Una città - anno II - n. 13 - maggio 1992

Quanto affermato da Giannozzo Pucci nell'intervista pubblicata nel numero scorso ha suscitato molteplici reazioni, di cui cominciamo a rendere conto con alcuni interventi. Resta certo che, a prescindere anche dalle convinzioni su come affrontarli, problemi come l'aborto, l'ingegneria genetica, la sessualità e la procreazione, il rapporto con la natura, sono al centro dell'attenzione di tutti. Vorremmo tenere aperta la discussione. Nei prossimi numeri torneremo su alcuni di questi problemi. IL CANTO E LA FERRA Giannozzo Pucci, nell'intervista apparsa sul numero scorso di "Una Città", dice molte cose ed appunto per questo parla di una sola: la questione dell'identità. Attorno a quysto problema gira tutta l'intervista; dalla sua visione dell'identità trae origine e senso quel che dice sull'aborto, sull'ingegneri·a genetica, sulla natura. Per Giannozzo Pucci la questione è, tutto sommato, abbastanza semplice: "l'identità è qualcosa (...)che ruota attorno alla trasmissione della vita" perché "nella nostra fisicità, nel nostro corpo, e' è tutto l'universo". Come per i neurologi, per cui la questione del pensiero si riduce, alla fin fine, ad una questione di attività chimica ed elettrica del cervello, così per Pucci tutto, nell'essere umano, si riduce alla sua corporeità. Una corporeità per cui il problema della morte, e quindi della vita, si pone solo una volta persa la condizione edenico/fetale originaria; quella in cui Adamo, che "non sapeva cosa significasse dover morire", appunto per questo" era libero ed ha scelto di mangiare il frutto proprio perché era libero". Come uomini abbiamo quindi perso la nostra identità, e la nostra libertà, originaria e, per non ricadere nell'errore di volere scegliere, non possiamo fare altro che limitare (anzi, far limitare "a livello istituzionale") la nostra possibilità d'agire, nella speranza di ritrovare quello stato fetale che sempre ricercheremmo. Per quanto enunci posizioni estreme e metta in luce questioni drammatiche alla fin fine il discorso di Pucci è, come si diceva, semplice, per molti versi consolatorio: ritornare alla madre terra, lasciarsi essere sperimentando le gioie dei limiti che essa pone, far ritornare le nostre radici dal pensiero, cioè dal regno della domanda e dell'incertezza, al regno del certo, al suolo, alle stagioni, quello in cui siamo veramente liberi perché, in fondo, non siamo costretti a scegliere. Ma è veramente così? Lo stesso Pucci afferma che "l'uomo è come un albero rovesciato( ...) E' come se avesse le sue radici nel pensiero" e se così è questo è ciò da cui occorre partire, questa è la stimmate che come esseri umani dobbiamo portare. Purtuttavia dire che le nostre radici sono nel pensiero non ci dice più di tanto, ci dice solo dove è la nostra identità, non quale essa possa essere. Ma se il problema è quello di una identità che attraverso il pensiero dobbiamo ricercare, allora è ben misera cosa indicare nella nostra biologia, nella nostra fisiologia, l'elemento fondamentale perché sarebbe come dire che lo zoppo o il cieco sono solo tali, che tutto ciò che sono si riduce unicamente, o principalmente, all'essere zoppi o ciechi. Ma proprio perché abbiamo "radici nel pensiero" ognuno di noi è qualcosa di irriducibile all'essere zoppo o cieco, macilento o atletico, miope o con la vista d'aquila. Da questa considerazione il pensiero, occidentale e non, ha preso le mosse ed ha cercato un elemento che gli desse il senso chiaro di questa "uscita" dalla biologia,. attorno a cui organizzare l'identità, con cui orientare un agire consapevole di essere tale. Il pensiero occidentale ha per molto tempo identificato nella razionalità, nel principio di non contraddizione autofondante, questo elemento cardine, attorno ad esso abbiamo creato il nostro "io"; un "io" che, ponendosi fuori dal mondo, si è dato gli strumenti per rapportarvisi. Ma è questo stesso principio razionale, che ci ha fatto ritenere "oggetto" a disposizione del pensiero tutto ciò che pensiero non è, che in un delirio di onnipotenza sta proprio ora mostrando pienamente il suo volto nefasto: la catastrofe ecologica