E' la società civile ad essere fortemente sostanzialista e nella stessa sinistra una cultura garantista non è tradizionale. Le continue emergenze portano a torsioni del processo penale. I meriti, per esempio a Palermo, di procure non più influenzabili dal potere politico. Perché la separazione delle carriere è pericolosa e può essere evitata provvedendo altrimenti a rendere difficile il cambio di funzione. Intervista a Giovanni Palombarini. Giovanni Palombarini è Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ed è stato consigliere del C.S.M. per Magistratura Democratica. Le emergenze si susseguono: terrorismo, lotta alla criminalità organizzata, lotta alla corruzione politica. La conseguenza è l'affermarsi di una cultura non garantista. Lei che ne pensa? E' certamente vero che il succedersi di ondate di emergenzialismo ha pesato e pesa gravemente su un paese che davvero garantista non è mai stato. E' opportuno ricordare in proposito, perché la cosa illustra assai bene i sentimenti popolari, che quando si tentò con un referendum di abolire l'ergastolo l'iniziativa ebbe un esito disastroso. Non mi sono mai meravigliato troppo, pertanto, delle logiche sostanzialiste e repressive che hanno ispirato gli atteggiamenti della società civ ile rispetto al terrorismo, alla mafia e alla criminalità politico-amministrativa. Ciò che, nonostante tutto, continua a meravigliarmi è che logiche non dissimili attraversino I'intero ceto politico. Purtroppo, la sinistra italiana ha una lunga tradizione di sostanzialismo, e ne conosciamo le ragioni storiche. Che tale tradizione si riproduca oggi, in un quadro politico e istituzionale totalmente mutato, mi pare incredibile. Tra l'altro, il passaggio a una forma Stato di tipo maggioritario imporrebbe una grande e rafforzata attenzione verso tutte le garanzie, non solo quelle processuali. Come non vedere che un potenziamento o, almeno, la difesa delle garanzie a ogni livello è il presupposto per la difesa di diritti e interessi dei ceti socialmente più deboli e dei gruppi di opposizione più determinati? E che un domani lo stesso processo penale potrebbe essere usato contro minoranze scomode? Il giudice non dovrebbe rappre. sentare una barriera contro le ondate giustizialiste che attraversano l'opinione pubblica? Non c'è il rischio che un'ansia di giustizia non più sottomessa ai potenti, di per sé giusta, si stia tramutando, in certi giudici, in una sorta di giacobinismo? Sono convinto che un giudice consapevole fino in fondo del proprio ruolo, e dei motivi dell'indipendenza che l'ordinamento garantisce, dovrebbe essere indifferente rispetto a ogni pressione giustizialista. Questo è anche avvenuto, è bene ricordarlo. Intendo dire che vi sono stati magistrati che hanno saputo sfidare l'impopolarità pur di assicurare una gestione corretta dei processi loro affidati e un effettivo controllo di legalità anche laddove si chiedeva loro, dal ceto politico di governo fino ad ampi settori della pubblica opinione, di chiudere gli occhi. Penso alle vicende processuali per fatti di eversione o alla repressione della tortura. lì è chiaro, Sofri e gli altri andavano assolti E, per restare alla cronaca recente, si possono ricordare i giudici di Rimini, che, contro i desideri e le pressioni del mondo intero, hanno istruito i processi a Muccioli. Quanto ai processi per fatti di criminalità politico-amministrativa ed economico-finanziaria, osservo in primo luogo un dato positivo: progressivamente, negli ultimi anni, fra mille difficoltà e resistenze, s'è concretizzato quello che in astratto nessuno ha mai negato essere uno B de li ajpetti elA~;:f iud·c vale a dire il controllo di legalità sui modi di esercizio di qualunque potere, non esclusi quelli "forti". L'indipendenza ha un senso se è reale, ma è anche scomoda, perché tollera poco le compatibilità stabilite dal potere politico di governo. Certo, se poi accade che l'intera questione della lotta alla corruzione viene scaricata sulle spalle dei magistrati, e poi il loro lavoro, specie se efficace, viene duramente contrastato anche nelle sedi istituzionali, alcuni protagonismi, alcune illusioni panpenaliste sono inevitabili. Si tenga conto