Una città - anno II - n. 10 - febbraio 1992

CASE IN COLLINA aprire uno studio di grafica in centro, portò decisamente i miei interessi in città, a scapito del podere. A quel punto le cose presero ad evolversi a modo loro, senza che noi opponessimo resistenza, stanchi di '"mandar l'acqua in salita". Io mi sentivo bene, agile, leggero e mi piaceva l'aria di porto di mare che si respirava a volte a casa nostra. Avevamo dato in gestione della terra a varie persone e anche questo significava movimento, attività. Ben presto però, come si poteva forse prevedere, si manifestò una sorta di crisi di identità di tutta l'esperienza, riflesso di quella che vivevamo io e F. che eravamo i più anziani. La convivenza si andava lentamente svuotando di significato, si stava perdendo l'anima, lo stile che era stato nostro. Fu fondamentale anche il fatto che ormai le nostre attività ci portassero lontani gli uni dagli altri, individuando altrove nuove amicizie, nuove affinità. Questa, ridotta ali' osso, è la storia; ma molto ci sarebbe da dire su questi anni, su quello che successe a noi e attorno a noi. E' una storia particolare, non certo esemplare, in cui credo che molti di quelli che hanno vissuto storie analoghe si ritroveranno. So che altrove l'epilogo è stato migliore, come so di altri casi conclusi si a suon di legnate. Si potrebbe cercare di capire dove si è sbagliato e dove si è fatto bene, per scoprire magari che quel percorso poteva essere solo così. E' difficile valutare tutto questo oggi; chi come me è cresciuto con l'idea di un futuro più umano e a questa idea ha conformato la sua educazione si trova adesso fac il men te spiazzato sia di fronte alla critica del passato che alla politica del presente. Il mondo sta andando da un'altra parte e la paura di morire nei sentimenti giustifica chi, perso il gruppo, ripara nel privato. Giustifico, ma non condivido. In questo racconto-riflessione sulla sua esperienza, un viaggio nelle comuni degli anni seffanta, di Vittorio "Bob" Belli. A diciassette anni eravamo in sei, tutti maschi; ci vedevamo pomeriggio e sera nella cantina di uno di noi e ascoltavamo Beatles, Rolling Stones, De Andrè. Avevamo una certa abitudine a ragionare sulle cose il che, se da una parte dava al nostro gruppo un'identità, dal1' altra pem1etteva ai nostri coetanei di tacciarci di snobismo e intellettualismo, aumentando il nostro isolamento. Questa ingenua bohème di provincia faceva comunque presa su alcune ragazzine della zona, che presero a frequentarci sollevando le ire del parroco, il quale arrivò a mettere in guardia i genitori da certe amicizie pericolose per le loro figlie. I nostri genitori, in gran parte di origine contadina e di modeste condizioni, si prodigavano per darci tutto ciò che credevano importante, ma ci vedevano perennemente scontenti e faticavano a capire, troppo diversa era stata la loro adolescenza. Erano le generazioni di transizione: con loro moriva definitivamente la cultura delle grandi famiglie, del lavoro della terra, delle veglie nelle stalle e di tutte quelle cose che costituivano il carattere, l'originalità, della gente di questa terra. Rinnegavano tutto, fuggi vano dal loro passato come dalla peste, loro più di altri furono ammaliati dal miraggio del benessere propagandato dai media. Abbandonavano le vecchie case razionali e si fabbricavano con estremo sacrificio brutte abitazioni impersonali con dentro i televisori, i salotti con i soprammobili, le cucine tutta formica bianca. fa prima casa Dopo aver a lungo riflettuto andammo in direzione opposta, prendendo in affitto una vecchia casa diroccata a quindici chilometri da Cesena. Il luogo era selvaggio, abbastanza distante dalle altre case da permetterci di stare nudi nell'aia e cantare a squarciagola nelle notti di luna piena. Eravamo al secondo anno di scuola superiore, un anno in ritardo ali' appuntamento storico del '68. Le cose maturavano in fretta anche in provincia. Alla casa andavamo appena si poteva: i fine settimana, le feste, i giorni in cui non si aveva voglia di andare a scuola, in definitiva spesso. Di soldi ne giravano pochi e un po' per questo, un po' per rispettare il costume diffuso in quel particolare momento, avevamo preso