ed quella antropologica sono alle porte, quella sociale è probabilmente già in stato avanzato. Pucci ha ragione nell'identificare nell'onnipotenza della razionalità la radice della crisi della nostra epoca, ma commette lo stesso errore dei razionai isti ed identi fica la metafisica del la razionalità con la capacità di pensiero; ad essa coniuga irreversibilmente la nostra identità, la nostra possibilità di essere e di agire. Ed è proprio qui che tutto il suo ragionamento, pur mettendo in luce problemi reali, si dimostra inadeguato ad essi. Sostituire alla razionalità un'idea di natura è solo cambiare il fondamento dell'agire umano, non il modo di rapportarsi con tale questione. Pensare che ogni scelta umana debba essere fondata su qualcosa di "oggettivo" è sfuggire al dramma che l'avere "radici nel pensiero" di per sè pone: quello che come esseri umani noi in qualche modo ci autofondiamo e questo autofondarci, che ci fa sentire il resto del mondo come "assenza" cui porre rimedio, è la sfida che al nostro pensiero, al nostro essere, al nostro agire si impone. Dice Bruce Chatwin ne "Le vie dei canti" che per gli aborigeni australiani "la terra deve prima esistere come concetto mentale. Poi la si deve cantare. Solo allora si può dire che esiste" perchè "il canto e la terra sono tutt'uno". Di questo canto, cioè di questo fare/dire dell'uomo, quel che soprattutto importa è la melodia, cioè il "senso" del canto: gli uomini possono ripetere le parole ed i modi con cui questa melodia è stata cantata in precedenza o possono decidere loro con quali parole e modi cantarla. Cantando essi viaggiano attraverso tutto il continente australiano, lo fanno esistere e si fanno esistere. Col canto, e nel canto, essi trovano la loro identità e il senso e la libertà del loro agire al punto che, per loro, l'uomo non muore tanto quando la sua biologia muore, ma quando egli dimentica il suo canto o non può più cantarlo nemmeno fra sé. Per gli aborigeni il canto è il "tempo del sogno", cioè il momento in cui il cantante ha la piena percezione che il suo canto, le sue parole ed il suo modo di cantare, al meglio continuamente ricreano il mondo, e quindi sé stesso, in modo irripetibile eppure continuamente ripetuto. Forse cominciare a porci il problema di "come" e "cosa" "cantare" ci potrebbe aiutare ad uscire dal dramma che le parole di Pucci mettono in luce, ma che, forse al di là delle sue intenzioni, contribuiscono ad accrescere. Franco Melandri i I POI CHI LIMITE? Ho letto e riletto l'articolo "La gioia del limite•· apparso nel numero di aprile. L'interesse è stato vivo fino all"ultimo rigo, ma, ammetto, diversi passaggi mi hanno fatto ribollire il sangue. E mi vengono alcune considerazioni "a caldo". Non condivido praticamente nulla di quanto afferma !"amico fondamentalista Giannozzo Pucci; l'unica cosa che condivido è il senso di frustrazione ed insoddisfazione nei confronti del mondo in cui siamo, ma non mi trovo d'accordo con nessuno dei rimedi proposti. Intendiamoci, non sono certo una fanatica sostenitrice del "progresso•· della "scienza" o del capitalismo. Venerdì al giornale radio delle 8 è stato comunicato, direi con soddisfazione del commentatore, che nella Piazza Rossa scompariranno i vecchi simboli e faranno apparizione le pubblicità delle sigarette e della Coca-Cola. Mi sarei messa a piangere, non è certo questo il mondo che sognavo, non considero certo espressione di civiltà la pubblicità della "morte in pacchetto". Certo che fra tutte le specie presenti nel mondo l'uomo si è fatto largo a gomitate, instaurando un rapporto sbagliato e violento con la natura e l'ambiente, distruggendo senza limite non solo altre specie animali e vegetali, ma i suoi stessi simili. Vi ricordate Caino e Abele? Forse che loro avevano un limite? Il limite penso non sia mai esistito, l'uomo non è capace di darsi un limite, perché penso che violenza ed egoismo per primi non abbiano Limite. Mi sembra molto semplicistico augurarsi e ricercare un ritorno alle origini, al passato, al mondo bucolico e pensare che tutto il male venga dalla scienza. Mi sembra sinceramente un sogno un po' infantile. Forse che il mondo