Quaderni Piacentini - Nuova Serie - n. 12 1984

NUOVA SERIE - 1984 e h / F. STAME—PER UNA CRITICA DEL PACIA"2""fflamirr G. LODI—LE MOBILITAZIONI PER LA PACE P. SANTI—SINDACATI E CONTINGENZA H.G. WELLS—LA REVISIONE DELLA DEMOCRAZIA P. PASQUINO PROGETTO PER UNA RIFORMA C. CASES—DUE INTERVENTI: KAFKA: EBREO O PICCOLO BORGHESE? / WAGNER: RAPPRESENTANTE DELL'800 IN MANN C. LASCH—LA SINISTRA FREUDIANA ELA RIVOLUZIONE CULTURALE M. DONNELLY—FOUCAULT E LA GENEALOGIA DELLE SCIENZE UMANE F. MANNI—EMANUELE SEVERINO: MEDIUM E MESSAGGIO G. FOFI—QUALCHE FILM P. COHEN—CONTRO IL TRATTAMENTO DELLA DIPENDENZA DA EROINA ALTERNATIVA E RIFORMA ELETTORALE: TRE INTERVENTI FAE RIVISTE s.r.l. v.ie Monza 106 - 20127 Milano - sped. abb. post. gr. IV/70

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QUADERNI PIACENTINI Federico Stame, Per una critica del pacifismo Giovanni Lodi, Tra vecchio e nuovo: le mobilitazioni per la pace degli anni '80 Paolo Santi, Sindacati e contingenza: tra lavoratori e governo pag. » » 3 15 41 H.G. Wells, La revisione della democrazia Pasquale Pasquino, La rappresentanza politica. Progetto per una riforma » » 51 69 CesareCases, Kafka: ebreo o piccolo borghese? CesareCases, Grande e piccolo: Wagner come rappresentante dell'Ottocento in Thomas Mann Christopher Lasch, La sinistra freudiana e la rivoluzione culturale Michael Donnelly, Foucault e la genealogia delle scienze umane » » » » 87 99 109 125 Franco Manni, Emanuele Severino: medium e messaggio » 145 Goffredo Fofi, Qualche film Antonella Tarpino, L'ecumenismo critico: osservazioni storiografiche in margine a «Gli strumenti della ricerca» Vittorio Rieser, Lavoro e politica dagli Stati Uniti all ' » » 167 173 Emilia-Romagna: i l libfo di Charles Sabel Peter Cohen, Contro i l trattamento della dipendenza da eroina Paola M. Manacorda, La rivoluzione microelettronica e l'utopia della fine del lavoro Alternativa e riforma elettorale, interventi d i Giuliano » » » 183 197 211 Urbani, Stefano Nespor, Angelo Panebianco » 225 SOMMARIO N. 12, 1984 BibliotecaGinoBianco

Tutte e epoesie GARZANTI Biblioteca Gino Bianco

PER UNA CRITICA DEL PACIFISMO FedericoStame In un quadro politico dominato, in questi ultimi anni, dalla scomparsa dei movimenti collettivi che costituirono la più rilevante novità degli anni 60/70, la nascita e la rapida estensione, a livello europeo, di movimenti pacifisti, contro l'installazione di missili nei paesi dell'Europa occidentale, pone esigenze di meditazione che superano il normaledovere di riflessione rispetto a movimenti che rientrano nello spazio della sinistra, sia per i loro contenuti politici che per le forme assunte dalle loro modalità di azione. Tanto più questa esigenza appare chiara in una situazione. si diceva, dominata dalla scomparsa dei movimenti collettivi che avevanosegnato l'identità della sinistra, specie di quella chenon si identificavacon le forze politiche e sindacali istituzionali, chevedeva nellenuovemodalità dell'azione e, prima ancora, nella presa di coscienzaprodotta dalle forme nuove dell'agire in politica, l'elemento precipuodella propria identità e autolegittimazione. I movimenti pacifisti, in questosenso, costituiscono per la sinistra una possibilità di collegarsi di nuovo alla politica che sembravaperduta nel quadro di una sindrome repressiva che portava ormai allarassegnataaccettazione della ineluttabile crisi di una forma epocale di politica. Perciò è grande il disagio di chi, come chi scrive, non riesce a condividere gli obiettivi dei movimenti pacifisti e si senteestraneo a questomovimento, che è l'unica cosa di sinistra di cui si abbia percezione in questo attualemomento. Il fatto grave è che mi pare trop5ofrettoloso, e disonesto, liquidare tale atteggiamentocome una posizionepersonale o comepatologica (o fisiologica, a secondadei punti di vista) involuzione (o evoluzione) di un intellettuale di sinistra. Losviluppo dell'attualemovimento pacifistanasce dopo la decisionedella Nato di instaHaremissili di teatro in Europa, come rispostaalla installazione dei missili SS20 da parte dell'Urss. Biblioteca Gino Bianco

4 Poiché non e mia intenzione imbarcarmi in una discussione di tipo strategico sulla attuale situazione deterrente o dissuasiva dei due sistemi militari contrapposti, mi sembra tuttavia lecito rilevare che la installazione degli euromissili da parte dell'Urss non ha provocato in Occidente (nei paesi dell'Est non aveva possibilità di farlo), una risposta di massa; come peraltro una risposta di tal tipo non haprovocato l'invasione dell'Afghanistan o la repressione dei movimenti popolari in Polonia. Non si tratta, tuttavia, di una pur legittimarichiesta di reciprocità: allorché, nel 1979, la Nato decise la installazione, a partire dalla fine del 1983, di missili Pershing e Cruise in Europa, e ciò qualora l'Urss non avesse prima smantellato le proprie basi di SS20, essa avevamesso in campo poco più di 40 sistemi missilistici che equivalevano — se si accettasse il principio sostenuto dall'Urss che essi costituiscono una risposta ai sistemi di dissuasioneinglese e francese — circa ai 162 missili della Force de Frappe edella Gran Bretagna, essendo gli SS20 provvisti di testate nucleari multiple. Da allora l'Urss ha portato a oltre 300 gli SS20 dislocati in Europa, li ha puntati contro la Repubblica Popolare Cinese, ne ha collocati anche al di là degli Urali. L'Urss ha cercato coerentemente di attuare un disegno politico, pur sapendo che la risposta della Nato dovevaessere coerente a quella prima decisione, qualora non fossero intervenuti mutamenti rilevanti nella visione geopolitica dell'EuropaOccidentale. La politica dell'Urss risponde, infatti, all'obiettivo di far mutare l'assetto geopolitico dell'Europa occidentale; e per questoessa ha investito più nell'aspettativa di risultati dai movimenti pacifisti che dalla trattativa di Ginevra. Pur tuttavia i movimenti pacifisti non sono sorti e non hanno prodotto i l loro massimo sforzo nel periodo dal 1979 al 1983, non hannoprotestato contro l'Unione Sovietica; hanno invece totalmente isolato la questione della installazione dei missili Nato dal contesto politico internazionale. Né vale opporre che tali movimenti debbono svolgere il loro ruolo nei paesi dove si trovano ad operare, perché ciò costituisce una assoluta rinuncia ai valori universalistici tipici di ogni movimento democratico e progressista. Fu proprio i l carattere universalista del movimento contro l'intervento americano in Vietnam, la sua non diretta connessione con la realtà dei paesi in cui operava (almeno in Europa) a costituirne la grande forza, politica e propositiva; ciò che mostrò agli Stati Uniti la profonda caduta della propria immagine nel mondo e li costrinse, certo assieme ad altri fattori, ad abbandonare l'avventura vietnamita. Sotto questo aspetto i movimenti pacifisti attuali rivelano una Biblioteca Gino Bianco