a far di pendere la nostra sopravvivenza dalla riuscita di svariati espedienti. Qualcuno era esperto in blitz al supermercato, altri si erano specializzati nella cattura di animali da cortile non nostri con l'aiuto del fucile subacqueo. Io avevo avviato il mio primo orto, lottavo contro la gramigna e la vitalba e celebravo riti propiziatori per proteggere i primi magri frutti. Il giro dei frequentatori della casa si arricchì di presenze nuove: compagni di scuola, gente incontrata per la strada. L'unica donna che aveva il coraggio di avventurarsi per quei greppi era la fidanzata di uno di noi, dolce, bella, deliziosa apparizione, le piaceva prendere il sole in bikini. In quegli anni l'aria era carica di elettricità e con la dimensione studentesca scoprivamo una cultura "altra" che veniva da California, Inghilterra, Olanda. Erano musiche, libri, modi di dire, sostanze per visioni. Non ci sentimmo più soli: capimmo che quello che stavamo facendo non era un'avventura soltanto nostra, ma era inserito in un percorso preciso e che, cosa ancor più importante, altrove BIr'ai•1oteC8' nella stessa avventura, rispondendo alle nostre stesse domande, inseguendo un sogno che era il nostro sogno. Lavoglia di conoscersi e confrontarsi si concretizzò nei raduni di "Re Nudo" e di Rubiera, nei coordinamenti delle comuni a Collaferro, nei concerti e nelle manifestazioni politiche. Era forte la percezione di essere parte di un movimento dai confini incerti, che sprizzava vitalità e appagava finalmente l'unica fame di cui soffrivamo, ma vallo a spiegare ai genitori! Dopo circa un anno la casa ci fu tolta con le cattive. Le acide sorelle del proprietario non tolleravano la nostra condotta e si arrampicarono fin lassù una domenica mattina. Ce ne dissero di tutti i colori e noi, esasperati, non riuscimmo a trovare argomenti validi per tentare una difesa. Riportati a valle armi e bagagli ci prese la tristezza. Passavamo ore in una vecchia osteria, si usci va a fare due passi nella notte inseguendo fili di discorsi, una pisciata e si ritornava dentro. Avevamo preso anche il vizio di stordirci con il sangiovese e di certo sarebbe andata a finir male se la voglia di fare delle cose non avesse prevalso, trasformando quei luoghi d'oblio in epicentri di controcultura. le case non capitano per caso Di lì a poco trovammo un'altra casa. Appoggiata su un pianoro che guardava una valle fitta di vegetazione, non grande, sebbene fossero da prevedere diversi lavori a noi piacque subito. Del gruppo precedente eravamo rimasti in due, tutti gli altri erano di recente acquisizione, ma eravamo pronti a metter la mano sul fuoco per ognuno di noi. La promiscuità fluttuante non era ancora un problema e le cose da fare si facevano, talvolta in maniera un po' imprecisa. Le visite erano frequenti, comprese quelle della polizia; le presenze femminili, invece, non abbastanza, al punto che l'unica coppia arrivò, senza avvedercene, ad avere maggiore potere decisionale che non gli scapoli. Ma la pace era garantita dalla comune fede in un progetto di fratellanza universale e da certi riti "eleusini" in cui sperimentavamo direttamente la "radiosa alba dell'uomo nuovo". Al di là dei propositi c'era comunque da fare i conti con una realtà che ci trovava sotto molti aspetti impreparati, come nel caso delle "pubbliche relazioni" o della gestione economica. E fu ancora una volta la nostra superficialità, mista a una certa dose di arroganza, a decretare la fine di questa "fase hippy". Un bel giorno, ancora una domenica mattina, la piccola casa sulla valle fu accerchiata ed espugnata da una ventina di poliziotti e carabinieri. Dodici ragazze e ragazzi in mutande, mani in alto, faccia al muro, l'abitazione sottosopra. Di quel che cercavano non trovarono nulla, ma quel nulla fu sufficiente per far saltare il nostro affitto. tica collaudando su di noi delle teorie tutt'altro che sperimentate le quali, se da una parte ci permettevano di apprezzare l'enorme spazio in cui ci si poteva muovere, dall'altro ci esponevano ad alcuni gravi incidenti di percorso. Ci trasferimmo provvisoriamente in una vecchia casa abbandonata, in una zona di montagna isolatissima. Da lì nacque, inaspettatamente, una situazione positiva. Ci piaceva dormire ammassati nel poco spazio, di giorno leggevamo assieme pagine di Cooper, Mieli, Laing, nacquero amori "regolari" e altri "alternativi". Passò così l'inverno. 