunquismo. Taluni non restano convinti dal pa– rere di un membro della direzione del Pci e pensano che il sindacato sia un docile strumento della sinistra par– lamentare? Ecco subito altri perso– naggi muovere ai sindacati l'accusa di essere disponibili all'estremismo extraparlamentare. Le congetture non finiscono anco– ra, perché può capitare che sul « Se– colo XIX » un liberale di fama di– chiari di sentire nel linguaggio « dei nostri giorni sindacali, pianificatori e massivi » addirittura il « linguaggio fa– scista del 1934 ». Capita anzi che que– sto liberale dica chiaro e tondo che Lama e Donat-Cattin hanno in men– te di costituire una specie di consi– glio nazionale delle corporazioni mu– nito di poteri legislativi. Siamo, dunque, al delirio interpre– tativo: e, a seconda del tipo di psicosi politica che affligge l'osservatore an– tisindacale, di volta in volta il sinda– cato è anarchico, bolscevico, concilia– re, neutro, o spudoratamente fasci– sta. Bisogna tuttavia riconoscere che il delirio antisindacale nasce da una que– stione cruciale della nostra democra– zia: quella del rapporto fra sindaca– ti e partiti. E' una questione che i sindacati devono in qualche modo ri– solvere. Naturalmente una nuova e durevole definizione del rapporto tra sindacati e partiti presuppone chiarificazioni decisive, la conquista di equilibri più saldi, la prospettiva di una relativa stabilità, cioè un rinnovamento pro– fondo che sarebbe follia attendersi a breve scadenza. Ma i sindacati non possono rinviare la soluzione del pro• blema a un tempo imprecisato. Bi– sogna saldare la lotta sindacale alla lotta politica, e subito, perché quan– do la protesta sindacale resta senza sbocchi politici, o cade nel ritualismo, o precipita in una conflittualità tan– to più vana quanto più esasperata, o si risolve in una delega a minoran– ze di partito già rivelatasi abbastan– za pericolosa. In tutti casi il movi– mento operaio perde la sua autono– mia, la sua libertà, il suo senso. Il formale disimpegno dai partiti ha voluto significare, almeno in sede di principio, lo sganciamento dalle bu– rocrazie di partito, la rottura con i falsi schemi ideologici, la ricerca dei momenti unificanti di tutta la classe sui temi reali della condizione econo– mica, sociale e politica dei lavorato– ri. Con ciò si son poste in tern1ini di essere rivoluzionari? Che differenza ci sarebbe, allora, tra i colonnelli libici e i colonnelli greci? Il potere militare domina incontrasta– to nei paesi arabi impegnati nella « guerra» con Israele: gli unici paesi che non hanno regime militare sono la Tunisia, il Marocco e il Libano, che sono notoriamente concilianti con I– sraele. I regimi militari non possono giustificarsi che contro l'occidente: e non possono giustificarsi contro l'oc– cidente se il colonialismo occidentale non è una realtà nella presenza di Israele. Dunque: la questione palesti-• nese è un elemento essenziale dell'at– tuale equilibrio politico arabo. E lo è egualmente la tensione anti– araba per l'unità di Israele: dal punto di vista ideologico-politico, Israele è, per la sua ricchezza culturale e spiri– tuale e per la caratteristica della sua tradizione, estremamente diviso. Una tematica spirituale e politica comples– sa ripeterebbe all'interno d'Israele la stessa divisione del mondo in oriente e occidente, se la tensione con gli ara– bi non garantisse l'unità. Questo fatto esprime il significato universale d'Israele; ma segna la de– bolezza e persino la contraddittorietà del sionismo, della riduzione di Israe– le a Stato nazionale. Lo Stato palesti– nese è un vestito troppo stretto per la comunità ebraica. Per queste ragioni, la pace in Me– dio Oriente è difficile: e anche una lunga tregua non sarebbe ancora una pace. Oddo Buccl nuovi le domande circa il rapporto fra classe lavoratrice e istituzioni po– litiche. Ora bisogna dare una risposta, sia pure in via provvisoria e sperimen· tale, sul terreno di una prassi atten– ta alle verifiche e pronta ai cambia– menti di direzione. E' in gioco il fu– turo del sindacati. E anche il futu– ro dei partiti. Per parte loro i partiti la formu– la dei nuovi