Una città - anno II - n. 10 - febbraio 1992

• • • v1agg1ator,------------------- PER POTERTORNARE intervista a Maria Pia Dradi, forlivese, clte lta vissuto cinque anni in America Latina, di cui tre presso la tribù amazzonica dei Cltayaltuifa Come nasce la tua decisione di partire per l'America Latina? Ho sempre avuto interesse per l'America Latina sin dal '68, da Che Guevara ecc., comunque era un interesse che io credevo strettamente politico, legato ai movimenti di liberazione latinoamericani; anche ali' Università avevo approfondito questo interesse da un punto di vista politico-sociale. Poi era rimasto lì, mi ero occupata di altre cose, non era più stato al centro dei miei interessi. E' tornato fuori una decina di anni fa. Avevo una grossa insofferenza, un forte disagio, nei confronti della società italiana. E decisi che dovevo dare un taglio, andare da un'altra parte. Tornò fuori r America Latina. Ebbi la possibilità di fare un viaggio, una delle cose più belle che sono riuscita a fare: sono stata via sette mesi, partendo dagli Stati Uniti sono scesa fino in Bolivia. Un viaggio con lo zaino sulle spalle, con pochi soldi, girando in pullman, a stretto contatto con la gente. E' stato un viaggio nato come liberazione, ma a quel punto l'America Latina non era più soltanto la realtà socio-politica che io avevo vissuto nella mia "fantasia", era già qualcosa di più. Era un posto dove esisteva gente che viveva diversamente da noi. Scoprii che oltre alle effigi rimaste dei miei miti, del Che, c'era altro: un continente dove si respirava un'aria diversa. In quel primo viaggio non andai in Amazzonia,conobbi principalmente il mondo andino e il mio amore venne fuori, molto lentamente, scendendo dalle Ande e scoprendo il Perù. Tornai in Italia, ma il mio obiettivo era diventato quello di riuscire a tornare là non più come turista, ma per fare un' esperienza di lavoro e di vita. Cominciai così aprendere contatto con leO.N.G. (Organizzazioni Non Governative; organismi di volontariato riconosciuti dall'ONU) in Italia, che erano poche ed essenzialmente legate al mondo cattolico. Questa possibilità però non mi soddisfaceva del tutto: non mi piaceva l'idea che si andasse là per imporre, in un certo senso, il nostro modo di essere, di vivere. Lavorai molto per mettere insieme i soldi e, ali' inizio del 1983, ripartii. In quel periodo le idee mi si erano un po' schiarite: dell'America Latina in generale scelsi il Perù e nel Perù scelsi l'Amazzonia. Arrivata in Perù riuscii ad entrare in contatto con un'organizzazione peruviana della Chiesa cattolica; erano gli unici che lavoravano in Amazzonia e quindi non avevo scelta. Comunque la Chiesa cattolica là è più aperta e progressista. quindi ingoiai il rospo. Cominciai a lavorare con loro che mi mandarono in Amazzonia a fare uno studio di fattibilità per un progetto di aiuto ai Chayahuita: volevano commerciare autonomamente i loro prodotti e io fui mandata là per verificare la realizzabilità del progetto. Come era, materialmente, vivere con la tribù? Ho vissuto in vari villaggi dei Chayahuita che sono al nord. nella regione di Loreto, vicino ai fiumi Cahuapanas e Sillay. l Chayahuita sono una popolazione antichissima. di circa 13000 persone, con un forte spirito religioso, cattolici convertiti dai gesuiti. Il loro è un sincretismo in cui. nonostante ci sia un utilizzo della simbologia cattolica, rimane il nocciolo della religiosità animista che vede Dio in tutte le cose, nella natura di cui loro fanno parte. I caratteri fondamentali della loro vita sono gli stessi di tremila anni fa: vivono in modo "primitivo". nel senso di una vita basata esclusivamente su I quello che offre la natura. Ma sono anche molto bravi a mischiare le cose senza esserne troppo sconvolti, ad esempio vivono senzaelettricità, ma poi trovi la radiolina. Utilizzano ciò che può essere utile. ma anche ciò che piace. Io, per scelta, non ho mai avuto una casa mia. Ero ospitata da loro, generalmente dal maestro, che spesso è meticcio e che vive ·'meglio": ha qualcosa di più elaborato da mangiare (scatolette per capirci) e parla lo spagnolo. Però ho anche vissuto in case indigene, mi sono fatta degli amici, delle persone acui sono legata affettivamente. Sono