1977, campo antinucleare di Montalto di Castro. All'interno del movimento regnava un disordine che a volte diventava scontro diretto tra "linee politiche", il dibattito era su violenza-nonviolenza. -Mi avvicinai al gruppo dei "Quaderni di Ontignano"; loro temi erano la rivalutazione della cui tura tradizionale come punto di partenza per un progressivo riavvicinamento alla terra, la divulgazione delle tecnologie appropriate al contesto d'uso, l'agricoltura e l'alimentazione nel rispetto della natura, Gandhi, Lanza del Vasto, i nativi d'America. Mi ritrovai a riflettere, per la prima volta, sulla necessità di concepire diversamente la comunità: non più informi agglomerati umani, ma individui definiti, uniti tra loro da un abitare vicini e da un progetto comune. Era la "teoria del villaggio" che, in termini pratici, significava dividere una grande casa in piccole unità abitative lasciando uno o più locali a disposizione della vita comune; oppure, quando le condizioni economiche e architettoniche lo permettevano, poteva voler dire un borgo (un villaggio per l'appunto) in cui coppie o singoli avessero a disposizione, oltre al loro spazio privato, uno spazio collettivo di lavoro, riposo, educazione dei figli, ecc. Questa immagine del vivere in comune era per certi versi il superamento della comune hippy e prevedeva un livello di verso di coscienza. Nel 1979, mentre ultimavo il mio periodo di servizio civile, con un gruppo di amici sopravvissuti alle recenti traversie incominciammo a riorganizzarci. Questa volta trovammo un vero e proprio podere, più montagna che collina, a venti chilometri da Forlì. Eravamo in quattro, con qualche anno di frequentazione alle spalle e un certo bagaglio di varia esperienza che ci autorizzava a pensare che quella sarebbe stata la volta buona: se non la casa definitiva, quasi. Ben presto ci accorgemmo che le cose andavano diversamente. Il luogo era stupendo, c'erano persino le condizioni per stabilire l'autosufficienza alimentare, ma lentamente si manifestarono delle tensioni che conoscevamo per sentito dire e che non pensavamo potessero arrivare a riguardarci personalmente. Andavamo scoprendoci diversi gli uni dagli altri e il dispiacere per il senso di separazione non fu sufficiente a farci desi- infermezzo stere dal bisogno di affermarsi. Se attorno ad una questione Persa la casa sulla valle rea- non c'era spazio per più rigimmo in maniera meno di- sposte, quella che emergeva sperata. Quell'anno, infatti, ci era la voce che si imponeva più aveva uniti in un progetto di prepotentemente. Altre novità ampio respiro che non si limi- furono le manifestazioni di gelava all'abitazione, ma che, losia, le rivalità di coppia, i captando ciò che di nuovo sta- "giri di menage". Dopo qualva succedendo nel mondo, che mese uno rinunciò: rimapuntava alle relazioni inter- nemmo in tre. l giorni si ripetepersonali e al micropolitico vano uguali, l'entusiasmo inicome zone primarie del fare ziale aveva lasciato il posto al rivoluzione. Questo ci vedeva dovere, alla necessità, certe responsabilizzati in prima per- mattine mi mancava la voglia sona sia come registi che come di scendere dal letto, tanto era attori e critici. Stavamo in pra- prevedibile ciò che sarebbe Gino Bianco avvenuto. Prendemmo ascaricarci l'un l'altro le responsabilità per quello che si andava profilando come un fallimento. Le visite erano meno frequenti che non in passato e forse proprio per questo divennero più desiderabili, poteva succedere allora che ci si litigasse l'ospite. Mi capitava, mentre ero al pascolo con le capre oppure nell'orto, di fissarmi a guardare la strada asfaltata che correva giù in fondo alla valle; era disagio: io cercavo di dare a quel disagio giustificazioni che fossero in linea con la scelta fatta, ma le emozioni mi portavano da un'altra parte, il corpo si ribellava; mi sentivo ingabbiato. Un giorno decisi di parlarne con gli altri, ma partii male: avevo sensi di colpa. Una carta da giocare poteva essere la riorganizzazionedegli spazi di vita, ma