Una città - anno IV - n. 34 - settembre 1994

81 i filosofia e altro La storia ha ancora in sé la possibilità del nuovo o siamo alla "mobilitazione totale" e quindi alla stasi totale? La coesistenza pacifica è ormai una condizione preliminare, la democrazia fornisce condizioni minime, ma irrinunciabili. Lo stallo opinativo. Intervista a Franco Volpi. Franco Volpi insegna Filosofia all'università di Padova. E' traduttore e curatore di molte edizioni italiane delle opere di Heidegger, Schmitt, funger. L'Europa ed il mondo vivono anni turbolenti. Per molti siamo al compimento del nichilismo. Lei cosa ne pensa? Da questa situazione si potrà uscire? Per rispondere a tale domanda è indispensabile precisare il senso del termine nichilismo. Esso va inteso, a mio avviso, nel senso che in tutti i pori della discussione contemporanea è ormai penetrata la convinzione, che Nietzsche per primo diffonde nella cultura europea, secondo la quale i vecchi quadri di riferimento, i valori considerati supremi, non hanno più carattere vincolante. Ora, tale convinzione sembra corrispondere alla effettiva situazione del mondo d'oggi. Ma, una volta data per valida la descrizione della situazione presente in termini di nichilismo, per vedere se ci sia una via d'uscita da tale situazione, oppure se essa costituisca una forma di vita ormai cristallizzata, è indispensabile dare un'anamnesi di questo stato, dunque è necessaria una individuazione delle cause di questa situazione patologica. Qui le opinioni divergono: nella coscienza critica del nostro tempo, nei pensatori contemporanei che hanno tentato di misurarsi con questo problema, Husserl e Heidegger ad esempio, vediamo che ci sono anamnesi diverse della malattia nichilistica. Husserl, ne "La crisi delle scienze europee", ci dice che la perdita di senso causata dallo sviluppo della scienza e dalla razionalizzazione moderna è dovuta al fatto che abbiamo smarrito l'ideale della filosofia e della scienza così come i Greci, per primi, l'avevano fondato. E avendo la cultura occidentale tradito quell'ideale, essa si è trovata in un'impasse che ha portato alla crisi le scienze europee, le quali hanno perso il loro significato per la vita, con tutte le conseguenze che da questo derivano. Per Heidegger la diagnosi è diametralmente opposta. Egli dice che la situazione attuale, in cui domina la colonizzazione scientifica e tecnologica del pianeta, è dovuta proprio ali' inveramento del!' ideale della scienza e della tecnica che i Greci per primi posero. Già da questi esempi risulta chiaro che una risposta alla domanda sullo statuto e sull'esito del nichilismo dipende dalle cause che noi consideriamo come responsabili di questo stato. Recentemente si è sviluppato inoltre un dibattito che si incrocia con la diagnosi del nichilismo, ed è il dibattito che intende riflettere su quale sia il punto in cui ci troviamo nella storia, al di là del fatto che lo qualifichiamo come nichilistico, come patologico o come salutare. Ci si chiede, in particolare, se al punto in cui è arrivata oggi la storia essa abbia ancora in sé la possibilità del nuovo, oppure se la "mobilitazione totale" in cui viviamo sia arrivata ad uno stato che non può che continuare così come sta funzionando ora; un stato, quindi, nel quale la mobilitazione totale diventa stato permanente, quindi stasi totale. E' la tesi della cosiddetta fine della storia, che non significa il finire degli eventi della storia, ma l'instaurazione del movimento come stato permanente. E' un dibattito diverso rispetto a quello sul nichilismo, ma che si innesta sulla stessa domanda. Ma questo dibattito non presuppone una distanza dal nichilismo che forse noi non possiamo ancora avere? Una sorta di ''fine del nichilismo"? Credo che non sia per noi possibile distanziarci dal nichilismo; credo, anzi, che la dimensione nichilistica si sia allargata ed estesa ovunque, attraverso varie metamorfosi. Noi, forse, non abbiamo più il nichilismo descritto da Nietzsche; abbiamo però un nichilismo che è presente in maniera protei forme anche là dove in