profondamutazione in quanto mi sembra che attuino, coerentemente, una dissociazionesempre più aperta tra l'obiettivo politico da essi perseguito, il disarmo, e la riflessione sulla situazione politica mondiale. Vorrei essere più preciso, se possibile: la dissociazione investe sempre di più il nesso tra l'obiettivo del disarmo e la valutazione su un giusto ordine della comunità internazionale. In questo mi sembra che i movimenti pacifisti riprendano — assieme ad una precisa fisionomiasituazionista ed esistenziale tipica dei movimenti collettivi moderni — un carattere più antico: una visione apocalittica della storia. E' appunto tale visione apocalittica che provoca la cesura tra l'obiettivo concreto (la pace, il disarmo) e la situazione generale e collocasullo sfondo il problema di quale pace e di quale assetto dei rapporti internazionali. Io vorrei invece negare anche oggi la legittimità di un atteggiamento di tale tipo e riaffermare invece l'utilità di mantenere, oggi ancor più di ieri, il rapporto di valore tra l'idea della societàgiusta e il problema della sua traducibilitä — ovviamentemediata — nell'azionepolitica quotidiana; e ripetere che non si dä, oggi, alcuna sceltapossibile che nonpassi attraverso l'ottica dei valori con cui si prefigura un possibile e desiderabileassetto dei rapporti internazionali. Mi rendo conto che voler affrontare questoaspetto del problemaprescindendo da altri rende parziale lo svolgimento della riflessione; tuttavia queste riflessioni non hanno, ovviamente, pretesa di completezza. Ciò significa lasciare da parte l'aspetto militare-strategico e concentrare la riflessione sull'aspettoeminentemente politico. Credo, tuttavia, che una legittimità vi sia; è mia convinzioneche i livelli di armamento siano ormai tali che la soglia di pericolo sia ormai ampiamentesuperata e che né gli SS20 né i missili Nato rappresentino un salto qualitativo rispetto ai precedenti sistemi. Siamo inpresenza di un complessoscontro a livello mondiale che tende aprefigurare gli assetti dei prossimi decenni. I l vero problema è individuare l'oggettoconcreto di tale scontro. Adistanza di quasi 70 anni dalla Rivoluzione d'ottobre viviamo una realtà delle interrelazioni e dei conflitti mondiali che nulla lascia più all'analisi leninista dell'imperialismo. La tendenza bellicista dei sistemi capitalisti e la guerra come necessariaconclusione delle contraddizioni intercapitaliste, più che unaanalisi generale delle tendenze immanenti al sistemaeconomico capitalistico, apparecome una teoria incentrata sulla situazione internazionaleanteriore alla prima guerramondiale. Capitaspesso ai marxisti di confondere una situazione storica determinata con una legge Biblioteca Gino Bianco

6 generale (capitò anche a Marx di costruire una teoria generale del processorivoluzionariosull'esempio della Comune di Parigi). Ma, in realtà, l'ordine di conflitti che provocò la secondaguerramondiale era solo in minima parte riconducibile alle analisi classichesull'imperialismo; tanto è vero che lo scontro si definì tra le democrazieoccidentali liberal-capitalistiche e il mondosocialista da un lato e i sistemi politici totalitari, dall'altro, che reclamavano un diversoassetto del mondo. Il processo di decolonizzazione, che ha investito il mondo dopo la IP guerramondiale è statosopportatodall'Occidente; esso è stato duro,sanguinoso e complesso. Ma l'Asia e l'Africa si sono liberate dalladominazione politica dell'Occidente e non è neppure paragonabile i l rapporto oggi esistente tra le aree sviluppate e quelle arretrate del mondo e il tipo di rapporti politici esistenti all'avvio del processo di decolonizzazione. Sisonodissolti l'impero coloniale inglese e quello francese, per ultimoquelloportoghese e, sulla base di questodissolvimento, sono sorte realtà politiche fortemente legittimate, in grado di orientare i processi di svilupposenza forti condizionamenti. I l discorso potrebbecontinuare e si potrebbero fornire molti esempi. Ma è sufficiente, amio avviso, rilevare che i sistemi politici ed economici delle democrazie liberal-capitalistichehannodimostrato capacità di adattamento — anche di fronte a processi traumatici — che sono del tutto sconosciute ai sistemi politici sotto la sfera di dominio dell'Unione Sovietica. Nonso quantepersone vi sianooggi disposte a sostenere, come trent'anni fa, che la guerra di Corea era unprocessodi liberazione nazionale. Mentre quando i l sistema politico e sociale dell'Occidente si è trovato di fronte ad autentici processi rivoluzionari di liberazionenazionale, tali processihannopotutovincereanche in virtù dell'appoggioche tali processi trovavano nell'opinione pubblica dei paesi occidentali. Ma vi è un altro aspetto: tra i sistemi politici occidentali e quellosovietico vi è, strutturalmente, unadiversa articolazione del rapporto tra legittimazione politica e forza. Vale a dire: a) vi è nei due tipi di sistemi una sostanzialediversità nel rapporto tra legittimazionepolitica e funzione degli apparati coercitivi; b) il grado di pubblicità delle decisioni politiche é molto diverso; c) è diverso, soprattutto, nei due sistemi, il rapporto tra politica e poteremilitare. Non è senza rilievo il fatto che il sistemadifensivo del patto di Varsavia sia intervenutomilitarmente in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968 per soffocare processi rivoluzionari; e che Biblioteca Gino Bianco