madrina di alcuni bambini e non è un legame senza significato: la "comadre", il "compadre'', sono responsabili del bambino. Per questi miei '•figliocci" sono pronta a dare il mio appoggio, in tutti i sensi. Sono legami forti e significativi; è la regola del clan: da un lato legame affettivo, dall'altro alleanza. Per loro avere un legame con una bianca aveva un significato importante: forse il segno dell'incontro con altri popoli. Infatti pur mantenendo la loro tradizione sono persone tolleranti, disponibili, aperte al resto del mondo. Io rappresentavo i bianchi, non certo i bianchi peruviani però. Per loro la distinzione era molto grossa; lo dicevano sempre che noi europei eravamo personeche si ·'adattavano" a loro; mangiavamo, dormivamo, bevevamo come loro e ci dicevano che noi eravamo più vicini a loro di quanto non fossero i loro connazionali bianchi. Se uno si avvicina in un modo che a loro sta bene, viene accettato e la mia scelta di vivere in mezzo a loro mi ha permesso di avere dei rapporti umani molto importanti. stuoli di bambini per farmi • compagnia Loro vivono tutti insieme notte e giorno, la dimensione collettiva è fondamentale e dividono tutto quello che hanno. Non è facile per noi, per la nostra generazione soprattutto, abituati come siamo ad avere i nostri spazi, per cui stare soli è anche una scelta di libertà. Passi giorni e giorni in cui stai sempre con qualcuno, e l'unico momento autonomo, di solitudine, è sotto la zanzariera nel sacco a pelo. Per il resto ero sempre circondata da qualcuno: stuoli di bambini che mi circondavano proprio per farmi compagnia, perché non fossi sola. Allora, a volte mi ospitavano nella "posta sanitaria'', praticamente una infermeria. dove riuscivo ad avere momenti solo per me, per leggere o scrivere. Il mio modo di vivere non era molto diverso dal loro: io avevo lo zaino, il sacco a pelo, la macchina fotografica e il registratore. Dopo un anno mi ero fornita anche di un materassino gonfiabile perché, dormendo per terra, cominciavo a risentire dell'umidità. E poi giravo con un po· di scorte alimentari: scatolette e riso. che loro producono e vendono. e quindi solitamente non mangiano. Quando vivevo con loro le mie provviste erano di tutti. perché non è pensabile che qualcuno mangi qualcosa senza condividerlo con gli altri. Ci sono nuclei familiari o è principalmente una collettività? E tu che spazio occupavi? I Chayahuita hanno sempre avuto la famiglia estesa. in cui convivono più generazioni e sono matrilocali. con il matrimonio, cioè. il marito va in casa della moglie; rondamentalmente la ocstionc della famiglia. della casa. dei figli è femminile. I villaggi più isolati sono quelli più tradizionali. dove ancora la famiglia estesa predomina. I villaggi vicini ai fiumi maggiori, dove c'è più traffico, che "sentono·· maggiormente ciò che c'è intorno. sono quelli dove la famiglia nucleare prevale. Dal punto di vista dei figli siamo ancora molto sul tradizionale: il tasso di fecondità è di circa undici gravidanze per donna, con 910 figli nati vivi per ogni donna. Muoiono dopo: la mortalità infantile è molto elevata. Fino a che sono arrivata io avevano visto solo preti. suore e qualche missionario laico, cattolico o protestante. Dopo un po· che ero là la domanda è venuta fuori: ma Ili chi sei? lo avevo già detto che non ero lì con scopi religiosi, non ero una suora. Però non ero sposata e soprattutto non avevo figli. Per loro avere figli è una cosa elementare, nessuno si chiede se vuole fare figli: i figli si fanno, sempre e comunque. Tornando a mc ero una donna giovane, bianca, non suora, non ero lì ad evangelizzare ... e allora? Ero in difficoltà. dovevo solo • imparare Come fai a spiegare il tuo travaglio interiore, il fatto che hai voluto fare qualcosa di diverso, che bene o male è qualcosa "per te"... Cercai di spiegare Boscimani Ridotti a maschere di polvere e sudore, ci fermiamo presso due roccioni cavi dal cui interno provengono sciami di vespe che ci danzano intorno senza pungerci. Questo Kalahari ci ha distrutti. Non è deserto, non è savana, non è boscaglia ma è un po' di tutti e tre, con l'aggiunta di alcuni solitari monumenti di roccia dove antichi o recenti cacciatori hanno graffito