rapporti l'hanno già tro– vata. Anzi, per essere precisi, di for– mule ne hanno trovate due. Per qual– cuno il sindacato deve restare una forza puramente rivendicativa, il ca• nale delle richieste dei lavoratori per quanto concerne I problemi del la– voro o quei problemi sociali che han– no immediata attinenza con quelli del lavoro. I più « aperti » parlano invece di un confronto dialettico fra sindaca– to e partito. In tutti e due i casi si raccomanda al sindacato l'ossequio al– la divisione dei compiti, il rispetto delle tradizionali competenze, l'intan– gibilità del campo specificatamente politic9. Per esempio DI Giulio dice che i lavoratori possono sempre dar vita a qualche nuovo partito se quel– li esistenti non vanno loro bene; ma, costituito il nuovo partito, sia dato al partito quel che è del partito e al siridacato quel che è del sindacato. Una volta tanto le formule più sem– plici non risultano le più efficaci, e quelle in questione suonano false e illusorie perché rimandano a presuppo– sti oltretutto falsi ed Illusori. li pri– mo presupposto è che la distribuzio– ne del potere deve avvenire necessa– riamente sulla base di una compar– timentazione fra sfera economica, sfe– ra sociale e sfera politica: ma ai nuo– vi Montesquieu delle società industria– li bisognerà ricordare che proprio questa arbitraria compartimentazione salvaguarda i meccanismi oppressivi. Il secondo presupposto è che soltan– to i partiti sono in grado di mediare i divergenti interessi dei diversi grup– pi sociali: e qui può essere legittimo non solo avanzare molti dubbi sulla capacità mediatoria dei partiti, ma anche sulla loro indipendenza dalle pressione corporative. Il terzo presupposto è che Il sin– dacato per sua natura esprime uni– camente interessi settoriali ed è per ciò stesso chiuso alla politica intesa come terreno privilegiato della media– zione e della sintesi. E a questo pun– to si deve per forza obiettare che nel momento in cui il sindacato si fa carico degli Interessi reali delle classi lavoratrici si avvia al supera– mento delle vedute settoriali. La stra– tegia delle riforme non è una stra– tegia corporativa, risponde agli Inte– ressi e alle richieste di tutta la collet– tività nazionale. Del resto, bisognerà cominciare a cogliere tutto il ridico– lo di una concezione burocratizzata delle funiionl di mediazione e sinte– si sociale, che dovrebbero essere ri– servate ad un corpo esclusivo di spe– cialisti fabbricati (in che modo?) dal partiti. E bisognerà discutere sulla pre. tesa di inchiodare i sindacati ad u– na funzione puramente rivendicativa come funzione di fatto subalterna. In– tanto, per quanto riguarda il rappor– to fra sindacati e partiti bisogna con– trapporre alla formula di partito u– na formula di sindacato agganciata al– l'attuale momento ed alle reali con– dizioni in cui si pone il problema di uno sbocco politico della protesta sin– dacale. Per il movimento sindacale non si tratta di egemonizzare i partiti, ma non si tratta neppure di subirli. Da altra parte, la formula del confron– to fra partito e sindacato è una for– mula vuota finché si riferisce ad un partito e ad un sindacato astratti e ad una esercitazione dialettica sul te– ma, poniamo, delle riforme. Ne è una dialettica astratta che può garantire la saldatura del momento politico al momento sindacale. Non è una dialet– tica di questa specie che può rom– pere la concreta alleanza fra vecchie burocrazie di partito e vecchie buro– crazie sindacali. Sul terreno della realtà, per sfuggire alle trappole del– la « consultazione » e del « confronto dialettico », la sinistra sindacale non ha altra via che l'intesa con le for– ze che nei partiti dimostrano la vo– lontà e la capacità di battersi per un'avanzata democratica delle classi popolari. I mezzi per riconoscerle non mancano. Ogni giorno porta con sé un'occasione di verifica. Ciò che con– ta è la coscienza che il rapporto par– titi-sindacati in termini innovativi non può essere altro che un rapporto tra forze anti-burocratiche che vogliono costruire insieme una nuova società. Gianni Tamburrl

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