subito emersero i limiti strutturali della casa. A quel punto I' alternativa era di fabbricare un'altra piccola abitazione. Questo fece imbestialire L. che mi tacciò di snobismo, mentre in F. suscitò una timida curiosità. La costruzione, mai ultimata, di quella baracca fu per me l'ultimo atto di quella avventura durata qualche anno. Me ne andai dopo l'ennesima lite con L., con il sospetto di non essere stato all'altezza, di aver fallito proprio nella resa dei conti di tanti discorsi fatti. Forse ero più bravo a parlare che a fare, come diceva ilmio amico/nemico L.? si perde il pelo, ma non il vizio Dopo un periodo di randagismo cercai e trovai una nuova casa, a pochi chilometri da Cesena, che corrispondeva perfettamente a ciò che, in quel momento, capivo dei miei bisogni, sospeso com'ero tra ritorno alle origini e cultura urbana, tra individualismo e collettivismo. Con la mia compagna iniziai a sistemare la casa e di lì a poco arrivò anche F., a sua volta sganciatosi dalla situazione precedente, dove erano rimasti L. e F.C. A noi tre si aggiunse P. e iniziò un periodo in cui riscoprii il piacere di fare le cose assieme agli altri. La casa divenne presto un riferimento, anche ideale, per tutto un giro di persone. Ero continuamente in movimento, da una riunione all'altra, dall'orto alla biblioteca di quartiere che avevo in gestione; recuperavo il tempo e le amicizie perdute. Si stava intanto delineando l'istanza ambientai ista, dalle ceneri del vecchio movimento resuscitava come una fenice quello nuovo. La prospettiva di una presenza, anche se verde, negli organi di governo ci dava da pensare e fu proprio attorno a questo dibattito, che ci si ritrovò attivi e uniti. La mia compagna rimaneva esterna a tutto questo fermento, in lei aveva il sopravvento la necessità di concretizzare una professione che fosse in linea con i suoi studi universitari e che significasse realizzarsi indipendentemente dal mio percorso. Alla fine decise di accettare un incarico che l'avrebbe portata lontano. F. lentamente riorganizzava il suo mestiere di falegname, ma io, conoscendolo da una vita, sentivo che qualche cosa era cambiata: aveva perso l' entusiasmo, spesso agiva per inerzia, con rassegnazione. Pareva che per lui il fallimento del1' esperienza precedente avesse significato la fine di molte cose. Attorno alla casa c'era un podere che da molto tempo non veniva coltivato: lo scoprimmo ricco di alberi da frutta e iniziammo a lavorare la terra alla luce delle recenti acquisizioni di cui eravamo portavoce. Ben presto ridimensionammo la portata dell' intervento, limitandoci all'orto e alla raccolta dei frutti spontanei. Il fatto di non trovare il tempo per coltivare il podere la diceva lunga sul tipodi rapporto che si andava ormai stabilendo con la terra e ancora una volta si palesò il conflitto tra ciò che si doveva fare e ciò che si sarebbe preferito fare. Nell' 85 inaugurammo a Cesena un locale pubblico piuttosto originale, il "Reporter", che presto divenne il ritrovo per tutta un'area. Questo avvenimento, unitamente alla decisione di .--------------ai Silvano Gafeoffi 11FIUMI Il Fiume Montone nasce dalla confluenza del Torrente Acquacheta con il Fosso Troncalosso che, scendendo da direzioni differenti la dorsale appenninicachedivide laRomagnadalla Toscana, finiscono per incontrarsi e fondersi a S. Benedetto in Alpe. E' la zona del Passodel Muraglione e del Massiccio del Falterona. Prima di raggiungere Rocca il Fiume percorre numerosi chilometri scendendo rapido e tortuoso, in un alternarsi di profondi gorghi dalle acque scure e di amene cascatelle, occupando il fondo di una stretta valle i cui versanti sono ricoperti di fitti boschi. Nei tempi passati è stato un Fiume generoso per chi ha saputo trattarlo con raziocinio e prudenza. I borghi ed i paesi che attraversa furono costruiti con le pietre, la sabbia e laghiaia estratte dal suo letto. Le sue acque hanno mosso rudimentali ma efficienti turbine per una artigianale produzione di energia elettrica e le pale di decine di mulini. si sono irrigati gli orti e alimentati gli acquedotti. Lucio amava quel Fiume. Da fanciullo era sui sassi e nelleacquedel Fiume che viveva i momenti più intensi di libertà, di