Una città - anno VI - n. 47 - gen.-feb. 1996

Purtroppo. il confine fra la guerra tra Stati e la guerra civile è diventato sempre meno nello da quando con la li guerra mondiale la guerra diventa totale. Ancora durante la I guerra mondiale la guerra è cosadi militari e le popolazioni civili, purché non compiano atti di ostilità, generalmente sono ai margini, sono lasciate in pace. Ma già nella I guerra mondiale si pone la premessa di quella che sarà la guerra totale, perché, come mai era stato fallo in passato. la popolazione civile nel suo complesso è coinvolta fortemente nello sforzo bellico. Infatti la I guerra mondiale non finisce per un fatto militare. Se l'ultima grande guerra tradizionale, la francoprussiana, finisce con la battaglia di Sédan. la I guerra mondiale, guerra di battaglie e di massacri come non mai. finisce per il crollo delle retrovie tedesche, del cosiddetto fronte interno. Per questo. poi, i teorici della guerra previdero che la li guerra mondiale sarebbe finita molto presto perché le popolazioni civili non avrebbero retto, specialmente ai bombardamenti. Quest'ipotesi era stata fatta sulla basedell'esperienza dei pochi bombardamenti sulle città effettuati durante la I guerra mondiale. In particolare quelli su Londra avevano creato una situazione di panico e cli fortissima protesta della popolazione contro il proprio governo che non aveva saputo difendere i cittadini. In realtà, le popolazioni nella II guerra hanno resistito abbondantemente ai bombardamenti. L'elemento sorpresa, l'elemento imprevisto. che nella I guerra mondiale erano stati devastanti, nella seconda non hanno funzionato: la gente se l'aspettava e i governi avevano presoqualche contromisura. Fatto è che. a partire dalla II guerra mondiale, la guerra non conosce più distinzione fra militare e civile, coinvolge le popolazioni civili e anche le popolazioni civili partecipano a loro modo al fatto bellico coi movimenti partigiani, facendo tracimare i metodi di guerra civile anche nelle condotte militari. I tedeschi furono particolarmente spietati in queste rappresaglie terribili, però quello che loro dicevano: 1ofeca '·Noi vi facciamo una rappresaglia perché voi ci siete ostili. perché voi aiutate i partigiani. perché non possiamo sapere chi di voi è combattente e chi civile''. corrispondeva a verità. E sia chiaro che non sto giustificando. dico che quel comportamento aveva una sua spiegazione, una sua logica. E quando l'eccessività della violenza che si libera nella guerra civile si trasferisce e contagia gli eserciti, allora. con le potenziai ità degli amiament i pesanti e con la velocità degli spostamenti. l'atrocità assume la forma di terra bruciata. Per concludere, venendo alla situazione della nostra vita quotidiana, che ne pensa della tesi di Enzensberger sulla guerra civile strisciante, ormai in atto nelle nostre città'? li libro di Enzensberger l'ho trovato molto suggestivo. Non sonod'accordo nel ritenere che queste realtà cli violenza metropolitana configurino delle microguerre civili. Però lui coglie una cosa importante. appunto. che in quelle situazioni c'è la materia prima della guerra civile. la disponibilità alla violenza. a quell'eccesso di violenza che caratterizza la guerra civile. Quelli disponibili alla violenza così come i protagonisti di questa micro-connittualità sono i primi che si arruolano nelle truppe della guerra civile. Detto questo però. io non credo che da lì possano scaturire delle guerre civili che, per essere tali. devono coinvolgere un intero paese. Il viatico all'esercizio. all'espressione, all 'affennazione e generalizzazione di impulsi alla violenza è dato dagli obiettivi politici, dagli obiettivi ideali. Questi oggi sembrano mancare. ella guerra civile l'ideologia. che può pure servire una causa nobile, diventa un collettore in cui vanno a finire acque pulite ed acque luride. Fortunatamente. per il momento, nelle nostre società sono venute meno le ideologie. Ma queste possono sempre arrivare. Gli etnicismi in qualche misura lo sono. Perciò è opportuno prestare più attenzione. finché si è in tempo. a quella materia prima di disponibilità al la violenza che è la volontaria di tulle le guerre. - ?