7 soltanto nelle forme l'intervento dell'esercito in Polonia non ha assunto la configurazione di intervento straniero. Le forze della Nato, al contrario, nonsonomai stateusate per stroncareprocessi di natura politica. Quelloche vorrei sottolineare è che nei due sistemi la forza militareassumeuna funzionemolto diversa (e non credo che il recente caso di Grenada possamodificare i l tipo di giudizio): nei sistemi occidentali i l processo di consolidamento del potere avviene prevalentemente per vie politiche e la forza militare ha lo scopo di proteggereinteressi (e sistemi di potere), anchenon legittimi a volte, che sisono formati al di fuori del contestomilitare. Netsistemadominato dall'Urss il processo è capovolto: i l sistemageopolitico è definito direttamente dall'intervento del fattore militare nel sensoche il potere militare è il garante dell'equilibrio geopolitico (o, si dice, delle conquiste del socialismo). In questo si rivela una profonda diversità tra società commerciali e societàmilitari: società in cui il poteremilitare eraconseguenzadello sviluppo di processi economici e sociali che magari erano poi garantiti e tutelati dal potere militare, e società, invece, in cui l'occupazionemilitare era la precondizione per lo sviluppo di processieconomici più avanzati. I casi del colonialismoolandese e inglesesonocasi di sviluppi economicimotori di nuovi equilibri geopolitici; la costante storica della espansione imperiale russa è proprio l'opposto. Noi non possiamooggi ipotizzare concretamente un processo di autonomizzazione dei paesi dell'Est europeo dall'Urss. Possiamo però, con una proiezione della ragione, immaginare che se non vi fosserogli eserciti del Patto di Varsavia le cosemuterebberoassai più di quantononpotrebberomutare in Europasenon vi fossero le truppedella Nato. Questa diversa articolazione del rapporto tra sistema sociopolitico e sistemamilitare complica il sistema delle relazioni internazionali. Poiché sonoprofondamente diverse le motivazioni che ineriscono alle logiche di comportamento dei due blocchi. Sodi avventurarmi in un terreno assai difficile, tuttavia il tentativo va fatto. Ciò che distingue profondamente i l sistema democratico-capitalista da quello ad egemoniasovietica è una profonda diversità nelle basi della legittimazione politica: i l principio ideale che regola i processi di legittimazione in Occidente è il richiamo al consenso eall'opinione pubblica come strumento di regolazione dei processi politici. Tale principio — per tradizioni storiche e politiche plurisecoBiblioteca Gino Bianco

8 lari è sconosciutoall'Urss. Quivi il processodella legittimazione politica è oggettivo e si incentra — volta a volta nei secoli — in principi di individuazione della comunità politica e statuale che ignorano completamente i l principio del potere dello Stato, e quindi della sovranità, come idealeprocesso di unificazione delle singole volontà individuali. Il temadominantedel pensieropoliticooccidentale: come legittimaremediante il consensodei singoli il potere dello Stato, è assente nella cultura politica orientale; la comunità politica quivi si legittimaper altre vie. La dottrina brezneviana della sovranità limitata esempiochiarissimo di questa tradizione politica. La legittimazione politica è oggettiva: oggettivo, nel senso di astratto dalla volontà dei singoli, è l'interesse a che lo Statomantenga la forma socialista (la intangibilità delle conquiste del socialismo, si dice); è ininfluente che isingoli cittadini di unoStato la pensinodiversamente, e perciò se le conquistedel socialismovengonominacciate (anche per concorde volontàpopolare) è dovere dei «paesi fratelli» intervenire per garantire il principio oggettivo di legittimazione. I n questo senso l'interesse oggettivodella comunità socialista è qualcosa di totalmente diverso daun interesse collettivo mediato dall'opinione pubblica. In succo, lafondazione del potere politico è totalmente aindividualistica. Infatti la giustificazionecostantemente addotta ogni volta che unprocesso rivoluzionario viene interrotto con la forza nei paesi dell'Estconsisteappunto in questo: che la introduzione di elementi devianti rispetto al tipo di legittimazione che ognuno di questi processiinnescava era ritenuto, ed era effettivamente, eversivo del complessivosistemageopolitico di cui l'Urss è il centro. Profondamentediverso è il tipo di rapporto che esiste in Occidente. I l processo di liquidazione degli imperi coloniali, seppure lungo e travagliato, si è dimostrato inarrestabile e invincibile non tanto per la impossibilità di controllare militarmente i paesi coloniali quantoperché è impossibile, ai sistemi politici occidentali, giustificareunprocesso di organizzazione politica che rifiuti a priori il principio della autodeterminazione. Certoquestonon significa ignorare le forti dissociazioni pratiche chesi sonoverificate rispetto a tale principio. I l casoglobale dell'America latina e dei tanti regimi dittatoriali che si sonosusseguiti negli ultimi decenni ne e un esempio. Ma qui, tuttavia, va rilevata una profondadifferenza che solomoralisticamente può essere rimossa. Nella storia politica e sociale dell'America Centrale e meridionale la debolezza di fondo delle istituzioni democratiche e dei principi di autodeterminazionepopolare sta soprattutto in ragioni interne Biblioteca Gino Bianco