superficie non appare, ad esempio dove governano l'ordine e l'organizzazione: al di sotto di questi fenomeni, che apparentemente non hanno niente a che fare con il nichilismo, possiamo vedere un'anima nichilistica molto più pervicace e radicata di quanto si possa a prima vista supporre. Tuttavia, mentre fino a poco tempo fa, nel momento in cui si è preso coscienza della lucidità e della portata della diagnosi nietzschiana, ci si beava in qualche modo del nichilismo, anzi se ne faceva l'apologia - addirittura si sosteneva che noi avvertiamo disagio nei confronti del nichilismo proprio perché non ci siamo ancora abituati a convivere con esso- oggi invece mi pare si tenda piuttosto verso un "oltre" il nichilismo. un ottimismo che vada oltre il nichilismo Ernst Jiinger, autore del magistrale saggio "Oltre la linea", su questo punto era molto ottimista già negli anni '50, e per questo si attirò le critiche di Heidegger. Oggi alcuni esponenti autorevoli della cultura contemporanea, anche italiana, ripropongono quell'ottimismo. Sembrano averne abbastanza del nichilismo e tentano di portare nella discussione spunti e temi che permettano, se non di uscire dal nichilismo, perlomeno di creare uno scarto di prospettiva rispetto all'apologia del nichilismo che era di moda fino a poco tempo fa. Se prendiamo, ad esempio, le ultime affermazioni al riguardo di Vattimo, di Cacciari, di Zecchi, vediamo che in esse si fa spazio ali' invito a tentare qualcosa, a sperimentare forme di esistenza che oltrepassino questa ideologia del nichilismo, poiché la descrizione disincantata e lucida del fenomeno, data tempo fa, si è rivelata sterile o improduttiva rispetto alle esigenze che oggi si vanno affermando. Ma allora, in che misura si può definire iJ nichilismo come un fenomeno patologico? Naturalmente, ancora una volta, il nichilismo è una patologia nella misura in cui diamo una certa anamnesi di questo fenomeno. Noi, oggi, constatiamo il venir meno di un 'identità culturale data, di un tessuto connettivo preesistente, di un quadro di riferimento atto a tenere insieme certi fenomeni, ed è in riferimento a tale identità che parliamo di stato patologico; uno stato in cui le unità preesistenti si sono consunte e i vecchi valori della tradizione europea non hanno più il loro carattere e la loro forza vincolante. In base ad altre anamnesi, però, il .a nichilismo può essere anche letto come un fenomeno positivo. La diagnosi di Nietzsche descrive la perdita dell'ordine antico, la consumazione dei valori pregressi, dunque qualcosa di negativo; ma questa consumazione è al tempo stesso il processo di attraversamento della negatività che porta al nuovo, è un avvicinamento a principi nuovi e a nuove posizioni di valori. Da questo punto di vista il nichilismo è un fenomeno positivo nella misura in cui, distruggendo l'antico, crea la possibilità del nuovo. Addirittura possiamo dire che il politeismo dei valori, cioè il fatto che non siamo più in grado di dare una fondazione razionale a una identità vincolante per tutti, e che ognuno sceglie il proprio dio, è una perdita dal punto di vista del monoteismo preesistente, ma è una perdita che ingenera un nuovo valore: quello della tolleranza reciproca tra diverse opzioni, decisioni, o visioni del mondo. La tolleranza e il rispetto sono ingenerati anche dal venir meno di identità forti,di messaggi di verità dogmatiche che da sempre alimentano gli elementi polemogeni, quindi anche contrapposizioni ideologiche e politiche molto consistenti. Il nichilismo ha invece alimentato il valore della tolleranza perché, in assenza di verità forti, in presenza di un contesto molto debole, è molto più facile ammettere l'altro, il diverso. E' quello che, di fatto, vediamo avvenire nella società contemporanea, nella quale sono ammessi e difesi l'altro, la minoranza, il diverso, il comportamento deviante, senza che questo faccia scandalo come accadeva in presenza di scelta di verità forti. Lo scandalo c'è, quando c'è una verità forte. Ma l'altro viene ammesso realmente o solo sopportato? Dal punto