al tempo dei greci, dei romani o del medioevo era meno violento, la gente aveva più limiti? Certo le leggi erano più severe e si bruciavano le streghe. Io mi vedo già sul rogo ... Davvero non vedo un razionale in tutto questo, penso purtroppo che la natura dell'uomo sia fondamentalmente violenta, non credo certo che la colpa di questo sia degli scienziati, nonostante che anche in questo campo ci siano state delle aberrazioni. Dei limiti ci vogliono, la sperimentazione sugli embrioni è stata per fortuna abbandonata, proprio dagli scienziati che per primi si sono accorti che stavano giocando col fuoco: hanno richiesto l'intervento di comitati etici ed hanno preteso l'apertura e il dibattito su questi temi da parte di tutta la società civile. Credo che mai come in questi anni ci sia attenzione proprio nella comunità scientifica e medica verso l'uomo "in toto", si tende ad un recupero del dialogo con la persona "malata" dopo che questo era stato spezzettato in mille rivoli di specialità e branche diverse. Mai come in questi anni è vivo, almeno nella pratica e nella mente degli oncologi, il problema della qualità della vita, dell'accanimento terapeutico. Direi che proprio dalle sfere più alte e impegnate dell'ambiente medico e scientifico si è sentita l'esigenza di recuperare l'integrità dell'uomo come persona, sia da sano che soprattutto da malato, quando per forza di cose si trova "dipendente" da altri. lo penso che la più grande dote del l'uomo sia la curiosità: perché Adamo ha mangiato la mela? Era curioso di assaggiarla. Perché si è sviluppata la scienza? Perché l'uomo è curioso. E perché non si deve essere curiosi di sapere come fa una cellula maligna a metastatizzare? Curiosi di sapere dove è stata addormentata tanti anni in un corpo per poi svegliarsi ~ diventare peggio di una bomba atomica per il suo disgraziato ospite? Se non c'era qualcuno curioso di vedere perché le malattie si sviluppano, cosa c'entravano quegli animaletti che si isolavano dai liquidi infetti e si vedevano al microscopio, oggi ancora dovremmo combattere con malattie terribili come il vaiolo, la peste; i grandi flagelli dell'umanità oggi non esistono più! Dobbiamo buttare a mare la scienza con tutto quello che ci ha dato? Dobbiamo tornare a fare 15 figli non graditi e male allevati? Dobbiamo piuttosto fare figli per abbandonarli nella ruota? No, grazie. Proprio non ci sto. Meglio l'aborto clandestino perché almeno una rischia e paga di persona? Scusate, ma per me queste sono barzellette: non ho mai visto una persona fare una interruzione di gravidanza a cuor leggero e, tengo a dirlo, non sono certo una "abortista", ma non ho mai fatto obiezione di coscienza. In definitiva le idee esposte in questa filosofia fondamentalista non sono da me condivise per tre motivi: sono utopiche, generiche ed impossibili. Ma soprattutto concettualmente errate. Il limite non si trova tornando indietro, e poi quale limite? Ogni aspetto della vita ha un suo limite e ognuno deve trovarlo, prima di tutto dentro di sé. Poi io sono pragmatica: certo i limiti ci vogliono e io mi accontenterei di vedere rispettati i limiti di velocità e le limitazioni sul fumo! Patrizia Gentilini. dibaHiti di UNA ClffA 1 L'ABORTO giovedi, 21 maggio, ore2 I Circoscrizione Uno, via Maceri 22, Farli IL DRAMMA DELL'ABORTO La presente lettera, che vi prego di pubblicare come contributo ad un dibattito per me molto interessante, nasce dall'aver letto due interviste sul vostro ultimo numero dell'aprile '92 riguardanti il tema dell'aborto. L'argomento è sicuramente delicato. Lo sforzo che vorrei propormi è quello di fare un ragionamento pacato e logico partendo da alcune considerazioni etiche che ritengo essenziali. Il valore della vita è certamente un valore fondamentale. Se non si rispetta la vita degli esseri umani, ma anche dell'ambiente in cui vive l'uomo, ogni altro tipo di rivendicazione dei diritti cade nel vuoto e nel propagandistico. A questo punto è logico chiedersi quale sia il momento in cui insorge la vita. Lo spermatozoo e l'ovulo materno hanno in sé gli elementi per far nascere la vita, ma presi da soli non producono nessun mutamento