Rivista popolare di politica lettere e scienze sociali - anno II - n. 9 - 15 novembre 1896

164 RIVISTA. POPOLARE DI POLITICA LETTERE E SCIENZE SOCIA.LI a dire che uno statista dovrebbe conoscere un poco la psicologia delle masse e studiar gli uomini. Ma la vendetta nostra - di noi che sappiamo e che il mondo ufficiale italiano disprezza tanto - è che P ignoranza loro di cui son tanto orgogliosi, li ha trascinati questa volta alla perdizione. Tutti gli illustri uomini che hanno ordinata prepa• rata e comandata la spedizione hanno sempre, nella loro ingenuità, cr~duto d'essere assolutamente padroni dei loro strumenti. Dieci mila, venti mila, quaranta mila soldati ; era questione solo di nu- . mero, come si trattasse d'animali o di macchine. Anzi si era talmente confuso l'uomo e lo strumento che i soldati si chiamavano tout court fucili. Quanti fucili ha il Barattieri in questo momento ? Nessuno pensa che il fucile suppone il fuciliere; e che questi è un uomo, con le sue passioni, i suoi sentimenti, le sue debolezze e i suoi bisogni. Tutti credevano che i fucili avrebbero sparato e vinto, a un cenno del generale, automaticamente. La verità è che i soldati italiani non avevan nessuna volontà di vincere; ed erano in massa, inquieti di tutt'altro che del risultato della ~uerra. Nè poteva essere diversamente. La volontà umana si determina per dei motivi ; e nel caso nostro i motivi che potevano indurre nell'animo dei soldati quella determinata volontà di vincere, quell'ardore di coraggio e di eroismo che erano necessari per condurre a termine bene la cosa. non ci erano. Guido Baccelli - sempre eguale a se stesso per la vanità delle idee e la turgidezza della forma - ricordava ultimamente nella Tribuna i soldati di Roma antica. Ma, o retore incorreggibile: i soldati di Roma antica avevano uno stimolo enorme alall'eroismo ed era la speranza della preda. Essi sapevano che, massacrato un esercito o presa una città, ci sarebbero stati tesori d'oro e di gemme, tappeti, avori, stoffe, belle donne da spartirsi, sia pure in proporzioni più o meno eque. Anche il loro eroismo da briganti non era dunque creato dal nulla. Supporre che il povero soldato italiano potesse essere stimolato dalla avidità della preda, nella guerra con l'Abissinia, sarebbe una ironia. Potevano invece i capi del governo supporre che sotto la pioggia del fuoco abissino. essi sarebbero stati saldi e come radicati alla terra dal sentimento del dovere verso la patria ? Bisognava allora essere ben fatui e ben sciocchi, anche essendo persuasi - ed è questione asaai dubbia - che il sentimento della patria potesse entrare in giuoco in un'anima dabbene per una guerra come quella di Abissinia. Anche le classi alte e le classi medie - quelle che per maggiore istruzione e benessere possono coltivare un poco più, nel giardino della loro anima, le aiuole dell'ideale, sono in Italia poco o punto accese di quel furioso amore guerresco per la patria, senza cui non si fanno le guerre di conquista. Che sia un bene o che sia un male questo è un'altra questione: ma il fatto è che quel sentimento non esiste in noi. E si vorrebbe che ne fossero accesi, di un amore così originale, i miserabili proletari italiani, quelli che dalla patria non hanno avuto mai nessun beneficio, non l'agiatezza, non l' istruzione, non la libertà ; quelli che sono ridotti a contentarsi, come di una fortuna singolare, di non morire di fame ? La verità è eh& il mondo ufficiale e specialmente il partito militare, nella loro grossolana vanità, hanno creduto di potere tutto con la forza. Il ragionamento che tutta quella gente faceva era che tutta la canaglia italiana avrebbe ben voluto stare a casa a poltrire; ma che grazie a Dio c'era il Codice militare, con le sue minacce terribili, a spoltrire i vili. Il terrore - così hanno pensato - comprimerà ogni altro sentimento. E il risultato fu che quest0 orgoglio da fiducia nell'onnipotenza della forza brutale - di cui Crispi era il simbolo più intero, - ha finito nel più colpevole disastro: punizione tremenda, ma meritata, che è stata un compimento di giustizia! E così si è confermato di nuovo che non ci sono peggiori giudici di cose di guerra che i militari. Quando dei soldati imbevuti di spirito militare, sono chiamati a decidere di pace o di guerra invece di veri uomini di stato, essi conducono sempre alla distatta alla rovina. I militari non capiscono nulla della guerra. perchè non ci vedono che un gridò di fucili e di cannoni; ma non penetrano quel giuoco di forze, morali, che sta sotto ai movimenti apparenti delle armi e degli armati e che ne determina l'eaito; essi non capiscono quel cozzo di sentimenti e di anime che è la realtà vera della guerra mascherata sotto l'apparente conflitto di due strategie. Come regola generale, tra i due eserciti vince quello in cui i soldati sono più determinatamente risoluti a vincere, più eccitati dall'idea della vittoria. La perfezione delle armi e la abilità dei gene!'ali non sono· che elementi secondari, perchè i pit\ abili degli strateghi furono sempre quelli che seppero infondere maggiore ardore nelle anime dei soldati, maggior desiderio e maggior speranza cli vincere. La guerra è molto meno un conflitto brutale di quanto si creda; è anzi essenzialmente una lotta di passioni, di furori, anche se volete; ma una lotta morale. li pit1 furibondo vince, ma è necessario che qualche cosa ecciti in lui questo furore. Con la forza si può estorcere a un popolo il pagamento dei tributi più infami che servono ad alimentare il lusso e i piaceri delle classi dominatrici. Ma se queste classi sono prese dalla fantasia di -adornare le loro

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