9 della struttura sociale e politica che si intrecciano, indubbiamente, conuna situazione economica largamente inquinata dalla presenza del capitale statunitense. La ragione di fondo, tuttavia, della difficoltà di questi paesi ad acquisire stabili forme di democrazia politica e socialenon è nella presenza delle forze militari statunitensi, che in molti paesi non vi sononeppure. Sta, invece, nella incapacità di promuovere stabili esperimenti di integrazione politica e sociale. Dove essesi sono verificate, dal casostorico del Messico, a Cuba, fino a regimi democratico-borghesicome il Venezuela, vi sono regimi autonomi che non vengono abbattuti da un intervento militare straniero. Il caso del Cile è, paradossalmente, una dimostrazione di tale principio. L'esperienzaprogressista e socialista cilena è fallita, anche colconcorso della Cia e di mezzi forniti dagli Usa, ma la causa prima di tale fallimento è endogena: Allende, partito da posizioni di minoranzasociale e parlamentare, e rifiutando di attuare una forma di dittatura politica, non riuscì a ricomporre un bloccosocialeche gli consentisse di superare l'iniziale posizione di minoranza. Non essendoriuscito, secondol'insegnamento del Presidente Mao, ad unire il centro alla sinistra, fu sconfitto dall'alleanza tra il centro e la destra. Che poi questofacessecomodo agli americani e che essi vi abbianoprofusomezzi ed energie, è ovvio; ma è altrettanto ovvio, almenoper me, checosadiversa è tentare di boicottare un esperimentopolitico sgraditoprovocando la caduta, a livello internazionale, del prezzo del rame ed altra cosa è inviare direttamente i carri armati. Quello che è profondamentediverso è il grado e il livello della mediazione nel processo di interferenza nella autonomia della decisione. Cosìse il principio colonialista ha potuto, in passato, contagiare inOccidente anchemovimenti popolari e socialisti, dalla fine della II guerra mondiale, con l'estendersi della democrazia di massa, la contraddizione tra il principio democratico di autodeterminazione e la realtà del colonialismo era tale da segnare irreversibilmente le tendenze al suodissolvimento. E l'opinione pubblicademocratica in Occidente è stata un fattore determinante per l'esito del processo. • L a conclusione di quanto sin qui detto disorganicamente vorrebbecondurre a questa prima conclusione: è profondamentediverso il concetto di sicurezza che i due sistemi invocano a sostegno delle propriestrategie: per sicurezza si intendonocoseassai diverse. Per i sovietici essa significa difesa di un ordine geopolitico a prescindere dai processi di legittimazione delle singole realtà nazionali. Ciò significa che la comunità socialista, e i suoi interessi, sono una cosa diversa dagli interessi dei singoli membri della «comunità Biblioteca Gino Bianco

10 socialista». Per gli occidentali sicurezza significa una cosa assai diversa.Significa garanzia che eventuali modifiche agli equilibri geopolitici non siano astratte dai principi di autodeterminazione. Cerco di spiegare: io credo chenessundemocraticooccidentale pensi che la Polonia debba avere un ordinamento politico e sociale diversoda quello attuale a prescindere da sueautonomescelte interne; né penso che un democraticooccidentale debba desiderare che laPoloniadebbadiventare un avamposto della Cia per sovvertire la comunitàdei paesi socialisti. Penso però che un «democratico occidentale»possa e debbapensareche il principio di autodeterminazione possae debba valere anche in Polonia. Se il «democraticooccidentale»pensasseche il principio di autodeterminazionedebbaessere una categoriaapplicabile solo al di qua dell'Elba penso che questo occidentalecesserebbe di essere «democratico»; cesserebbe cioè di essereportatore di valori universalistici. E se «il democratico» sostenesseche per ragioni di realismo politico l'istanza democratica di autodeterminazionenonpossaoggiessereapplicata alla Polonia, un polaccoche vuole autodeterminarsi gli potrebbe opporre con quale diritto egli ritenga che i polacchi debbanoessereeterodeterminati. D'altra parte la realtà dei paesi dell'Est, e di conseguenza il concetto di sicurezza cheemerge dal contesto del loro equilibrio geopolitico è così perversoche ogni applicazione di principi universalistici al loro internocomporterebbe l'avvio di processi di destabilizzazione dell'equilibrio politico. Questo è il meccanismoperversosullabase del qualemolti «democratici occidentali», attenti ai problemi del mantenimentodegli equilibri geopolitici hanno, intimamente, giustificato larepressione di Jaruzelsky. E' dimostrazione di ciò il totale fallimento della Conferenza di Helsinky.Questo chiarisce anche quale era i l principio, esatto, che stava al fondo delle ideologie«democratico-progressiste»che vollero Helsinky: un processo di apertura nei confronti del sistema politico emilitare dominatodall'Urss era concepibilesolo in quanto in questi regimicrescessero, sia pure lentamente e in forme specifiche,processi di liberalizzazione del sistemapolitico. In quegli anni gli Stati Uniti uscivano dalla crisi vietnamita avendosubito un trauma, sia sotto l'aspetto militare che sotto quello dellapropria identità, di dimensioneplanetaria. E' dalla crisi morale cheseguealloscaccodell'intervento in Vietnamchenasconosia la paralisi sia i velleitarismi della politica estera americana; con essa si spieganodisastri quali i l comportamento di fronte alla rivoluzione iraniana, quanto il tentativo di poggiaresubasi più solide una politicadi cooperazione col bloccosocialista. A ciò l'Urss ha risposto, nel Biblioteca Gino Bianco

11 corso di tutti gli anni '70, con una politica estera che ha sfruttato la crisi della politica esteraamericana noncercando di porre le basi di un nuovosistema di relazioni internazionali, ma avanzandoesclusivamente sul piano della estensione dell'influenza politico-militare in termini strategici e di controllo delle principali aree di interesse occidentale. L'Urss ha quindi coniugatouna politica esteraclassica da grande potenzacon la pretesa di unaassoluta rigidità del suosistema di egemonia in Europa. Quali siano le ragioni storiche, politiche, economiche a causa delle quali l'Unione Sovietica nonpossa fare altrimenti, non put) essereoggetto di queste considerazioni. Certo è che la nuova fase della politica americana, che si inizia con l'amministrazioneReagan, ha come obiettivo precipuo quello di ristabilire gli assetti che si erano alterati negli ultimi anni '70. Tornando alle considerazioni oggetto principale della nostra riflessione a me pare di poter affermare che i l movimento pacifista mancaassolutamente di due elementi di analisi essenziali: a) una analisi della dinamica delle relazioni e dei conflitti internazionali; b) una analisi del sistema del socialismo reale. Lasua propostaprescinde da una indagine sulla politica sovieticadegli ultimi 15 anni. Io non voglioprendere in esamequella parte dei movimenti che fa discendere la propria opzione da una analisi del contesto internazionale ancora legata agli schemi del marxismo-leninismo e che considera l'Unione Sovietica e i l sistema geopolitico di cui essaè l'elementodominantecome il principalestrumento di difesa della pace; e neppure, peraltro, quelle analisi che, al di là di una scelta in termini di valore, consideranocomunque l'Urss unapotenza essenzialmentepreoccupata di esigenze difensive. Sono analisi che non condivido, ma il non prenderle in esamescaturisce essenzialmente dal fatto che tali posizioni non costituiscono l'aspetto più importante e significativo della posizione pacifista. I l pacifismo odierno, è troppo ovvio, non è la stessacosa dei movimenti per la pacedegli anni '50. Tuttavia, anche nella suacomponentemaggioritaria e più significativa, il movimento pacifista rimuove, a mio avviso, totalmente l'esigenza di quel doppio ordine di analisi cui accennavoprima. La ragione di tale rimozione sta in un principio che è parte essenziale e costitutiva della identità stessa di tali movimenti. Essa esprimeuna natura essenzialmentenon politica in quanto l'obiettivo della loro azione e il contenuto della loro identità dipendeessenzialmente da una assunzione di obiettivi non mediata politicamente. La Biblioteca Gino Bianco