vitale. E' l'incontro tra lo spermatozoo e l'ovulo che genera quel processo che, se portato a compimento, nella stragrande maggioranza dei casi porta alla nascita di un bambino. Il termine di tre mesi dal concepimento previsto dalla legge sul l'interruzione volontaria della gravidanza (n. 194/78) appare quindi arbitrario e non giustificabile. Ritengo quindi che sia necessario un superamento dell'attuale legislazione in materia. Questo però senza ignorare i problemi delle persone e senza voler ergermi a giudice delle coscienze altrui. Per essere più schematico e preciso delineerò per punti ciò che si potrebbe fare: I) ripensare molto criticamente la legge 194 senza criminalizzare penalmente chi abortisce; 2) una volta concepito un bambino bisogna studiare, per le madri che non possono/desiderano avere figli, la possibilità di portarli in istituti per immediati affidi temporanei o adozioni definitive, in modo da tutelare l'anonimato e, soprattutto, la vita del bambino; 3) impegnarsi ad investire risorse nella prevenzione: educazione sessuale, consultori familiari pubblici (aperti al contributo del volontariato), educazione alla contraccezione (su questo tema la Chiesa cattolica ha bisogno di uscire da alcune sue rigide posizioni; in ogni caso dovrebbe accettare la contraccezione, anche quella "non naturale", come male minore) ecc.; 4) intervenire sulla qualificazione della spesa sociale in modo da attivare una serie di servizi e di iniziative di solidarietà per accogliere la vita (ad esempio "case di accoglienza" per ragazze madri o donne in difficoltà, dove collabori il pubblico e il privato-sociale), soprattutto nelle zone più disagiate. E' infatti necessario sostenere la maternità e rimuovere le cause culturali e materiali che spesso portano ali' aborto e che lasciano la donna sola nella sofferenza e nella responsabilità delle sue decisioni. Solo sulla donna infatti ricadono spesso i problemi della maternità (doppio lavoro a casa e fuori, discriminazione nei luoghi di lavoro o difficoltà di assunzione perché la maternità può bloccare la carriera o è vista come un onere economico per le aziende); 5) l'autodeterminazione è valida solo se la donna è sola, ma in una prospettiva di superamento di tale stato non si vede perché il partner non deve poter incidere in scelte così importanti (il figlio è concepito in due); 6) sensibilizzare la gente attorno ai temi legati alla vita: nonviolenza, rispetto dell'ambiente, equilibrio e giustizia nel rapporto Nord/Sud del mondo. Queste questioni richiedono un nostro profondo mutamento culturale e delle scelte fondamentalmente diverse (minor consumi, energia pulita ecc.). Tutto ciò richiede una coerenza che parte, a mio parere, anche dall'accettazione della vita fin dal suo concepimento. Solo così si possono muovere giuste osservazioni a quei "campioni" della battaglia contro l'aborto che troppe volte danno l'impressione di combattere, tra le numerosissime forme di violenza contro la vita, solo quella di chi abortisce. Inoltre mentre sull'aborto esprimono spesso condanne assolute, diventano possibilisti, indifferenti o addirittura conniventi quando si tratta di affrontare le altre gravissime minacce ai diritti fondamentali dell'uomo. Prima di concludere vorrei delineare un altro problema vicino al tema dell'aborto: le sperimentazioni sugli embrioni. Le cellule dei feti sono utilizzate in esperimenti per curare alcune malattie. Siccome danno dei buoni risultati non è da escludere che avvenga quel mostruoso commercio con il Sud del mondo (donne che si lasciano fecondare per poi fornire il feto mediante l'aborto), che già oggi avviene per gli organi umani. E' necessario un enorme sforzo culturale per sconfiggere l'aborto e per superare quelle barriere ideologiche che mai servono a risolvere i problemi. La legge 194, nella parte relativa alla possibilità di interrompere la gravidanza, non può essere considerata una conquista e deve essere superata, anche perché pochi considerano l'aborto un valore per cui si possono trovare punti di incontro sui quali vincere il dramma dell'interruzione volontaria della gravidanza. Raffaele Barbiera UNA c,rrA' E' ANCHE