gioia e di spensieratezza: i bagni, nel "gorgo della Catilina·•, ripetuti per ore; il gioco dei soldati; le grandi battute di pesca con le mani; le gare di corsa sul greto sassoso: le scampagnate, nel pomeriggio del sabato fascista, alla chiusa del Mulino di Casanova per spiare. nascosti fra i cespugli. le ragazze che si asciugavano al sole dopo il bagno; gare a chi. facendo pipì. arrivava più lontano. In inverno Lucio andava a mettere le tagliole sulle rive del Fiume, a tirare sassi sulla superficie ghiacciata oppure. per la disperazione dei suoi genitori. a scivolare sul ghiaccio dove questo sembrava più spesso. C'era dunque chi, nel Fiume giocava e si divertiva, e c'era invece chi dal Fiume traeva piccole ma importanti fonti di reddito: Zaga, che faceva iI calzolaio, guadagnava qualche decina di lire al mese pescando con la rete a bilancia e vendendo il ricavato ai contadini o scambiandolo con piccole quantità di patate e fagioli; le famiglie di Zabà e Pipòt si sostenevano raccogliendo lepietre e poi spaccandole in minuti pezzi per poi venderle a quegli imprenditori che avevano in appalto la manutenzione delle strade provinciali e comunali; la Tude. la Rigadona. la Bistecca, la Badia. la Romilde e altre ancora, nel Fiume lavavano montagne di biancheria dei signorotti locali. in estate ed in inverno, curve sui lavelli di arenaria per ore ed ore cantando (!). Si affidavano totalmente al Fiume inoltre due o tre famiglie che si contendevano lo sfruttamento dei depositi di sabbia sedimentata durante le piene. Nei primi anni trenta a Rocca Valmontone, come del resto in quasi tutti i Comuni detr Appennino Romagnolo, era di casa una grande miseria. Il lavoro mancava. Centinaia di famiglie sopravvivevano principalmente con il denaro guadagnato con le campagne della mietitura e della trebbiatura del grano. Si lavorava per 40 o 50 giorni, nel Comune di residenza o spostandosi giù nella "bassa". poi si sperava di rimediare qualche altra giornata in lavori saltuari come la spalatura della neve oppure vendendo qualche fascio di legna furtivamente raccolta nei boschi dell' lnfernaccio. del MonteColombo.del MontedellaChiodaonel Fontanone.Comegià accennatoc'erano poialcune famiglie che contavano sullo sfruttamento dei depositi sabbiosi del Fiume. Questi non erano permanenti, ma si formavano durante il corso dell'anno e specialmente dopo le piene autunnali e primaverili.Nell'inverno del '33 cadde insolitamente abbondante la neve: i monti circostanti ne erano ricoperti e vi si trovavano nevai alti 2 metri; in paese era alta più di un metro. Nel mese di marzo si levò puntuale lo scirocco determinando il repentino scioglimento delle nevi. Il vento portò con sè anche la pioggia che cadde ininterrottamente per due giorni. I torrenti minori si gonfiarono di torbide acque ed il Fiume si allargò fino ad occupare interamente il suo alveo. Era il primo segnale della grande piena. La gente del paese si affacciava. intimorita ed affascinata, dalla ringhiera in ferrobattuto di ViaGuerrazzi o curiosava sul ponte nuovo. Le squadre dei cavatori di sabbia stavano ali' erta. Sapevano che con la piena i depositi si sarebbero ricaricati di buon materiale e che il Comune, quello stesso anno. avrebbe appaltato i lavori del le nuove Scuole elementari e del nuovo Cimitero aprendo la prospettiva verso guadagni certi. Il campanone della torre civica. alle I I di un mattino di fine marLO.annunciò l"arrivo della grande piena. I vecchi affermavano che era la più grande che si fosse verificata negli ultimi I00 anni. Cavalloni di acquamelmosa si rincorrevano impetuosi, sommersero l'intero greto e si alzarono fino ali' occhio del ponte fra la Piazza Grande ed iIMercato: allungando lemanioltre ilparapetto quasi la si poteva toccare. Carogne di animali, tronchi d'albero sradicati, masserizie apparivano e scomparivano nel turbinio delle acque. Il caldo e familiare sciacquio del Fiume si era trasformato inun sordo, continuo, impressionante boato. Tutti gli orti che tradizionalmente occupavano le immediate vicinanze del Fiume andarono distrutti, ma per il resto i danni furono contenuti. Il Fiume rimase grosso per circa IOore, poi il livello cominciò lentamente a scendere. Fu allora