Quaderni Piacentini - Nuova Serie - n. 12 1984

89 al cui sguardo sbigottito egli rispose alzando le braccia ed esortando: «mi consideri un sogno!». L'episodio è certo molto kafkiano, ricorda sceneanaloghe in casa Pollunder in America, però c'è anche questa disinvoltura, che non è da tutti, nel reagire a una situazione imprevista. Non c'è insomma ragione di dubitare di quanto afferma Max Brod, e cioè che dal comportamento esteriore di Kafka ben difficilmente si sarebbe potuto supporre quanto è raccontato nella Lettera al padre, a cominciare dalla paura del padre stesso al senso di nullità che Kafka ne considera la proiezione. Per quanto degli antifreudiani come Deleuze e Guattari abbiano cercato di ridimensionare i l suocomplesso edipico, resta i l fatto che è a questo che Kafka attribuiva la propria insicurezza, pur guardandosi bene dal chiamarlo in questomodo date le riserve verso la psicoanalisi (ma quando parla retrospettivamente di quella specie di raptus che gli fece scrivere «Il verdetto» dice di aver pensato «naturalmente» a Freud). Quel che è certo, è che non l'attribuiva al proprio essere ebreo. Questa appartenenza, per le ragioni già dette, non sembra averla concepita come una maledizione e non vi è in lui nessuna insistenza su quell'antisemitismoebraico che si riscontra in tanti contemporanei. Otto Weininger, il teorico e la vittima di questo antisemitismo, è citato da lui salvo errore solo una volta in una lettera a Oskar Baum che aveva scritto un articolo sul pensatore viennese. Ci sono certo sfoghi occasionali come quello della lettera a Milena in cui esprime il desiderio di cacciare gli ebrei «tutti insieme nel cassetto del canterano, poi aspettare, poi tirare un po' fuori il cassetto per vedere se sono tutti soffocati, altrimenti richiuderlo e continuare sino alla fine». Non è il caso di difendere questo passo, come fa Marthe Robert, contro l'accusa di precorrere la soluzione nazista. Si tratta solo di momenti di esasperazioneabbastanza comprensibili. Kafka visse quarant'anni tra ebrei, tutti i suoi amici erano ebrei e così tutte le donne da lui amate, da Felice Bauer a Dora Diamant. L'unica eccezione fu Milena Jesenska che peraltro era sposata a un ebreo, Polak. Se questa omogeneità ambientale dava anche un senso di sicurezza, d'altra parte si capisce che a volte riuscisseossessiva. Del resto anche qui è difficile separare l'ambiente ebraico da quello praghese. Se Karl Kraus diceva che il viennese era uno stampato bicolore, un miscuglio di ebreo e di viennese, sappiamo che a Praga i l miscuglio era ben più inscindibile. E' inutile ricordare l'atteggiamento di Kafka verso la «mammina» Praga che non lo «molla» perché ha «grinfie» (questo già nel 1902 a Oskar Pollak) e il suo desiderio di evasione, che aveva come polo di attrazione Berlino, dove Biblioteca Gino Bianco

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