di vista giuridico e politico questa differenza non ha importanza, mentre ce l'ha da un punto di vista etico e religioso. Dal punto di vista della coesistenza pacifica, che possiamo prendere come un valore, fondamentale è che l'altro venga rispettato: che la motivazione sia quella della tolleranza o della comprensione o della "pazienza", o di quant'altro, questo credo sia, dal punto di vista giuridico, ovvero della forma del comportamento, irrilevante. il valore di verità deboli, formali, procedurali Non voglio fare l'apologia della coesistenza pacifica: essa è un valore minimale, una conditio sine qua non facilmente accettabile da interlocutori appartenenti a culture e civiltà diverse e credo che difficilmente, anche da parte di culture tendenzialmente fondamentalistiche, si possa sostenere un qualcosa di diverso dalla possibilità di una coesistenza pacifica: anche il fondamentalista non ha per fine lo stato permanente di guerra come tale. Anche la guerra santa non ha se stessa come finalità ultima, ma l'istituzione di uno stato di pace; per cui, riguardo alla coesistenza pacifica tra le culture, credo non si faccia una affermazione troppo azzardata dicendo che è una regola, un principio, una norma, un valore, universalmente accettato e condiviso. Credo che non ci sia cultura o soggetto politico disposto a sostenere, in linea di principio, che la forma della convivenza sia quella della lotta reciproca o dell'annientamento reciproco. Riagganciandoci al problema del nichilismo, dicevo che in una situazione di credenze deboli, o di mancanza di credenze, è più facile trovare vie per il compromesso e per il riconoscimento dell'altro che non in una situazione in cui prevalgono verità forti, che hanno la tendenza ad espandersi, a colonizzare, e quindi a diventare universalistiche nel senso peggiore del termine, cioè nel senso della conquista e dell'inglobamento dell •altro.Credo che oggi le società occidentali, non essendo portatrici di verità forti, ma di verità deboli, procedurali, formali, come appunto quella della coesistenza pacifica, abbiano in sé questo carattere specifico che può essere visto come un valore. Un valore che certo non è considerato tale nella ex-Jugoslavia ... Quello della ex-Jugoslavia è un problema molto preciso, specifico; un problema che ha più a che fare con lo stato attuale del diritto internazionale che non col problema del nichilismo. più nessuno può giustificarsi in nome della forza Certo, il nichilismo, se considerato il contenitore generale della situazione epocale del mondo d'oggi, può essere usato come chiave generale per interpretare tutto quello che avviene, quindi anche gli orrori della guerra nella ex-Jugoslavia, ma credo che, per capire quel fenomeno, dovremmo da un lato analizzare la situazione interna della exJugoslavia e, dal!•altro, la situazione di diritto in cui si trovano le nazioni nei loro rapporti reciproci e nella loro possibilità di intervenire o meno per evitare o alleviare quegli orrori. Direi che per spiegare il fenomeno, cioè perché oggi nessuno interviene significativamente nel conflitto jugoslavo, sia più proficuo indagare come mai si sia istituito tra gli Stati un rapporto per cui tutti sono rimasti sovrani, e le relazioni internazionali sono regolate in ultima istanza dalle leggi di natura, e perché invece non si sia arrivati ad un tipo di organismo con potere di intervento più determinato, come si potrebbe auspicare sulla scia del Kant della "Pace perpetua". Questo è il problema vero. E' un problema che peraltro Cari Schmitt individuava molto acutamente ne "Il nomos della terra": quello dell'alternanza continua tra l'isolazionismo di ciascuno all'interno del proprio territorio e I' interventismo in difesa degli interessi della comunità internazionale. Questa alternanza non è mai stata risolta proprio perché nel rapporto tra gli Stati non si è mai costituita quel1'istanza superiore che sussiste ed è riconosciuta invece all'interno di ciascuno di essi e che permette, per esempio, il monopolio della forza da parte dello Stato all'interno