che entrarono in azione i cavatori di sabbia. Una squadra di questi, appartenenti alla famiglia dei "Carlusa" e capeggiati da Santè, scesero nella melma dell'orto distrutto appartenente ai Signori Ghirelli. Erano gente forte, coraggiosa, risoluta e con una inestinguibile voglia di mangiare sempre addosso. Portavano lunghe pertiche e corde robuste. La gente sul ponte si infittiva curiosa ed incredula rispetto a ciò che i più anziani già avevano intuito e spiegavano al centro di nutriti capannelli. I "Carlusa" conoscevano perfettamente il comportamento del Fiume in quel tratto, sapevano con precisione dove avrebbe depositato sabbia e ghiaietto e non volevano dividere con nessuno la "manna" venuta con la piena. Vigeva allora il principio inviolabile, tramandato da sempre di generazione in generazione, che chi perimetrava per primo il territorio della cava ne acquisiva l'esclusiva dello sfruttamento. Questo era dunque l'incredibile obbiettivo dei "Carlusa" quel giorno di marzo del '33. Cominciò dunque l'impari lotta fra uomini e Fiume: due di loro, legati alla vita con una corda il cui capo era saldamente tenuto in mano da altri quattro, si gettarono in acqua armati delle pertiche con cui avrebbero "segnato" il perimetro di cava. La gente di Rocca, schierata sul ponte, rimase dapprima attonita, poi cominciò ad incitare gli uomini lanciando grida d'incoraggiamento. I due si aggrappavano alle pertiche, sfidavano la corrente impetuosa, ne venivano travolti e sommersi, scomparivano per alcuni interminabili secondi per ricomparire qualche metro più in là. Allora i quattro delle corde tiravano e tiravano, riportandoli vicino alla riva. Ripreso fiato, ricevuto qualche consiglio dal capoccia, si ributtavano in acqua per ricominciare la lotta. Piantata la prima, via ancora indietro per prenderne ancora altre e poi ancora e ancora per innumerevoli volte finchè, fra gli applausi scroscianti della folla. la "segnatura" fu completata. Il giorno dopo cominciarono ad emergere i banchi di sabbia: mai si era vista tanta abbondanza. Unaltro gruppo, capeggiato da "Cagnara", vista la situazione di abbondanza, tentòd' inserirsi,conquistandoaltreparti delFiume ai confini della segnatura dei "Carlusa". Ben presto nacquero le discussioni sulle linee dei confini, a cui aderì con entusiasmo una consistente parte del paese. Era lecito -si dibatteva- per i secondi arrivati insidiare ciò che era stato conquistato durante l'imperversare della piena? Appena possibile i "Carlusa" ruppero gli indugi e cominciarono le operazioni di raccolta della sabbia seguiti senz'altro dai "Cagnara". Gli uomini dei due gruppi si trovarono ben presto a scavare lungo i confini gomito a gomito. A questo punto lo scontro fu inevitabile. Ebbe cosl inizio la più grande scazzottata dell'anno. Si picchiarono di santa ragione per quasi 20 minuti incitati e sostenuti dalla folla che assisteva dal ponte, finchè intervennero i Carabinieri a cavallo per sedare la rissa. Ma prima di cedere i contendenti trovarono lamaniera di trovarsi per qualche minuto schierati sullo stesso fronte e, armati di pale e badili, cercarono di difendersi insieme dalla carica delle forze dell'ordine. Quando tutto finl uomini e animali ansimavano e sanguinavano, coperti di sudore. Otto persone finirono in carcere dove rimasero per 15 giorni. vennero poi liberati e rinviati a giudizio per rissa e opposizione alla forza pubblica. Al processo, che si tenne due mesi dopo, vennero tutti condannati a due anni di carcere. I "Carlusa", che avevano vinto la "battaglia" del Fiume ed erano rimasti padroni assoluti del campo, fecero appena in tempo a sfruttare il giacimento prima di finire incarcere. Lavorarono per oltre un mese fino a 15 ore al giorno scavando e trasportando, con i "corbelli" sul collo, centinaia di metri cubi di sabbia. Uno dei "Carlusa" si faceva caricare sul collo un "corbello" che conteneva 150 kg. di sabbia. La gente commentò: "Ma cos"è il diavolo?" Quel soprannome gli rimase per tutta la vita. Ancora oggi quando ritorna al paese per le ferie dalla Francia, dove emigrò dopo il carcere, la gente dice:"Hai visto? E' ritornato il Diavolo!". UNA CITTA' 1 3

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