Vita fraterna - anno IV - n. 5-6 - 15-30 marzo 1920

VITA FUTllJfA 83 Che febore, che febbre. che arsura ! che male. Perchè non gli davano da bere? Ah. era tato lui te o .a mandar via la ncchia che rrli offriva if caffè. Perchè? gli aceva rabbia, ecco, con le ue stupide parole ..... Lavorare, lavorare .... O che avrebbe '.l)roprio voluto fare _a meno di lavorare, lui, Giovanni? Non f'<l!T· nuJla da mattina a era? Ma che, ma èhe . a,rebbe tata una noia da morire. Anzi, c' era stato un tei~po, lontano orma.i, in -cui lui, proprio lui, Giovanni Daveno, aveva avuto la passione del lavoro. i ricordava. ancora che delizia provava nel tuffar i tutto nel uo lavoro, qua i dimenticando i di e istere, e1112a più accorger i del pa ar del tempo. E pm; come al ri vegliar i da un o_gno, la lieta gioia con cui addentava, affamato, la ua pagnotta, oddisfatto della fatica compiuta che gli dava il e1Lo deJla ua forza e deUa sua bravura! .Com' era contento a quei tempi! Come cherzava volentieri coi· compagni, ridendo e chia ando, tanto che pareva riempire il mond'o intero della ua a11egria ! Poi, in ~eguito, aveva fatto altre conoscenze. Aveva cominciato a frequentare le o terie, ayev_a _entito molti predicare contro il lavoro, contro i padroni, contro tutto. poco a poco gli era venuta addo o quella rabbia, quella terribile rabbia -ohe ora lo èivo_r,ava, che lo bruciava tutto, che o-li dava quella ete, quella sete! « Ma ,che vita è que ta? empre con que ta rabbia in corpo!> gridava il malato, e si dimenava ·nel letto _enza trovar requje. Delirava. « Oh Dio, che vita era queJla. Nemmeno un cane rrabbiato era più mi erabile di CO'Ì. ~fa perchè viveva infine'. Perohe l'avevano me so af mondo, in questo inferno.> « Chi ono io. chi sono? - gridò - voglio ~apere chi ono e ,perchè sono al mondo, e perchè ho que ta rabbia qui, e qm, che mi mangia sempre e non mi lascia in pace . >. II figlio Schiavi, che rin.ca ava al1ora, entrò, sentendolo gri- <lare, gli mise una pezzuola diaccia ul1a fronte e a]" accostò alle labbra un bicchiere d'acqua inzuccherata. Il malato bevve avi- <lamente. « Oh Dio! ecco, ora ~Ì ! co ì va bene! - delirava Giovanni. - Un po' di pace; ecco. Oh. ba a que ta rabbia, ba~ta ! Ecco, ora so chi sono! ono un uomo. E gli uomini non ono fatti per vivere sempre in collera I' uno con l' altro.• - -on i può empre odi-a.re! Oh Dio, come tanca ·l'odiar empre. Come brucia! Dammi da bere, ì dammene ancora! Io non odierò più ne - suno. Sono stanco. Va, Gel omina, se non mi vuoi, vattene in pace; farò senza. Che co a importa, dopo tutto? Pace, voglio, 11ace! E anche tu: padrone non me lo vuoi dare il sabato inglese? BibliotecaGino Bianco

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