del suo territorio. Non c'è chi gestisca il monopolio della forza sul piano internazionale perché non c'è un supergoverno che abbia potered' intervento in situazioni di disordine come quella jugoslava. In questa assenza di orientamenti, e nella presenza di un'alternanza continua tra due estremi opposti dell'isolazionismo e dell'interventismo, finiscono per essere determinanti i motivi di interesse economico. E' forse in questa assenza di orientamento comune il motivo per cui l 'Onu sembra ingovernabile? E questo può giustificare le diverse modalità di intervento messe in atto in Iraq e in Bosnia? La ragione per cui in passato certe cose hanno funzionato ed oggi non funzionano più non era il quadro istituzionale in cui esse avvenivano, ma la presenza di un elemento che coibentava le relazioni internazionali, cioè le due superpotenze che, bloccandosi, bloccavano la possibilità di questo tipo di conflitti. Oggi, non essendoci più questo potere coibentante delle due superpotenze, ci accorgiamo che il quadro istituzionale rappresentato dall'Onu non funziona più, ma in verità anche prima era qualcos'altro che lo faceva funzionare. Non è che oggi l'Onu funzioni, in quanto Onu, peggio di prima: funziona peggio perché non ha più i supporti che aveva prima; si tratta però di trovarglieli. Da questo punto di vista penso che oggi sia arduo condividere l'opinione espressa da Kant, il quale diceva che l'umanità è in costante progresso verso il meglio, però credo anche che un tipo di istituzione come I' Onu sia una conquista fondamentale. Ma una sorta di supergoverno si dovrebbe innanzitutto scontrare con gli interessi economici e di potere delle grandi potenze, oggi ridotte ad una... Nessuno, in linea di principio, può oggi portare, come motivazione del proprio interventismo, la motivazione economica. Nessuno, neanche ai tempi dell'ideologia più grezza, poteva giustificare sul foro internazionale il proprio operato in base alla semplice ideologia della forza. Quando l'Unione Sovietica invase l'Afghanistan lo fece in nome della fratellanza tra i popoli: non poteva certo affermare, sul piano internazionale, che il suo intervento era determinato dalla volontà di conservare o espandere il proprio potere. Quando gli Americani invasero Grenada lo fecero per la stessa ragione per cui I•Unione Sovietica aveva invaso l'Afghanistan, ma giustificarono il loro agire in nome della salvaguardia dei principi di pace e libertà. Nessuno, dunque, può oggi prescindere da valori riconosciuti come universali quale quello della coesistenza pacifica. Il nichilismo, quindi, ha certo prodotto una consumazione delle verità forti, ma ha anche permesso la creazione di regole e punti di riferimento minimali all'interno dei quali si sono risolti molti dei problemi della coesistenza pacifica. Quando oggi diciamo che, per esempio, i diritti dell'uomo sono un quadro entro cui agire e ci troviamo a discutere, tra culture diverse, intorno a questi diritti, credo che sia più facile mettersi d'accordo su alcune regole d'azione fondamentali, per esempio il rispetto della vita umana, piuttosto che non sul riempire di un contenuto filosofico questa azione concreta. Sul rispetto della vita umana credo che l'indiano, l'africano o l'europeo si possano trovare d'accordo, mentre litigherebbero all'infinito se dovessero accordarsi sulle ragioni filosofiche, ideologiche o religiose per le quali non bisogna ammazzare. I contenuti che noi diamo a determinate azioni che compiamo sono diversi a seconda delle culture, delle civiltà e dei paesi in cui ci troviamo, per cui sul piano pratico l'accordo è più facile che su quello teoricofilosofico. I diversi contributi culturali e le diverse tradizioni entrano spesso in conflitto fra loro. Una prospettiva totalmente procedurale ... Il nichilismo ha prodotto una situazione in cui sulle procedure ci si può accordare e questo non vuol dire che le procedure siano vuote, perché il risultato che si ottiene attraverso la procedura può essere un risultato importante, per esem- .pio sul piano operativo, pratico, politico