~···· ·Y# • 8 t ihE: i'' t/'K>' ff't j;,i QUEL TEDESCO A MARZABOl'l'O Anche quest'anno Marzabotto celebrerà il suo 25 aprile e renderà onore ai suoi caduti. Ma anche quest'anno, per la cinquantunesima volta dal 1945, nessuno, forse, si ricorderà di rendere omaggio ad un eroe di una storia che ancora porta fino a noi il suo carico di orrore. Un uomo, un giovane uomo, che scelse di farsi uccidere dai suoi stessi commilitoni, pur di non macchiarsi le mani di sangue innocente. Era un soldato delle Ss, si rifiutò di sparare, fu messo al muro e falciato da una raffica: un martire. In altre epoche, in altri contesti, il nome di quel giovane sarebbe stato consegnato alla storia, i padri avrebbero raccontato ai figli con commozione il suo sacrificio, gli storici, buoni ultimi, avrebbero scavato nella sua vita, nelle sue convinzioni. Nulla di tutto questo è avvenuto per il nostro eroe: non ne sappiamo il nome, non sappiamo nulla di lui e -quel che è forse più grave- nessuno si è mai interessato a riempire questo vuoto. Sappiamo solo, con certezza che è esistito, che i fatti sono andati proprio così: decine di testimonianze di sopravvissuti alla strage sono concordi e a Marzabotto, a chi ne chiede notizia, rispondono: "Sappiamo che è una storia vera. Nulla più". Il suo sacrificio, come il suo nome, è stato scritto sulla sabbia e il vento se li è portati via. Una strana storia. Ma non più di tante altre. Il povero eroe dimenticato di Marzabotto si trova infatti in compagnia di molte decine di migliaia di "tedeschi buoni" di cui l'Europa, laGermania per prima, si è dimenticata in questi 50 anni. Una dimenticanza così clamorosa, apparentemente ingiustificata, strana, da rendersi intrigante. Come è possibile che siano esistite decine di migliaia di tedeschi che si sono ribellati ad Hitler e ne sono stati uccisi, centinaia di migliaia condannati alla prigione, milioni triturati nel lager ... e che di questi si sia persa traccia, il ricordo, il norpe? Pure, la più grande resistenza europea contro i valori del nazismo -incomparabilmente- è stata quella tedesca. Ma lo si è dimenticato al punto che chi ricordi questo dato storico oggi viene preso per pazzo, o poco meno. Resistenza "contro i valori del nazismo", beninteso, non resistenza "contro il tedesco invasore", naturalmente. La distinzione è fondamentale. In tutta Europa solo l'inizio della lotta di liberazione nazionale dall'occupante straniero-dopo lasconfitta militare del proprio Stato nazionale- trasforma l'antifascismo, praticato sino a quel momento da pochi, pochissimi, in movimento di massa. In Italia i valori antifascisti, fino al 1943, sono attivamente testimoniati da un manipolo di poche migliaia (forse sarebbe meglio dire centinaia) di militanti. E' la lotta contro l'invasore tedesco l'elemento scatenante della resistenza di decine di migliaia di persone. Nuovi patrioti che in stragrande maggioranza negli anni '30 avevano dato il loro consenso -attivo o passivo- al regime, consenso che la guerra, solo la guerra persa, ha bruciato e trasformato nella scelta opposta della resistenza armata. Resistenza che non poteva che essere guidata da chi aveva compiuto la lunga e assai solitaria attraversata del deserto dell'antifascismo italiano degli anni trenta. Altra storia, ma anche altri numeri, altra consistenza ha il rifiuto del nazismo in Germania negli anni '30. Eccone alcuni, nella loro crudezza. Tra il 1933 e il 1939 furono condannati 225.000 tedeschi per reati politici, per un ammontare complessivo di 600.000 anni di carcere. Tra il 1933 e il 1945 tre milioni di tedeschi furono rinchiusi per un periodo di tempo in un lager per ragioni politiche (al 1 O aprile 1939 secondo un rapporto della Gestapo 162.374 erano i detenuti dei lager e 139.801 erano in attesa di giudizio) Tra il 1933 e il 1945 32.600 persone furono giustiziate in Germania in seguito a pronuncia di sentenza in buona parte per reati politici diretti o mascherati, 5.000 furono i condannati per aver partecipato al tentativo insurrezionale del 20 luglio 1944. Tra il '33 e il '39 non meno di 400.000 tedeschi emigrarono dalla Germania hitleriana. Cifre impressionanti: un mondo, un'intera fetta di umanità sconosciuta. Incredibilmente, nella nostra "Casa comune