del fatto che, nel fuoco di vicende così aspre, nel clima di conflitto continuo con le forze di governo, vecchie e nuove, non tutti sono capaci di conservare il distacco e la freddezza che sarebbero opportuni, e che il giudice, comunque, dovrebbe sempre mantenere. La preparazione dei magistrati è essenzialmente tecnico-giuridica, quella politico-istituzionale ciascuno se la deve costruire da sé. Sotto questo aspetto, le ultime vicende del cosiddetto caso Di Pietro sono illuminanti: e non parlerei di giacobinismo, ma di pressappochismo ed ingenuità. C'è un processo però, quello Calabresi, che vede imputati Sofri, Bompressi e Pietrostefani, che è diventato esemplare per un uso distorto dei pentiti, nonché per episodi come la "sentenza suicida" che ribalta surrettiziamente una sentenza di assoluzione. O anche, e qui tocchiamo il problema della separazione delle carriere su cui vorremmo poi la sua opinione, il fatto che il Presidente della Corte del primo processo aveva già in tasca il trasferimento alla Procura, cioé alle dipendenze del Capo di quella Procura che aveva avviato le indagini e sostenuto l'accusa ... La parola di un pentito da sola non può bastare. Nel caso del processo Sofri, citato da Boato nella vostra intervista, la situazione è molto semplice: lì c'erano dichiarazioni di un pentito riscontrate per quanto lo riguardava, ma rimaste senza riscontro alcuno per gli accusati da lui coinvolti. Si sarebbe dovuto arrivare subito all'assoluzione senza questo tormentone senza fine. Quella dei pentiti è una funzione importante: la cultura della giurisdizione dovrebbe consentire l'utilizzazione delle loro dichiarazioni, spesso utilissime per le indagini, entro determinati limiti. I riscontri dovrebbero essere considerati necessari anche se la legge non ne prevedesse I' impiego. Questo è appunto uno dei settori nei quali il processo penale rischia torsioni improprie. Riguardo poi alle sentenze suicide, queste esistono, anche se non sono affatto frequenti: la sentenza su Sofri e gli altri non è stata la prima. Dal punto di vista deontologico, ma anche civile, è una grave scorrettezza, perché scrivere sentenze suicide vuol dire non accettare di essere stati messi in minoranza. Ancor più grave perché in Corte d'assise non si può chiedere al giudice popolare di scrivere la sentenza. Purtroppo nel nostro paese, nonostante la richiesta avanzata dalle parti progressiste della magistratura, non esiste la cosiddetta "opinione dissenziente". E' un istituto che consente di affiancare alla motivazione della sentenza, alla motivazione di maggioranza cioè. la motivazione dissenziente di qualcuno che dice: "Guardate, io la pensavo diversamente per queste ragioni". Qui si dovrebbero riaprire vecchie discussioni sulla responsabilità civile del giudice, che tra le altre cose prevede, n ' v:entualità di dover ~ ~o successivamente rispondere di un danno, che in una busta segreta depositata in non so quale cassaforte venga scritto come si è deciso. Fin dal1'88 ho cercato di spiegare in innumerevoli dibattiti che non era attraverso la responsabilità civile che si responsabilizzavano i giudici, perché questi sarebbero ricorsi ali' assicurazione, come infatti è successo. Siamo tutti assicurati, per cui in caso di giudizio per danni saranno poi gli avvocati delle assicurazioni a risolvere in qualche modo la questione. Mi chiedo, invece, che difficoltà ci sia a introdurre l'opinione dissenziente nella redazione del giudizio. L'uso dei pentiti si è generalizzato nella lotta alla mafia ... Gli anni '70 segnarono l'inizio di un 'attività di ricerca seria delle responsabilità penali rispetto a fatti di mafia e furono la verifica del fatto che non si sapeva nulla di giudiziariamente rilevante. C'erano delle inchieste giornalistiche, c'erano scrittori siciliani impegnatissimi, però non avevi nulla in termini di utilizzazione giudiziaria, perché una ricerca vera, complessiva, rispetto al "fenomeno mafia", non era mai stata fatta. Questa difficoltà di ricerca aumenta fortemente quando diventi consapevole che la mafia non è un fenomeno criminale, quando scopri che se vuoi reprimere l'origine di tutta una serie di attività delittuose