elementari figurine filiformi di antilopi e di arcieri. La nostra guida si aggira intorno, alla sconsolata ricerca di chi non c'è. Ogni tanto s'arresta e rimane in attesa di un improbabile Godo!. Ma il richiamo medianico funziona. Da dietro un'acacia spinosa sbucano due ometti da favola: magri, grinzosi, con due facce asiatiche di buoni vecchini. Scatto una foto ma la magia dell'apparizione sfugge alla CO che volevo conoscere poqi nuovi. gente nuova, modi diversi di vivere. volevo lavorare con loro. essere d'aiuto. Tutto questo gli stava bene. E a te? Sci partita per cercare qualcosa "per te". Hai trovato quello che cercavi? Ho avuto diverse fasi. La prima fase di impatto è stata molto dura. Poi ho avuto sei mesi in cui mi è scoppiato questo grossissimo amore cd entusiasmo. E lì ero nell'ottica di imparare. Imparare a vivere là. I mpararc acamminare nei sentieri senza inciampare tutte le volte, ad andare a prendere l'acqua al fiume, ad accendere un fuoco. Sapevo di non poter ancora far niente per loro: dovevo solo imparare a stare con loro. dipendevo da loro per sopravvivere. Comunque è stata una cosa molto bella, un ritorno alle origini. Scoprire come essere umano chi sei, cosa sei in grado di fare. E ti rendi conto che impari, ti sembra tanto difficile. ma puoi imparare e ti puoi adattare. Dopodiché passata questa fase mi sono detta: ma cosa ci faccio qui? li lavoro è stato un mezzo all'inizio, poi però è stato spontaneo chiedermi che contributo potevo dare. Ero di fronte ad una realtà, non di miseria, ma di sfruttamento da parte della società nazionale, che non li rispetta. Questa gente non è ·'povera•·, vive in modo opposto al nostro, conserva le proprie tradizioni, il proprio ambiente. Mi sembrò importante che acquisissero degli strumenti di resa dell'immagine. Ci guidano al villaggio. E' lì, a pochi metri, confuso in questo paesaggio di terra arida e di piante scheletriche. Gli sterpi secchi di cui son fatte le capannucce lo annullano nell'insieme di una sterminata desolazione: il Kalahari. Gli errabondi dominatori del deserto sono ridotti a stanziare con quattro galline e una ventina di bovini stenti. Sappiamo che qualche altra banda si aggira per la piana, per sottrarsi al ricatto della "civiltà" che prima li ha sterminati con l'irruzione dei neri più alti e poi con la conquista dei coloni olandesi. E tutti li abbattevano come animali nocivi perché esercitavano il loro antico mestiere di cacciatori sulle mandrie domestiche, essendo stata decimata dai nuovi arrivati la fauna locale. Così sono scomparsi gli Ottentotti. I più illustri abitanti d'Africa, antenati dei nostri antenati, improvvisano per noi. nella notte illune, una danza attorno al fuoco. E' un movimento lendi fc~a da questo mondo esterno che incombe, dal quale però sono anche attratti. Ecco, potevo cercare di dare ''informa1,ioni'' su questo mondo esterno, ma lasciarle sperimentare a loro. Questo se volete è stato i I mio ruolo: dare qualche strumento in più a loro per capire. Ma, altrettanto importante. anch'io imparavo tanto da loro. Ad esempio quando mi sono ammalata di malaria ho chiesto di curarmi con le loro medicine, con le loro erbe. Inizialmente erano scettici, perché pensavano che non le avrei sopportate. In fondo siamo diversi e non era detto che io avessi la stessa loro resistenza. Però per me l'importante era che mi insegnassero, che mi facessero capire il loro modo di vi vere. Questo era accettato. apprezzato e da parte di molti c'è stata la comprensione che era veramente un rapporto di scambio. Ha trovato risposta il disagio che ti ha fatto andare là piuttosto che fare altre scelte? Allora io pensavo di non sopportare più la vita in città, il caos, l'industriai izzazione, l'avere sempre tutto pronto. Questa nostra società mi stava stretta, mi sentivo soffocare, era tutto inquadrato e io non trovavo uno spazio. Per questo la ricerca dell'opposto, l'Amazzonia, una vita primitiva, senza limiti. Limiti che in realtà ci sono, ma l'ho scoperto dopo. Andando là ho acquistato una dimensione cli me come essere umano, ho imparato a fare delle cose anche molto materiali. Ho provato a me stessa che posso essere in grado di sopravvivere, di fare certe cose. Poi mi sono resa