europea" (come si diceva prima che Sarajevo ci spiegasse che di nuovo la puzza di lager l'ammorba) è scomparsa la memoria storica di quelle centinaia di migliaia di tedeschi. Anche il loro nome è stato scritto sulla sabbia, non sono mai esistiti (solo Schindler è esistito, ma unicamente perché se n'è occupata Hollywood). I perché di questa incredibile assenza sono molti. Il primo, scontato, è la cattiva, pessima, coscienza della "nazione tedesca" dopo il '45. Negare l'esistenza dell'opposizione al nazismo è stato un bisogno di massa insopprimibile che ha coinvolto in un ferreo "patto del silenzio" decine di milioni di tedeschi. Incredibilmente, però, questo "patto" ha coinvolto in qualche modo anche i superstiti della parte giusta, anche i tedeschi reduci dai lager, anche i fuorusciti, gli antinazisti. Kurt Schumacher, il corpo piagato dalle torture del lager, leggendario leader della socialdemocrazia post-bellica spiegò che i nazisti facevano appello al "lurido cane nascosto in noi tedeschi", la colpa dell'aguzzino è fatta propria dalla vittima, quantomeno per quella parte che li accomuna: essere entrambi tedeschi. Brandt, pochi anni prima della morte, diede questa versione, tanto incredibile da apparire senz'altro vera, sul perché di quella dimenticanza nei primi anni del dopoguerra: "Abbiamo accantonato quasi del tutto quell'importante ricerca: dove sono i morti? Dove sono stati in carcere? Ormai i nostri borgomastri socialdemocratici, così come i presidenti degli enti locali, stavano rimettendo in funzione aziende e sistemi di trasporto distrutti e non avevano tempo per tornare a occuparsi del passato." La ricostruzione come pozione d'oblio ... può essere, soprattutto se intrisa del manicheismo artificiale dei decenni della guerra fredda. Soprattutto se favorita dalla cattiva coscienza dei padroni pro tempore della Germania post-bellica, gli Alleati con i loro Von Braun e l'arroganza di chi tutto sapeva ma nulla ha fatto, di chi non bombardò mai Auschwitz, nonostante le ripetute richieste in questo senso della resistenza ebraica. Il secondo perché dell'oblio della resistenza tedesca è un secco prodotto della realpolitik: l'effetto di quella resistenza al nazismo è stato nullo, non solo non ha vinto, ma i popoli oppressi dai tedeschi nazisti non se ne sono nemmeno accorti (così come il plotone di esecuzione di Reder a Marzabotto ha continuato a mietere centinaia di vittime dopo che il giovane eroe è stato falciato). Il terzo è più articolato e ci porta vicino al nodo del problema: le forze politiche antinaziste scomparvero come neve al sole dopo le elezioni del marzo '33. I dodici milioni di elettori che, a Reichstag bruciato, Hitler regnante, sfidarono le Sa e le Ss votando per socialdemocratici e comunisti rimasero orfani del proprio coraggio. Comunisti e socialdemocratici mantennero le loro direzioni estere, parteciparono in forze alla guerra di Spagna, ma mai seppero dare una qualche prospettiva politica, di alternativa praticabile al regime, anche ai numerosi gruppi di attivisti che agivano nella clandestinità. Mancò insomma un "progetto politico" alla resistenza tedesca al nazismo e per questo non val la pena di perdere troppo tempo ad occuparsene. Il quarto perché, più sostanzioso, ce lo spiegano gli storici tedeschi che usano due termini differenti per parlare di resistenza: Widerstand, che ha un significato politico esattamente uguale al termine italiano, e Resistenz, termine usato di solito per i materiali, che indica un non piegarsi, una forma più impolitica, individuale, non organizzata, di opposizione al nazismo. Le cifre sui tedeschi che hanno sofferto prigione, lager, morte, perché antinazisti, sono impressionanti. Ma parimenti impressionante è la mancanza totale di influsso sugli eventi, sulla marcia trionfante del nazismo, che il loro sacrificio ha avuto. Ma non risiede proprio nel rapporto tra quell'enorme numero di tedeschi che furono perseguitati dal regime e il nulla assoluto dei loro risultati politici uno dei più grandi misteri della politica del nostro secolo? E il destino perduto, la memoria inesistente di tante centinaia di migliaia di vite spezzate non costituiscono forse uno dei gorghi più interessanti per