12 loro legittimità potrebbe stare nella dimostrata realtà di una situazionemondiale di assolutopericolo tale da legittimare una scelta diretta alla sempliceconservazione del genere umano, considerandosi ormai del tutto impossibile una condotta politica in sensoclassico, orientata doe alla valutazione delle azioni individuali e collettive in termini di opzioni differenti nell'ambito di uno spazio di relativa contingenza. Dasempre, l'alternativa tra pace e guerra è un elemento internoalla scelta politica. E nessuna politica può espungere dal campo dellepossibili decisioni la difesa armata delle proprie scelte. Solo l'obiettivo della pura conservazione fisica può giustificare la difesa dellapacecome obiettivoassoluto e incondizionato. La «guerra giusta»è unacategoria del pensieropolitico inespugnabileanche dal contestoattuale; nel XX secolo si può applicare la categoria di guerra giusta alla tia guerramondiale e ai processi armati di liberazione nazionale. In questosenso lo slogan«meglio rossi chemorti» esprime bene la realtà intima dei movimenti pacifisti ma è anchesintomo, per meterribile, del carattere apocalittico di tali movimenti. Cosa vuol dire«megliorossi?» Non è certo un giudizio sul socialismo reale. E', piuttosto, il riconoscimento che i l problema della vita e della pace ormaidominante ed escludente il problema della riflessione su quale sia l'ordinamento politico più desiderabile; che i l problema della politica è ormai espulso dal nostrocontesto culturale. E, per di più, ancheuna cattiva analisi del sistema del socialismo reale, che non certouna accolta di pazzi sanguinari che risponderebbe al riarmo con la guerra; mentre tutti gli esempi dimostrano, caso mai, il contrario; e che cioè l'Urss è una potenzacapace di un usoassai avvertito della dialettica pace-guerra, assai attenta alla «decisione politica» dell 'interlocutore. E' possibile, mi domando, vivere, nel senso di dare alla vita un sensosoltanto sulla base della sua esistenza? Fino a quando, e nei confronti di chi, la scelta della pace ha un senso? Se oggi invece dell'UnioneSovieticaavessimo di fronte la Germania nazista, chi si azzarderebbe a diremeglio nazi chemorti? Quale è il grado di disaffezioneverso il sistema in cui si vive o, correlativamente, quale il grado di non ostilità verso i l sistema «esterno» tale da consentirci di decidereche è meglio la difesa della vitapiuttosto che la difesa dei contesti in cui si vive? Sotto tale aspetto,correggendoanche una affermazione fatta prima,pensoche una certa convinzione politica vi sia, come inconscio, neimovimenti pacifisti. C'è, almeno, nel sensoche — anche per chi nonapprezza il sistemasociopolitico uscito dal socialismo reale — Biblioteca Gino Bianco

13 lademocrazia politica di tradizione occidentale non esprime un tipo di identità politica e morale tale da dover esseredifesa anche a costo di forti rischi. In questo i movimenti pacifisti sono rivelatori di unaprofonda crisi di legittimazione che investe le societàoccidentali contemporanee, poiché esprimono una tendenza, diffusa e profonda, di disaffezione verso la comunità politica e di allentamento dei vincoli che costituiscono i l collante della effettività della obbligazione politica. Perché gli americani non si sono rifiutati di andare a morire in Europae in Asia nellasecondaguerramondiale e si sonoinvece rifiutati di andare a morire nel Vietnam? In entrambi i casi la radice dellamotivazione era unica: nell'un caso l'accettazione, nell'altro i l rifiuto della guerra, erano scelte fondate sul riferimento ad un principio di obbligazione etico-politica che in entrambi i casi veniva riaffermatononostante la totale diversità degli esiti. Laconcretezzamateriale di una opzionedemocratica si basa sullaperdurante validità dell'obbligazione etico-politica e sul rifiuto delladimensione apocalittica. Se il problema di comegovernare la città, quali ordinamenti preferire per la nostra vita associata deve cedere, irreversibilmente, di fronte alla prospettiva della fine del mondo, si che il problema della politica si risolve nel principio della conservazione della vita, non vi è altra soluzione che Leviathan. E' veroche Hobbes voleva Leviathan per evitare Behemoth; ma le cose nonsonoancora a questopunto. Anche sequesta può sembrare una affermazione di fede, la democrazia è, tuttora, una alternativa a entrambi. • Biblioteca Gino Bianco

Bianca Guidetti Serra LE SCHEDATURE FIAT cronaca di unprocesso e altre cronache La cronaca delle schedature Fiat coglie una realtà sospesa tra passato eavvenire. Senza forzature retoriche o ideologiche, mette realisticamente a nudo qual era il vero governo delle relazioni industriali, negli anni del "miracolo economico" nella più grande, nota, celebrata fabbrica italiana. Ma non è solo la cronaca di una vicenda Fiat. E ' una storia—a suo modo esemplare, ma non certo unica—del modo in cui poteri pubblici scelgono gli interessi da tutelare, si associano ai poteri privati, alla parte più occulta di questi poteri. Nell'universo tolemaico costruito dagli schedatori Fiat tutto (o quasi) ruota attorno al far politica, al far politica a sinistra, all'essere comunista. Ma la linea di demarcazione non è solo politica. La buona condotta non è associata solo alla fedeltà ai partiti di centro e di destra o, meglio ancora, all'essere "apolitico". Se questo è l'indispensabile punto d'avvio, la normalità deve essere poi garantita dall'adesione piena agli altri tradizionali valori: la rispettabilità familiare, una morale sessuofobica, una religiosità di facciata. La stigmatizzazione nasce così da una separazione, dall'aver "avuto anche un aborto", dai "tiepidi sentimenti religiosi" o dall'aver dato al nonno materno "sepoltura civile con conseguente cremazione". La Fiat con le sue schede non sta sospesa su una società in cui fiorisce rigogliosa la pianta della non discriminazione, del rispetto per le idee e le opinioni altrui. La vicenda della Fiat non assume i caratteri dell'eccezione ma quelli del simbolo del funzionamento di un intero sistema istituzionale. Bianca Guidetti Serra non ha voluto che la sua cronaca fosse letta solo al passato. Con un'appendice, assai più appassionata dei capitoli precedenti, ci mostra quali vie continui a seguire la discriminazione, di quali nuovi pretesti riesca a valersi. Basteranno queste pagine o si sta accumulando altra materia per un cronista paziente? Stefano Rodotà Rosenberg&SelierEditoriinTorino Biblioteca Gino Bianco