conto, a posteriori, che è vero che io non sopportavo e non sopporto un certo tipo di società, però io sono di qua. Quando me ne sono andata rifiutavo anche il fatto di essere "italiana". poi ho capito che non aveva <,cn<,o.E non perché amassi tutto quello che c'è qua, ma veramente come dato di fatto, siamo nati in una certa società cd è qui che dobbiamo fare i nostri conti. E lì ho cominciato a pensare che forse ancora qualcosa si poteva fare per cambiare. Loro mi hanno insegnato molto, perché hanno una concezione molto dinamica dell'esistenza. Per necessità o per scelta libera sono "in movimento''. E il loro atteggiamento verso il nuovo -questo mi piace, questo mi è utile ccc ..- ha cominciato a farmi pensare che si può cambiare, migliorare e si possono conci li are valori diversi. Ho capito che può essere un valore cercare di stare meglio, perché no? E se lo accetto per loro, deve valere anche per me. Però tutto questo non è stato automatico. più stavo bene e più capivo che • • prima o po, era qua che dovevo tornare Io ero arrivata là piena di tutte le mie frenesie. Succede che uno va via perché rifiuta questa società, e poi si comporta esattamentecome se fossequa: sempre a correre, bisogna fare e fare! E' tremendo perché loro hanno una concezione totalmente diversa dalla nostra. Nessuno è schiavo del tempo, è il tempo ad essere al tuo servizio e non il contrario. Dovevamo partire alle sei e si partiva alle undici. C'era una riunione alle otto e iniziava a mezzogiorno. Per me quelle ore '·perse" erano una tortura. Poi qualcuno me l'ha dello apertamente: "Ma tu perché corri sempre?" All'inizio questo mi dava fastidio, però non mi sono mai sentita estranea. E più stavo bene, più mi sentivo a mio agio e più maturava in me la consapevolezza che non ero di lì. Prima o poi dovevo tornare e i miei conti personali li potevo chiudere solo qua. E poi a livello affellivo cominciava a saltar fuori la solitudine. Molti mi volevano bene, ma ero sola. Solitudine "scelta", forse in modo irrazionale, ma con decisione. Così sono tornata. In quel senso lì la radice è stata forte. Sì, forse sì. Anche se poi faccio fatica a identificare in maniera precisa le mie radici, persino oggi. Io non sono voluta arrivare fino in fondo, fare la scelta radicale di restare lì. Mi sono data dei limiti che forse mi hanno poi permesso di tornare e di ricominciare. Ho ancora molta nostalgia, ci sono ricordi indelebili, un contallo con la natura stupendo. Cose che qua oggi non vivi più. Anche la nostalgia della collettività, le feste, le riunioni ... Certo che dall'Amazzonia a Roma ... E' molto dura, ma mi rendo conto che è qui che devo stare. Mi ero messa fuori. Adesso sono tornata dentro, anzi voglio stare dentro. Mi sono riappropriata della mia identità come persona e come cittadina di questo paesee del mio diritto di esserci. Se qualcuno cerca di mellermi indietro io cerco di andare avanti. Forse è un nuovo mulino a vento, però non mi sento più estranea. Allora il vero viaggio è il ritorno? Sì, ma solo perché c'è stata l'andata ... a cura di Rosanna Ambrogetti e Franco Melandri. "impressioni di viaggio" di Libero Casamurata PICCOLI UOMINI to, sfiancato, che accompagna un canto lamentoso come una trenodìa. Donne vizze, uomini logori, giovani di cartapecora, bambini tristi che non piangono e non ridono. Piantiamo le tende su di un piccolo dosso accanto al villaggio. Ma il sonno non viene: mi disturba sentirmi l'uomo forte, io che non sono molto più alto di loro, poveri esseri destinati all'estinzione della razza. Sì, della razza. Vorrei che rivendicassero quel blasone di nobiltà d'epoca che loro spetta. Strano: vorrei che in loro insorgesse un orgoglio di razza. Quando il sonno finalmente sta per annebbiarmi il pensiero, la tenda mi crolla addosso. Mi dibatto e sento fuori uno scalpicciare frenetico, un soffiare d'animali e le urla di spavento delle nostre donne. Oh Dio, forse gli elefanti hanno invaso il campo! Ecco un'avventura forte, se finisce bene! Macché! Un branco di stupide vacche ha inciampato sulle tende e, preso dal panico per l'imprevisto ostacolo, sta calpestando tutto. Non rimane che finire la notte fra lazzi, caffè e sigarette, per recuperare la perduta allegria. Ma