la cultura contemporanea? Due domande che conducono alla terza e conclusiva: come possono crescere il pensiero politico europeo, la cultura europea, integrazione o non integrazione, "Casa Comune" o non " Casa Comune", se continuano a cullarsi nell'illusione di avere spiegato tutto sulla genesi del nazismo come conseguenza della crisi del '29? Senza sapersi spiegare in che modo sia stato possibile -come dice Brandi· che, "a partire da un certo punto l'azione politica diventò impossibile"? Ecco una buona definizione del nazismo: la fine della politica, l'impossibilità della politica!. Ma quest'assenza è stata sinora spiegata in termini assolutamente meccanici, inadeguati, schematici. Se non tutto, molto del sistema politico-sociale nazista si può spiegare con la critica ai partiti di Weimar e con la Weltanschauung keynesiana. Molto, ma non Auschwitz. Qui è il punto: noi viviamo in una grande finzione politico-culturale, come se vi fosse una linea di continuità tra le regole della politica che hanno trovato fondamento nel Sei-Settecento inglese e francese e quelle che si possono e si devono applicare alla politica contemporanea. La "parentesi" totalitaria del nazismo (del fascismo, dello stalinismo) viene vissuta come interruzione di sistema politico, non come crisi definitiva della stessa politica nata dalle rivoluzioni inglese e francese. Auschwitz obbliga -obbligherebbe- invece a verificare se sia fondata o meno un'altra ipotesi: quella scienza politica vale solo per definire le regole del gioco nel ristretto ambito sociale che -per capirci- chiamiamo "società civile". Non vale -se non parzialmente- per spiegare il funzionamento di una moderna società democratica di massa. Le regole vere, quelle che determinano la fisiologia politica contemporanea, si comprenderanno solo quando si sarà sviscerato il comportamento di alcuni milioni di uomini che per la prima volta nella storia, nel 1918, dopo aver combattuto atrocemente in guerra per 4 anni, hanno avuto il potere di scegliere democraticamente. Loro, i citoyens diventati poilus, hanno trasformato la politica imponendo la continuazione della legge di guerra nella società civile. E questo non solo, non tanto, nell'ovvia militarizzazione dell'organizzazione sociale che è propria di società totalitarie. No, il punto è un altro: il dato culturale e politico fondante la libera scelta democratica del nazismo e del fascismo da parte delle "larghe masse" è la liceità dell'assassinio, dell'uccisione dell'uomo da parte dell'uomo, travasata dalle leggi di guerra a quelle della pace. Da qui nasce Auschwitz, e nasce, anche, il Gulag. Giacobini e girondini, bilanciamento tra i poteri dello Stato e amenità varie della scienza della politica non bastano a spiegare i momenti della storia in cui l'umano piacere d'uccidere uomini diviene organizzazione sociale accettata e macchina statuale organizzata. La "banalità del male" di organizzazioni statuali basate sul consenso di massa così come sull'assassinio di massa è decrittabile con i mezzi che ci mette a disposizione la scienza della politica con la stessa approssimazione con cui i principi della meccanica, l'inerzia, l'attrito, la gravità, servono a spiegare un programma di Persona) Computer. La "nuova" quotidianità della vita nel vecchio continente, la ex-Jugoslavia, la Cecenia, l'est europeo sono lì, ogni giorno, a ricordarci che questo è il tema, che il meccanismo che trasforma le neonate democrazie di massa europee in Stati "alla Auschwitz" ha avuto una sua paradossale interruzione solo grazie al terrore del deterrente atomico, fino al 1989. Interruzione iniziata con la sconfitta solo ed esclusivamente militare, per nulla politica, del nazismo nel '45. Ecco allora che diventa attuale, cruciale, la risposta alla domanda -apparentemente stravagante- sulle ragioni per le quali l'Europa si è dimenticata di centinaia di migliaia di tedeschi antinazisti. Hannah Arendt, che era una di loro e ha lavorato più di chiunque, con coraggio, attorno al tema, scrive "Il problema che ne deriva non si risolve riconoscendo, come del resto è doveroso, che la dottrina nazista non è rimasta radicata nel popolo tedesco, che la criminale dottrina morale hitleriana sparì