organizzate, che vengono portate avanti assieme, devi andare per forza al di là del singolo episodio criminale, trovando gli intrecci con l'amministrazione della città di Palermo, tanto per dirne una, e quindi con la politica. A quel punto ti trovi di fronte non un deserto, ma un muro. Credo che alcuni magistrati importanti che hanno istruito grandi processi contro la mafia negli anni '80, si fermassero ad un certo livello perché consideravano inevitabile avere un limite, nel senso che oltre non potevano andare. il coraggio di una persona come Caselli Lo stesso rapporto che avevano con i pentiti era strano e oggi lo capiamo meglio. Il pentito diceva: "Se vuoi essere creduto, non parlare mai di politica", sostanzialmente perché allora si sapeva che era inutile parlarne. Ma qual è il rischio di torsione rispetto alle regole di diritto? Che a un certo punto produci i primi grandi squarci su questa situazione grazie ai pentiti per cui, agli occhi degli inquirenti della Polizia e della Procura della Repubblica, questi diventano uno strumento importante. Certo, va ribadita con nettezza la loro çollocazione processuale: non ci possono essere condanne per un determinato fatto sulla sola parola di un pentito, se non ci sono i cosiddetti riscontri, che sono elementi di prova. Rispetto al processo Andreotti, su alcune cose prese separatamente magari io e Boato siamo anche d'accordo, però è il punto di vista che cambia, e in modo decisivo. Io auspico, e spero, che il giudice conduca il processo in modo regolare ed imparziale, anche con duri scontri con i Pubblici Ministeri. Supponiamo che questi giudici giungano alla convinzione di una non colpevolezza di Andreotti in relazione ai reati contestati, sono certo che questi giudici assolveranno Andreotti, ma allora qual è il punto? A mio avviso è inutile dire: "Secondo me è un processo che non sta in piedi; alla fine tutto finirà in modo addirittura controproducente ... ". Politici qualificati, sociologi, studiosi del fenomeno mafia fino a tutti gli anni '80 hanno scritto ripetutamente: "Guardate che se non si individua il cuore dell'intreccio fra affari, politica e mafia è inutile tirarla tanto per le lunghe. Puoi condannarne a centinaia per singoli reati come lo spaccio di stupefacenti e cose di questo genere, ma il rimpiazzo sarà continuo: questa organizzazione, questo modo complessivo di gestire l'economia in alcune zone del paese, continuerà tranquillamente. La vera repressione contro questo fenomeno la fai se vai a vedere eventuali corresponsabilità a un livello superiore alla dimensione puramente militare". Qual è il fatto nuovo avvenuto in questi anni '90? Un soggetto, la Procura della Repubblica di Palermo, ha tentato di scoprire le corresponsabilità in fenomeni criminali di notevole gravità. Il dato da cui bisogna partire è che I'indipendenza e la consapevolezza di alcuni settori della magistratura hanno portato questi uffici a tentare di raggiungere quei livelli. Poi avranno le prove, oppure non le avranno e allora giustamente gli imputati andranno assolti; però, è un dato positivo, che mi pare sfugga a Boato, il fatto che lì, senza che ci si faccia intimidire o condizionare da promesse, da minacce e da tutto quello che è immaginabile possa essere capitato a persone come Giancarlo Caselli, si tenta di andare a vedere. Fin dove ci si può spingere in nome del raggiungimento della verità? C'è un limite, costi quel che costi? E il 41 bis è al di là o al di qua di quel limite? E' ovvio che il raggiungimento dell'obiettivo non giustifica affatto ogni cosa. Tra l'altro non è vero, a mio giudizio, che la rinuncia alle garanzie assicuri l'efficacia della repressione. Sotto questo aspetto è molto più importante la crescita diffusa della professionalità di chi gestisce la repressione. Va detto, però, che in alcune zone del paese sono state le organizzazioni criminali, mi riferisco in particolare a quelle mafiose, a dare ad alcune loro iniziative una dimensione militare. Che fare rispetto ad associazioni che muovono centinaia di uomini, che non commettono un delitto, ma tutti i delitti necessari ad ottenere un obiettivo, che hanno capi in grado di comandare anche stando