MEMORIA Turoldo e di Balducci; il tempo della speranza. E delle battaglie civili;tra le prime, ilreferendum sul divorzio. Ed erano parole chiare, precise e decise quelle che ascoltavamo. La loro fede religiosa non separava ostilmente dal nostro tempo; riuscivano a trovare invece proprio nel Vangelo la potenza messianica della libertà. "Della fede nessuno è padrone I non potete mettere I il bavaglio al vento! I Dio è la mia pace I e tu, uomo-Cristo, I la mia sorte". Così, anche tramite loro, abbiamo imparato concretamente a trovarci accanto, laici e credenti, a conoscerci meglio. A capirci. avversari più numerosi: "pace" è una parola difficile e turba. Balducci ci raggiunse con isuoi "Vangeli della pace" e l'iniziativa dell"'Edizione Cultura della Pace". Turoldo "ribelle fedele" ci inquietava con il "Vangelo di Giovanni": "Uomini, dentro/non avete che morte I negli occhi e nelle mani". In due mesi, due uomini. P. Turoldo ed Ernesto Balducci ci hanno, a brevissima distanza l'uno dall'altro, lasciati e mipare giusto ricordarli qui, anche se rapidamente: fanno parte della nostra storia, di tanti di noi che proprio in loro hanno trovato la voce e la forza storica della speranza. Una città è anche fatta di memoria; e sia Turoldo che Balducci erano ben noti a Forlì, dove ilSalone Comunale e la Sala Albertini si sono più volte e regolarmente riempiti per ascoltarli. Ora liascoltiamo di nuovo, rimeditando la loro lezione di vita e pensando alla loro consonanza ideale. Accostati dai giorni della morte, ma più ancora vicini nelle vicende della loro vita e soprattutto ambedue sintonizzati sui problemi del nostro tempo. Quando chiesero a P. Turoldo chi era il prete, riconobbe la sua CO incapacità a rispondere (chi si stupisce?) e poi aggiunse: "lo sono tutti voi. Soprattutto la "condizione umana" è ilciclone implacabile del prete; e, dentro, Dioche lofulmina". Proprio questa condizione umana fatta di dolore e speranza, di lotta, invocazione e poesia è stata la sostanza di vita di questi due testimoni, che ancora sentiamo vicinissimi. P. Turoldo, un poeta; e Balducci ne ha vissuto la parola nella potenza liberatrice dell'utopia. Ilprimo personalmente impegnato già nella lotta di liberazione a Milano, la sua "patita città"; il secondo fu tra i primi a scontare con la condanna del tribunale la battaglia per l'obiezione di coscienza. Due diversi fronti, ma un'unica lezione; come dire che la libertà è insieme politica e coscienza. Ovviamente tutti e due incompresi e combattuti. Riprova che la loro voce non era ideologica e funzionale. Incompresi e combattuti proprio da quella Chiesa di cui pure erano preti. Il Vangelo è sempre più grande della Chiesa. E così sono stati presto allontanati dalle loro sedi e dai loro impegni. Eppure mai del tutto soli: "Padre Turoldo, vada avanti. Non c'è nessuna legge al mondo che possa impedire la carità". Così lo sostenne il cardinal Montini, lo stesso che, divenuto papa, riammise anche P. Balducci nella sua Badia Fiesolana. Era il tempo del post-Concilio, quando stava rinascendo una Chiesa migliore: non competitiva, non forte e sicura di sè, come un mondo a se stessa, ma "debole", leggera, libera. Ed è appunto stato questo il tempo in cui anche noi a Forlì abbiamo ascoltato la parola di Poi è venuto iltempo dell'impegno per la pace. Anche qui, oltre le strette ideologiche. "lo voglio sapere I se c'è un altro avvenire I se la pace è possibile I se giustizia è possibile I se l'Idea è più forte della forza". Il tempo in cui l'incomprensione ostile è divenuta più forte e gli E non poteva ovviamente dimenticare la sorte dei popoli della fame: non di sole armi si può morire. Anche dei disordini economici internazionali. E dinnanzi al recente flusso degli immigrati extracomunitari, invece delle perversioni razziste, Balducci reagiva affermando: "son venuti a chiederci il conto". Basta per noi la legge Martelli? E intanto ci avveleniamo con la cultura della separazione. Per questo, anche con la memoria di Turoldo e Balducci una città, "Una città", può tener desta la coscienza viva del nostro tempo. Sergio Sala

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