TRA VECCHIO E NUOVO: LE MOBILITAZIONI PER LA PACE DEGLI ANNI '80* Giovanni Lodi Il primo problema posto dalla fase attuale di mobilitazione collettiva a favore della pace riguarda i l suo significato storico. Collocandosi in un momento cruciale dello sviluppo delle società avanzate, la domanda che solleva immediatamente q u e s t e mobilitazioni sono la semplice riproposizione di forme e di contenuti già espressi ad es. negli anni '50 e '60 a fronte del periodico acuirsi della tensione internazionale, oppure i l loro insorgere segnala una modifica in atto nel modo con cui gli attori del conflitto sociale si mobilitano nelle societàcomplesse? Entrambe le affermazioni contengono una parte di verità. Le motivazioni di fondo delle azioni per la pace tuttora in corso sono lestesse di quelle di fasi precedenti. Tuttavia in questi venti-trent'anni sono intercorse le trasformazioni più profonde finora conosciute dalle società occidentali. La rivoluzione tecnologica, l'informatizzazione della conoscenza, la complessità ne hanno radicalmente mutato le strutture di funzionamento e i processi sociali. L'Italia in particolare è stata interessata da un processo di laicizzazione che ha riguardato anzitutto le sue componenti di sinistra. L'esperienza degli anni '60 e '70 ha drasticamente ridimensionato le possibilità di un'azione rivoluzionaria ispirata al modello leninista di presa del potere. La classeoperaia in primo luogo ha visto ridimensionato il suo ruolo di attore esclusivo del cambiamento; ma anche i soggetti sociali protagonisti del conflitto post-industriale hanno dovuto ricredersi sulle possibilità di un mutamento immediato e complessivo dei rapporti Ciò ha favorito il delinearsi di un periodo di stasi sociale che sembrava destinare la società italiana all'immobilismo e alla regressione. * Questo articolo è l'anticipazione di alcune parti di un libro di imminente pubblicazione: G. Lodi, Uni t i e diversi. Le mobilitazioni per la pace nel l ' Italia degli anni '80. Biblioteca Gino Bianco

16 La campagna per la pace ha mutato i n parte tale prospettiva. La mobilitazione è ripresa attestandosi su dimensioni inusitate anche per l'esperienza italiana. Tuttavia, al d i là del facile ottimismo che tale inversione di tendenza può suscitare, va sottolineato che i l segno di questa ripresa è molto diverso da quello di fasi precedenti. L'azione non si struttura infatti sulla condizione di classe, di sesso o di età degli attori coinvolti; inoltre non avviene in funzione di una trasformazione sociale i n senso forte. Piuttosto procede a partire da una convinzione che unifica gl i individui in base a un'opzione di natura etico-culturale al d i l à dei ruol i che occupano nel sistema sociale. L'aggregazione non si basa quindi su un progetto globale e di lungo periodo ma su obiettivi puntuali e strategie limitate nel tempo. Consumate l e grandi narrazioni prefigurate dal lo sviluppo capitalistico edalle sue contraddizioni, le mobilitazioni per la pace sanciscono la fine delle attese utopiche legate al conflitto industriale (1). Gli anni '80 assistono dunque a una profonda ristrutturazione delle forme di azione collettiva che non va necessariamente vista i n una prospettiva evolutiva. Se oggi nessun attore è in grado di esercitare egemonia, possono coesistere modelli d i azione diversi e concomitanti. i n un contesto di continua moltiplicazione dei generi, é l a natura dei fini a determinare le modalità di azione. Le forme classiche d i mobilitazione continuano a funzionare per obiettivi a forte contenuto strumentale. Le forme emergenti riguardano obiettivi d i tipo più allusivo e di non facile traducibilità in domande di significato immediatamente politico. Dopo quella dei diri tt i politici affermati dalle rivoluzioni borghesi e quella dei di r i t t i economico-sindacali affermati dal conflitto industriale, una terza generazione d i di r i t t i s i va delineando all'orizzonte delle società complesse. Gl i ambiti che la esprimono sono eterogenei e disparati: l a gestione del tempo e dello spazio, la qualità della vita, l a difesa dell'ambiente, l e sfere dell'identità ma anche istanze più strutturate come i «diritti dei consumatori», i «diritti del malato», i l Tribunale della libertà ecc. Alla pluralizzazione della società civile corrisponde dunque l a proliferazione dei conflitti e delle modalità per esprimerli e praticarli. Questo collage di istanze e interessi rappresenta l o spettro d i una 1. Ciò non significa la fine tout court del conflitto industriale. Come tale continua a sussistere ma riguarda sempre più da vicino la dimensione rivendicativa dei rapporti economici e d i potere interni alla fabbrica. Per una discussione del ruolo svolto rispettivamente dalla condizione e dalla convinzione nei processi collettivi cfr. M. Grazioli e G. Lodi, La mobilitazione collettiva negli anni '80: t ra condizione e convinzione, in A . Melucci ( a cura di), Altri codici. Aree d i movimento nella metropoli, 11 Mulino, Bologna, 1984. Biblioteca Gino Bianco