all'istante quando la storia battè l'ora della sconfitta ...." Ecco la grande illusione: che l'incommensurabile orrore di Auschwitz sia stato una deviazione guarita, "sparita all'istante" ·per il solo fatto che Hitler ha perso la guerra.Ecco perché non ci si è occupati di porre al centro dell'intera ricostruzione morale e politica del dopoguerra la vicenda della resistenza tedesca: la malattia era "guarita". Ma non era e non è così ed è fondamentale comprendere perché l'unico vero anticorpo che ha tentato di contrastare la malattia -la resistenza tedesca- ha fallito. Solo dallo studio del rapporto tra tedeschi nazisti e tedeschi antinazisti può venire qualche lume per capire "il male". Ma ci si è dimenticati di loro, dei tedeschi antinazisti, anche perché la loro esistenza rovina la stupida certezza ricostruita nel dopoguerra: Auschwitz è un problema dei tedeschi, solo loro. L' "unicità" del genocidio degli ebrei, si è trasformato nell'unicità della colpa. "Solo i tedeschi potevano fare una cosa del genere". Il fronte del consenso a questa versione è totale e coinvolge -ma il paradosso è solo apparente- gli stessi tedeschi. L'esistenza di milioni di tedeschi innocenti, di più, l'esistenza di decine di migliaia di tedeschi che hanno sacrificato la vita per combattere il nazismo -magari senza neanche saperlo, come il povero soldato di Marzabotto- dà scandalo, non fa più tornare i conti. La colpa non può più essere della bestiale unicità del popolo tedesco, torna essere -è banale- colpa o ignavia dei singoli. E il fatto che questi singoli fossero decine, centinaia di migliaia, fossero "regime" è il vero nodo irrisolto, politico e culturale, dell'Europa che si è ricostruita sulla falsa coscienza che Auschwitz fosse esclusivamente un momento atroce della storia della Germania, e solo di quella. Sarebbe auspicabile che così fosse, per tutti noi. Ma così non è, non è mai stato, come hanno tentato di spiegarci i sopravvissuti . Lo "scandalo" della resistenza tedesca è tutto qui: riapre un discorso sull'Uomo, chiude in modo brutale, e non "francofortese", la parabola del "secolo dei Lumi". Perché l'unicità del genocidio compiuto dal Reich hitleriano si accompagna ormai con tante altre unicità: il gulag sovietico, l'orrore cambogiano, la pulizia etnica jugoslava ... "Il cane nascosto" evocato da Kurt Schumacher ha latrato nel petto di molti popoli, negli ultimi sessant'anni. La modernità del lager, come modello politico, come simbolo assoluto del secolo che finisce è indiscutibile. E nessuno dubiti che non verrà trionfalmente consegnata al terzo millennio. Come Primo Levi, e Jean Améry e Bettelheim e le centinaia di superstiti dai lager finiti suicidi ci urlano -ancora e sempre inascoltati- nell'atroce obbligo di darsi la morte. Carlo Pane/la La testata UNA CITTA' è di proprietàdella cooperativaUNA CITTA'. Presidente: Massimo Tesei. Consiglieri: RosannaAmbrogetti, Paolo Bertozzi. Rodolfo Galeotti, Franco Melandri, Gianni Saporetti, Sulamit Schneider. Redazione: RosannaAmbrogetti. Marco Bellini. FaustoFabbri, Silvana Masselli. Massimo Tesei, Gianni Saporetti (coordinatore). Collaboratori: Loretta Amadori, Antonella Anedda.GiovannaAnceschi,Giorgio Bacchin, PaoloBertozzi, PatriziaBetti. Aldo Bonomi, BarbaraBovelacci, MassimoCasadei,Michele Calafato, DoloresOavid, Kanita Fociak, Liana Gavelli. Marzio Malpezzi. FrancoMelandri. Carla Melazzini, MorenaMordenti, Linda Prati, Carlo Poletti, Ecli Rabini, StefanoRicci, Flavio Ronchi.donSergioSala,SergioSinigaglia, SulamitSchneider.Senka Trolic.111terviste: A Giovanni Palombarini: MassimoTesei. A Gianfranco Benin: MassimoTesei. A Ugo Ascoli: SergioSinigaglia. A Samia Kouider: Gianni Saporetti.A Pierre-André Tag11ieff: Marco Bellini. A Franco Travaglini: Gianni Saporetti. A Miche/ Wieviorka: Marco Bellini. A f-lubert Gasser: Edi Rabini. A Gabriele Ranzato: Gianni Saporetti. A Maria Tugnoli: Dolorcs Oavid e Gianni Saporetti. Disegno di StefanoRicci. Foto di FaustoFabbri; a pag.6, di MagdaTaroni; a pag. 10-11,tratta dai quotidiani; a pag.13.di Silvana Masselli. Grafica: "CasaWalden". Fotoliti: Scriba. Questo numero è stato chiuso il 28 gennaio '96. UNA c1nA' I 5

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