al1'Ucciardone? Qui il problema di accertare le responsabilità personali in questo o quel reato s'intreccia in modo intenso con il problema di impedire che altri delitti - primi fra tutti quelli di sangue- vengano compiuti. Sapendo, si badi, che verranno certamente compiuti. Certo, il 41 bis è uno strumento difensivo, che non ha nulla a che fare con la funzione di recupero sociale che dovrebbe connotare la pena; e però sappiamo tutti che cosa succederebbe se non ci fosse. Bisognerebbe ribadire sempre, con forza. che la mafia non è solo un fatto criminale, ma anche, e soprattutto, un fenomeno strutturale, che carallerizza la vita economica e sociale di intere regioni, con un 'accentuata compresenza di economia legale ed economia illegale, che ha fatto maturare intrecci assai articolati fra affari, politica e mafia. Se le cose stanno così, ben altri dovrebbero essere gli interventi per affrontare alle radici un simile cancro. Se questo fenomeno venisse aggredito a ogni livello come dovrebbe essere aggredito, se davvero si volesse fare la guerra alla mafia. si dovrebbe anzitutto governare, operare scelte politiche, decidere in modo nuovo i flussi del denaro pubblico, controllandone la destinazione, garantendo trasparenza, assicurando una possibilità continua di intervento pubblico al fine di un buon governo della cosa pubblica. Allora, in una situazione di questo genere il processo penale sarebbe davvero un processo penale, così come è previsto, per accertare la mia personale responsabilità in ordine a un determinato delitto. Se invece tutto questo non c'è per varie ragioni, allora voler fare la guerra con iI processo penale è un rischio: il processo penale finisce per subire delle torsioni. ci sono regole da non snaturare ad alcun costo Oggi, invece, ci si illude, o si vuol far credere, che tutto passi attraverso la repressione penale. In tale situazione c'è da rallegrarsi che le torsioni, o le deviazioni, di un corretto processo non siano state più grandi di quelle che si sono in effetti verificate. Bisognerebbe riuscire a convincere tutti che il processo penale ha caratteristiche e regole che non possono essere snaturate, pena un complessivo arretramento civile dell'intera collettività. Sarebbe relativamente facile, penso, definire i limiti invalicabili della repressione penale, della carcerazione preventiva, della pena, se la "lotta" al fenomeno la facesse chi la deve fare, con gli strumenti della politica e del buon governo, lasciando ai magistrati il compito di individuare gli autori dei reati. Se l'unico strumento d'intervento è il processo, i guai sono alla porta di casa. Fra i guai alla porta di casa possiamo mettere anche l'uso della carcerazione preventiva allo scopo di far confessare politici ed imprenditori? O non siamo già di fronte ad una lesione grave dei diritti del cittadino? Può essere che la custodia in carcere sia stata usata in alcuni casi per ottenere la confessione di politici e imprenditori. Però anche qui andrebbe preliminarmente fatta un po' di chiarezza. Cominciamo col dire che la carcerazione per reati anche gravi -non si dimentichi che la concussione corrisponde grosso modo alla rapina quanto a pene che si possono irrogare-, utilizzata negli ultimi quattro anni nei confronti dei colletti bianchi, è stata complessivamente contenuta. Questa valutazione si rafforza, se si fa un raffronto con quanto avviene nei confronti di imputati dei quali nessuno si preoccupa. La devianza marginale -giovani sbandati, tossici, stranieri- subisce una ben più intensa carcerazione preventiva; e anche l'ultima legge dell'agosto scorso in questa direzione è servita a ben poco. Per il resto, fermo restando che iIgiudice deve garantire il giusto processo a chiunque, e che la minaccia del carcere non deve servire perottenereconfessioni, non credo che le vicende di Tangentopoli abbiano diffuso l'idea di una giustizia onnipotente. Ciò che sta avvenendo da alcuni mesi a questa parte, e che fra breve avverrà -alludo all'amnistia o all'indulto con cui si vogliono festeggiare i cinquant'anni della Repubblica- rischia, al contrario, di riproporre l'idea di una giustizia che può essere severa e imparziale