al mattino, quando ci congediamo dai piccoli uomini in perizoma, armati di arco e frecce, sappiamo di salutare degli sconfitti. I soliti piccoli, sconfitti dai grandi. Pigmoidi Questa è la storia del Burundi. In principio c'erano i Twa, i piccoli uomini un poco meno piccoli dei piccoli pigmei. Poi vennero gli Hutu che erano più grandi e divennero i padroni dei Twa. Poi vennero i Tutsi (Watussi) che erano grandissimi e divennero i padroni degli Hutu e dei Twa. Quando le armi da fuoco resero meno decisiva la prestanza fisica e il numero cominciò a contare, gli Hutu divennero i padroni dei Tutsi e dei Twa, che erano pochi e pochissimi. E poiché i Twa erano sempre servi di qualche padrone, si fecero l'idea di essere nati per essere così, servi di qualcuno. Una sorta di "meteci", ospiti in patria. Per arrivare al loro villaggio, in una collinetta di Nyankomo, attraversiamo un terreno incolto e stopaccioso, individuando faticosamente un sentiero appena tracciato. Questi "paria" d'Africa non sono stati ritenuti degni nemmeno di una qualsiasi pista d'accesso. Eccoli qua, vestiti con gli stracci dei ragazzi europei. Gli occhi buoni, specchio di un'intelligenza non ancora sopita, compensano la camuserìa del viso. I liberi cacciatori d'un tempo, dopo aver praticato una grama agricoltura di accatto, si sono ora ridotti a modellare vasi d'argilla, in una specializzazione di ripiego riservata alla "casta" inferiore. La giovane donna che tratta la pasta di terra con mano amorevole, rapida e accorta, ci riserva un bel sorriso riconoscente e ci mostra, con orgoglio represso, una lunga fila di anfore e di orci lustri e panciuti. Stiamo per andarcene. Ci salutano, ci riveriscono, ci ringraziano con serena umiltà: siamo i padroni che non li picchiano, i signori dei loro signori, coloro che danno senza prendere. Non sanno che abbiamo già preso tutto. Pigmei Non ho percorso oltre 3000 Km. di Uganda e Zaire, scavalcando autocarri rovesciati sulle carreggiate delle piste, ingrumato di fango e inzuppato di pioggia, per vedere questo a Mont Hoyo: i mitici pigmei delle mie letture, raggruppati nella splendida corte dell'albergo di Mobutu, che reclamano mance da qualche inglese spilorcio. La simpatia rinasce quando si affollano chiassosamente attorno al nostro autista più anziano e lo travolgono di abbracci: "Sono miei amici. Sono tre anni che non vengo qui". Verso sera, mentre si preparano a farci all'aperto una festa a pagamento, scoppia un uragano da fine del mondo. Si raccolgono e si stringono in un angolo del salone centrale, muti e rannicchiati, coprendo i bambini coi lembi dei loro straccetti. Come in foresta, aspettano pazientemente la fine di un diluvio che qui non li tocca ma che tuttavia anche qui li minaccia. La collera di un dio, penetrando l'ostacolo dei muri e dei vetri coi tuoni e coi lampi, li rende tremanti e rassegnati alle ancestrali paure. Il mattino seguente recuperiamo la giusta dimensione. Mentre le canoe, con placido sciacquio, si inoltrano fra le anse dell'lturi e la foresta ci copre d'ombre e di suoni, ripenso alle parole di Turnbull, il grande antropologo dei pigmei: "...Un mondo ancora buono e gentile ... dove il male è assente". Così era e così è. Nel prowisorio villaggetto di frasche, un vero campo di nomadi silvani dove portiamo sale e gallette, questi timidi ometti ci accolgono dolcemente. Dolcemente saggiano il calore della nostra pelle. Dolcemente parlano con noi di non so che cosa in non so che lingua. Chiedo, senza speranza, ad un mezzo giovanotto dall'aria più che sveglia: "Molimo ... ?". (li "moli mo" è la sacra tromba segreta di canna macerata che usavano i giovani, di notte, per chiamare il villaggio addormentato alla difesa da un pericolo: formiche rosse, un leopardo ... Spaventava le donne e i bambini che non sapevano cos'era ... la voce di un protettore arcano ...). Quello scompare e ricompare in un baleno e si mette a suonare una specie di flauto aspro awolto in una coda di scimmia. Lo strumento ha perduto il mistero ma continua ad essere una voce della foresta. Quando ce ne andiamo mi sento contento: finalmente i miei pigmei dell'lturi! Piccoli sì, ma non ancora sconfitti.

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