e anche etico. Sul rispetto della vita, per esempio, mi pare ci sia un consenso generalizzato; nessuno Stato rifiuta il riconoscimento di alcuni principi fondamentali e di alcuni diritti dell'uomo fondamentali. Nelle conferenze internazionali si è visto che anche su molte altre cose, su alcune norme e regole morali di vita comuni alle diverse ci viltà, c'è un accordo generalizzato. Ciò che è difficile, ed è difficile proprio perché la visione complessiva del mondo è stata consumata dai processi nichilistici, è la fondazione teorica, ideologica, filosofica di quelle pratiche su cui di fatto molti concordano. Ma è a questo punto che si può riconoscere il valore positivo, anche da un punto di vista filosofico, della consunzione nichilistica. Certo, questo è un po' fare di necessità virtù, ma è una situazione dalla quale non si può pensare di fuoriuscire con la postulazione forte di qualcosa di alternativo al nichilismo, perché questo tentativo sarebbe una ennesima proposta che verrebbe riassorbita dal1'interno di un nichilismo liberale - chiamiamolo così- come qualcosa da tollerare o da ammortizzare nelle sue possibili conseguenze polemogene. Insomma, se arrivasse l'ennesimo dittatore, o l'ennesimo fondatore di religione, lo tollereremmo nella comunità dei nichilisti liberali impedendogli di diventare pericoloso. dall'esperienza del negativo le contromisure Ali' interno di una società democratica, anche oggi, in particolare per il principio della giustificazione e legittimazione pubblica o la separazione dei poteri, sono fornite importanti e irrinunciabili garanzie. L'esperienza del negativo, insomma, ha prodotto delle contromisure, e credo che le dichiarazioni che, dal '48 in poi, sono state fatte sul piano dei diritti dell'uomo siano state pensate proprio per contrastare l'eventuale insorgere di fenomeni come quello nazionalsocialistico. Ma questo ''nichilismo liberale" non è una sorta di nuova fondazione? In campo filosofico, ma probabilmente anche in altri campi, oggi è difficile che i tentativi di fondare delle visioni del mondo, o semplicemente delle convinzioni, possano avere un carattere divefso da quello che i Greci chiamavano carattere dossastico o opinativo. Oggi tutte le idee, benché argomentate, sono pur sempre opinioni che vanno considerate e tenute presenti, ma che, prima di essere accettate, vanno sottoposte ad una verifica, ad una critica e ad una messa in questione radicale. Quello che intendo dire con il termine "nichilismo liberale" è che oggi gli strumenti per mettereinattoquestaparsdestruens del pensiero sono molto più sottili e raffinati di quelli che chiunque può utilizzare per costruire. E' molto più facile decostruire che proporre e costruire in positivo. Per questo si assiste oggi ad una situazione di "stallo opinativo" quasi totale. Siamo in una situazione per cui un'opinione vale l'altra ed è difficile che, sul piano delle convinzioni, delle opinioni, si produca quello che invece più facilmente si produce sul piano del sapere scientifico, e se un'opinione riuscisse ad essere condivisa universalmente, immediatamente passerebbe dallo statuto di convinzione a quello di verità. Ma, da questo punto di vista, la nostra situazione sul piano filosofico è sicuramente molto diversa da quella in cui si trovavano a pensare i filosofi dei secoli passati. - UNA CITI'A' INTERVISTE: A Enrico Deaglio: Marco Bellini. Gianni Saporetti, Massimo Tesei. A Paolo Cesari: Massimo Tesei. A Arturo M.L Parisi: Franco Melandri. A Vi/torio Rieser: Gianni Saporetti. A Nico/e/la Dentico: Edoardo Albinati. A Giorgio Villa: Marco Bellini. A Alessandra Castellani: Edoardo Albinati. A Franco Volpi: Giulia Apollonio, Franco Melandri. A Chiara Frugoni: Gianni Saporetti. A Lisa Massetti: Massimo Tesei. FOTO: di Fausto Fabbri. A pagg. 6-7: tratta da Qualitas-Anno II, n.2 (Ed. Direzione Acquisti di Fiat Auto). A pag.15: tratto dal libro di C. Frugoni Francesco e l'invenzione delle stimmate (Ed. Einaudi). A pag.16: di M. Tesei. UNA CITTA' 13

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