con tutti tranne che con i potenti. Diceva qualche tempo fa il Presidente del Consiglio Dini che occorre pensare a un indulto per perdonare i reati di falso in bilancio, perché non si può lasciare il mondo imprenditoriale sotto stress. Ma anche da un punto di vista liberalmercantile, il falso in bilancio colpisce creditori e azionisti! Eppure, a quanto sembra, non è bene che gli imprenditori entrino in carcere preventivamente né per scontare un'eventuale pena ... C'è l'impressione che la categoria dei giudici sia un tutt'uno contro l'imputato. Come vede lei la questione della separazione delle carriere? La separazione delle carriere presenta sicuramente più svantaggi che vantaggi per una serie di ragioni. Intanto, nel '46 è stata effettuata un'operazione traumatica per quanto riguarda il Pubblico Ministero: lo si è staccato dall'esecutivo e lo si è reso indipendente mediante la scelta dell'obbligatorietà dell 'azione penale. Per cui il Governo, la politica diciamo così, non dovevano entrarci più. Tuttavia, proprio per la crescita effettiva dell 'indipendenza verificatasi a partire dagli anni '60, la questione della collocazione istituzionale del Pubblico Ministero è calata dalla teoria nello scontro politico. Faccio un esempio per tutti: nel 1983 in una chiara relazione al Comitato Centrale del Partito Socialista Italiano, Bettino Craxi, che sarebbe diventato di lì a poco capo del governo disse: "Cos'è questa cosa dei Pubblici Ministeri che vanno facendo certe inchieste?". Fece, quindi, una proposta: "Perché per i reati dei pubblici aministratori non introduciamo una regola uguale a quella della legge Reale, cioé la possibilità delle Procure Generali di avocare dalle Procure i processi?". Infine, aggiunse: "Perché questa azione penale? Che cos'è l'azione penale? Alla fine è uno strumento di governo, quindi ridiamo all'ufficio del Pubblico Ministero una struttura piramidale, il cui vertice sia collegato al Parlamento, ossia alla maggioranza parlamentare". Pochi anni dopo arriva Martelli con il progetto per la Procura Nazionale Antimafia, il cui vertice, nella prima stesura, poi modificata, era collegato al Ministro della Giustizia. Il primo decreto era chiarissimo: "Il Parlamento detta le direttive, il Procuratore Nazionale Antimafia ogni anno fa una relazione affinché il Parlamento verifichi la corrispondenza della sua attività con le direttive previste". Insomma, il clima del paese ti dice: occhio al Pubblico Ministero, perché le mosse che arrivano da certi settori politici mirano a neutralizzarlo. Ma perché la separazione delle carriere deve necessariamente portare a un Pubblico Ministero sottoposto al potere politico? La semplice separazione delle carriere di per sé, immediatamente, non porta a questo, ma può essere un primo passo. Secondo me, i risultati di terzietà che si vorrebbero ottenere con la separazione si possono raggiungere per altre strade. Ad esempio il Consiglio Superiore ha già cominciato ad operare riguardo al cambio di funzione: ora, non lo si ottiene più in seguito ad una semplice domanda, ma a determinate condizioni e comunque non come mezzo per cambiare sede. Questa infatti è la ragione più frequente del cambio di funzione. In questi anni, anche per effetto del nuovo processo penale, della nascita della Procura Antimafia e delle Procurare Distrettuali Antimafia, l'organico della magistratura è aumentato: adesso credo che sia di 4500 persone. Si ricorda Cossiga e i "giudici ragazzini"? Cossiga diceva cose vere: c'è una serie di sedi disagiate, essenzialmente nel Sud, che non sono sedi di lotta alla criminalità -per riempire i posti a Palermo o a Reggio Calabria non abbiamo problemi-, per le quali si mettono a concorso i posti. Ma a Gela, a Palmi, a Locri, per fare degli esempi, non ci vuole andare nessuno perché bisogna essere forti per viverci. In queste sedi abbiamo mandato gli uditori, i magistrati di primo grado. Ora, il magistrato mandato a fare il Procuratore a Gela sceglierà di fare anche il giudice o di cambiare funzione pur di venire via di là. La riprova di questo l'abbiamo in altre sedi: a Padova, per esempio, i ma-
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