17 dimensione del sociale difficilmente gestibile (oltre che interpretabile) con le categorie politiche e analitiche consolidate. In quanto sintesi efficace di universalismo e particolarismo, la campagna per la pace degli anni '80 ha funzionato da catalizzatore di queste correnti sotterranee. A sua volta ha aggiunto qualcosa di suo a questa «carta dei diritti post-politici» in costituzione. A livello più generale, ha rivendicato i l diritto alla pace non solo come r i - chiesta di disarmo e di assenza di guerra ma come volontà diffusa di intervenire direttamente sulle scelte fondamentali della società. A livello più particolare, ha prospettato l'obiezione di coscienza generalizzata, i l referendum popolare come espressione d i democrazia diretta, la protezione civile invece della difesa militare. Un altro problema emerge dalla campagna per la pace: come giustificare i l fatto che gli attori si sono mobilitati collettivamente in una fase di crescente atomizzazione degli interessi e delle ideologie. Per certi aspetti le mobilitazioni per la pace possono richiamare i fenomeni del millenarismo e l'immagine delle società integrate e sacralizzate della pre-modernità piuttosto che quella disarticolata e desacralizzata delle società complesse. Tuttavia proprio la natura frammentata e deideologizzata dei sistemi sociali contemporanei spiega i l ricorso a queste forme di azione. Esse costituiscono la risposta collettiva non solo ai nuovi rischi di un conflitto atomico, ma anche ai processi dissociativi indotti dalla complessità sociale. I l moltiplicarsi dei ruoli e delle funzioni, degli interessi e delle identità tipico delle società di massa, aumenta i l bisogno sociale di reintegrazione dell'esperienza. Peraltro, se la collocazione nel processo produttivo risulta insufficiente a strutturare identità certe e durature, tornano a svolgere un ruolo fondante le appartenenze di tipo primario come quelle di sesso, di età, di territorio, di razza, di etnia. Questi processi collettivi tipici degli anni '60 e '70, si completano oggi nel momento in cui appartenenze specifiche non ostacolano i l mobilitarsi per obiettivi universalistici. Esaurita la fase in cui la diversità funzionava da risorsa, la pace induce a mobilitarsi in quanto obiettivo generale che consente di mantenere e di riaffermare la propria specificità. • L a campagna per la pace dunque come commistione di particolare e di universale, carattere che ne determina tutta la forza ma anche tutta la debolezza. La forza dipende dall'estensione che mobilitazioni d i questo tipo realizzano traversando orizzontalmente ogni spazio del sociale. La debolezza dipende dalla loro relativa capacità di aggregare in senso forte. In conclusione: solo l'abbinamento d i obiettivi universalistici e di appartenenze differenziate sembra oggi in grado di suscitare moBiblioteca Gino Bianco

18 bilitazioni di massa; solo l'individuo in quanto tale sembra oggi disponibile a pagare i costi dell'azione collettiva (2). Molti osservatori hannodedottoche l'adesione alle mobilitazioni per la pace ha rappresentatouna forma regressiva di comportamento sociale. Paura, difesa del particolare, revanscismo europeista, etnocentrismoecc.: tutte queste istanze sono indubbiamente presenti nel neo-pacifismodegli anni '80. Esse tuttavia, oltre a riguardare solo unaparte dellemotivazioni che hanno spinto gli attori a mobilitarsi, riflettonoprocessi più generali in corso nelle societàcomplesse. Questiprocessi di trasformazione interessano infatti anche i rapporti tra tradizione e contemporaneità. Le forme dell'arcaico sonosempre più ricorrenti nell'esperienza quotidiana essendo l'azione modernizzante semprepiù interessata a recuperarle. Alla dissociazione dell'individuo eall'anomia della società provocate dall'avanzamento della complessitàsociale, i sistemi contemporanei rispondono rimettendo in circolazioneappartenenze e modelli di identificazione mediati dalla tradizione. Questa attualizzazione del passato favorisce la reintegrazionedell'individuo e la sopravvivenza delle solidarietà di gruppo afronte della crescente frantumazione dell'esperienza individuale collettiva. Questasorta di escamotage adottato dal sistema si è trasferito ancheall'ambito del conflitto sociale. I suoi attori hanno in breve riscoperto la funzionalità delle appartenenze primarie e delle forme «arcaiche» (come i l piccolo gruppo) alla natura dei conflitti tardocapitalistici. Tale recupero avviene però sullo sfondo della realtà tecnologicamenteavanzata dei sistemi complessi. Ciò è sufficiente permutarne il segno e attribuire loro caratteri della post-modernità. Lemobilitazioni per la pacepiuttosto che ripetizione di rituali svuotati di senso,costituisconoallora la risposta collettiva alle nuovemodalità del controllo sociale. La riconversione dell'arcaico si presta così a diventare da strategia istituzionale una delle possibilità per praticare il conflitto sociale in condizioni moltomutate anche rispetto al passato più prossimo. Questetendenze prospettano l'ipotesi di uno spazio d'azione collettiva in costituzione. L'insorgere di conflitti che sfuggono alle 2. 11 confluire sempre problematico delle aspettative del singolo nelle strategie del gruppo e discusso in un testo ormai classico: M. Olson, Logica dell'azione collettiva, Feltrinelli, Milano, 1983. Per un bilancio critico di alcuni interventi seguiti alla pubblicazione d i questo libro, uscito i n edizione originale nel 1965: G. Lodi, «Interessi individuali e collettivi nella mobilitazione: alcuni contributi recenti», in Quaderni d i Sociologia, XXX I X , n. 1 , 1980-81. BibliotecaGino Bianco

19 tradizionali strategie politiche e alle categorie analitiche consolidate prefigura l'emergere di un nuovo spazio sociale all'incrocio dei meccanismi fondamentali che regolano le società complesse. Ancora senza nome, questo spazio travalica gl i ambiti definiti dalla divisione del lavoro, dalle norme del sistema politico, dai valori culturali che conformano i ruoli sociali. In ognuno trova occasioni puntuali per manifestarsi senza esaurire in nessuno la propria valenza (3). Oltre alla radicalitä delle trasformazioni subite dalla società di massa, i l passaggio dagli anni '70 agli '80 mostra dunque la rapidità con cui forme e contenuti dell'azione collettiva extraistituzionale vi si sono adattati. Lo scenario che si va delineando è quello di sistemi sociali sempre più differenziati, in cui l'innovazione è sempre più rapida e i l potere sempre più diffuso. Per gli attori del cambiamento ciò significa una crescente difficoltà a identificare avversari definitivi eben delineati in quanto le appartenenze si confondono, gl i interessi si segmentano, marginalità e centralità si ridefiniscono (4). L'adesione di massa alla campagna per la pace è la risposta coerente a tali contraddizioni. Nella genericità delle sue formulazioni ha permesso ai gruppi e agli individui di semplificare i l reale potendo distinguere tra «amico» e «nemico» a partire da esperienze ravvicinate ma diverse per ogni componente. Di nuovo particolarismo e universalismo si confondono. I fini tornano a essere generali a fronte della settorialitä affermata dalle mobilitazioni degli anni '70. Tuttavia sono praticati a partire da appartenenze specifiche già realizzate in ambiti preesistenti. La pace dunque come in posta gioco con un forte potere evocativo, non definita ma solo orientata dalla collocazione strutturale dell'attore, rispondente alle opzioni culturali che egli compie come individuo. Strutture di organizzazione L'ipotesi che le mobilitazioni per la pace degli anni '80 costituiscano un sintomo importante dei cambiamenti in atto nelle forme contemporanee di azione collettiva è confermata dalla originalità dei modelli organizzativi adottati. Questi modelli risultano chiaramente 3. Questa ipotesi è delineata i n maniera più approfondita in GrazioliLodi, La mobilitazione collettiva, in Melucci (a cura di), Al t r i codici, cit. 4. Per la ridefinizione delle categorie di centralità e di marginalità con riferimento particolare al caso italiano: M. Paci, La struttura sociale italiana, II Mulino, Bologna, 1982. Biblioteca Gino Bianco

20 atipici se confrontati alle forme del politico finora egemoni, almeno nella tradizione italiana. A livello centrale e periferico, queste mobilitazioni si sono centrate anzitutto sull'attività dei Comitati per la pace (Cpp). Questi organismi sorti per l'occasione, hanno funzionato come strutture a termine, informali, fondate sul volontariato. La loro principale funzione è consistita nell'assicurare i l coordinamento dell'azione in vista di scadenze precise. Dal Comitato operante sul territorio al Comitato 24 ottobre prima e al Coordinamento nazionale dei Cpp poi, queste strutture sono state in grado di gestire un insieme qualitativamente e quantitativamente articolato e complesso di iniziative e di attori. Traducendo i n problema questa realtà empirica, è inevitabile porsi domande del tipo: come è stato possibile attivare e controllare unapartecipazione così massiccia e eterogenea con risorse tanto scarse, perlomeno se riferite ai criteri tradizionali di organizzazione politica? Per rispondere occorre collocare questi modelli di organizzazione nel campo di azione che l i ha prodotti. Il carattere peculiare delle azioni collettive che si presentano oggi in forma di movimento è, come si è visto, i l distacco dei loro attori da riferimenti di carattere strutturale. Questo passaggio da fasi in cui i l referente primario dell'azione era la condizione sociale a fasi in cui, come l'attuale, essa orienta semplicemente l'adesione, pone il problema di come assicurare continuità e coesione a mobilitazioni tanto diffuse quanto labili. L'agire in base a una opzione d i tipo culturale consente un'ampia propagazione ma presenta i rischi che gli attori si disperdano e l'azione si frantumi. Già nei due decenni precedenti, l'emergere di attori conflittuali quali gli studenti, le donne, i giovani, i gruppi ecologisti, le minoranze etniche e sessuali, aveva posto questo problema. Negli anni '60 era stato rimosso col ricorso a una versione aggiornata del partito di quadri. Sia nella formula leninista del partito come avanguardia rivoluzionaria, che in quella gramsciana del partito come prefigurazione di un nuovo progetto di società, questo modello era apparso i l più coerente al tentativo delle élites emergenti di sostituirsi a quelle dominanti (5). 5. Sulle mobilitazioni degli anni '60 e '70: G . Lodi, Youth and 'New Movements': the Italian Case, in Annal i della Facoltà d i Scienze Politiche del l ' Università di Milano, I I -1982, Marzorati, Milano, 1982; G . Lodi e M. Grazioli, Giovani sul territorio urbano: l'integrazione minimale, in Melucci (a cura di), Altri codici, cit. Biblioteca Gino Bianco

21 Gli anni '70 hanno vanificato tale progetto. Dall'interno della NuovaSinistra proprio le donne dei gruppi extraparlamentari hanno cominciato a denunciare l'inattualità (oltre al sessismo) di moduli organizzativi chiaramente datati. Esito del processo di modernizzazione in corso, i l femminismo radicale dei primi anni '70 si è subito presentatocome «altro» rispetto alle forme e ai contenuti della tradizionalemilitanza politica. In seguito i giovani del '77 ne hanno sancito i l definitivo abbandono rendendo esplicita l'impossibilità di conciliare gli effetti della complessità sociale con la rigidità di tali modelli di organizzazione. Gli anni '80 sembranooperare una sintesi di queste due fasi e delle forme di azione sottostanti. Collocandosi tra condizione e convinzione, le mobilitazioni che li percorrono combinanoinsieme particolarismo e generalità, dando vita a moduli organizzativi peculiari. Lacontraddizione latente tra diffusione e labilità è stata risolta con la creazione di strutture organizzative ad hoc. 1 Comitati per la pacehanno infatti aggregato sulla base di opzioni facilmente condivisibili per cui da un lato gli attori coinvolti si sono in breve moltiplicati, dall'altro sono in genere confluiti sulla base di identità già realizzate e potendo quindi contare su strutture organizzative preesistenti. A livello funzionale ciò ha significato i l procedere per obiettivi a termine, il ricambio veloce delle presenze, la morte e la rinascita accelerata delle strutture di movimento, la possibilità di entrata e di uscita continua del singolo. Questofunzionamento è stato reso possibile dal recupero di modelli di organizzazioneapparentemente «arcaici». La rispondenza di forme pre-moderne ai conflitti del tardo-capitalismo era già stata evidenziata da alcune analisi del ciclo di protesta che aveva interessato l'America degli anni '60. Al contrario dell'esperienza europea dove l'insorgere dei conflitti post-industriali e statomaggiormente condizionatodalle forme storiche di azione collettiva, la vicendaamericana ha subitomostrato la funzionalità di moduli apparentemente primitivi alla natura dei conflitti emergenti (6). 6. Gerlach ad es. segnala la continuità (oltre che le differenze) tra i sistemi organizzativi adottati dai gruppi del black power, dell'«ecologia partecipativa», del rinnovamento carismatico e quelli di alcune società tribali fondate sui sistemi di parentela. La loro capacità di coordinare coesione e osmosi e la stessa riscontrata nelle strutture di movimento analizzate da Gerlach, cui egli attribuisce un tipo di organizzazione segmentata, reticolare e police/ala. Cfr. L.P. Gerlach, La struttura dei nuovi movimenti di rivolta, in A. Melucci (a cura di), Movimenti di rivolta, Etas Libri, Milano, 1976. Più diffusamente: Biblioteca Gino Bianco

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