il Potere - anno I - n. 1 - luglio 1970

pag. 4 il POTERE Luglio 1970 potere dirba,tf,itopotere dlibattHo potere dibattito potere dibGttito potere dibattHo potere d,ibattHo potere dibattito potere Il potere nella fabbrica Presso la nostra redazione si sono incontrati alcuni amici per discutere sul tema: « Il potere nella fabbrica ». Hanno preso parte al dibattito, che qui di seguito pubblichiamo, il sindacalista Domenico Paparella, Filippo Peschiera, libero docente in diritto del lavoro, l'imprenditore luigi Schiavetti, Ennio Ravati, della sinistra extra– parlamentare, Ugo Signorini, st:..idioso di problemi sindacali. Ha diretto il dibattito Bruno Orsini. ORSINI - Il gruppo che ha dato vi– ta al nostro giornale si pone, in ter– mini di particolare evidenza, il proble– ma all'esercizio del potere nella no– stra società. Noi ben sappiamo che il potere non si riassume soltanto in quello politico, ma si esprime nelle più diverse e complesse articolazioni, spesso autori– tarie e oppressive, in ogni settore del– l'attività umana. Noi intendiamo operare affinché il potere venga esercitato solo quando e dove risulti indispensabile e diventi uno strumento di servizio e non di oppressione dell'uomo. Ma per far ciò occorre analizzarne le configurazioni concrete nei punti nodali della socie– tà di oggi. A tal fine abbiamo promos– so questo incontro per dibattere in libertà il tema del potere nella fab– brica. PAPARELLA - Uno degli obiettivi principali delle wtime lotte contrat– tuali consisteva nella modifica sostan– ziale dei rapporti d'autorità all'inter– no della fabbric&. Ci si è mossi su due linee: cioè si sono ricercati stru– menti per la tutela della libertà e del– la dignità personale e per la salvaguar– dia dei diritti collettivi. E concreta– mente si sono avute modifiche sostan– ziali della normativa in materia di di– sciplina aziendale che era immutata dal contratto del 30 luglio 1936. I contratti dell'autunno 1969 han– no cambiato, e in maniera veramente notevole, i rapporti fra la collettività dei lavoratori e le direzioni. Primo fra tutti II diritto d'assem– blea che dà al sindacato e ai lavora– tori una possibilità di dialogo, di par– tecipazione attiva, di democrazia di– retta all'interno della fabbrica. Insie– me a questo altri diritti sono stati affermati : riconoscimento delle rap– presentanze sindacali, libertà di riu– nione, libertà di diffusione della stam– pa sindacale in fabbrica sia pure a determinate condizioni. Deve essere chiaro che, anche oggi, l'applicazione di queste norme è oc– casione di tensioni all'interno della fab– brica per il costante tentativo delle direzioni aziendali di svuotarne i con– tenuti e di limitarne l' applicazione. Solitamente, almeno nella maggioran– za delle fabbriche metalmeccaniche, questi tentativi provocano sempre de– cise risposte da parte dei lavoratori ed anche questa sensibilità nuova ver– so i propri diritti è frutto della lunga lotta contrattuale. Al di là dei riswtati ottenuti, la lot– ta contrattuale è stata caratterizzata in senso antiautoritario e nei confron– ti del processo produttivo e nei con– fronti della stessa direzione sindacale. Infatti con la lotta articolata all'inter– no della fabbrica gestita dai lavora– tori, che aveva l'obiettivo esplicito di colpire la produzione, l'intero assetto organizzativo delle aziende ha subito gravi colpi. L'organizzazione del lavo– ro ha perso agli occhi dei lavoratori la sua pretesa oggettività scientifica ed ha mostrato la sua vera funzione di organizzazione dello sfruttamento. Di qui la lotta condotta con brevi interruzioni del lavoro, con l'autolimi– tazione dei ritmi, col blocco dei re– parti a scacchiera, con le assemblee dei lavoratori effettuate prima che il contratto le sancisse. Questi movimenti cli lotta sono stati caratterizzati da un rifiuto dell'autori– tà non condivisa che va dall'organiz. zazione del lavoro alla funzione gerar– chica dei capi. I risultati di questo nuo– vo modo di essere in fabbrica non so– no certo trascrivibili in un articolo del contratto di lavoro, ma i frutti non tarderanno a giungere. La prova più evidente ci viene dalle prime piat– taforme rivendicative elaborate in al– cune fabbriche: si va dall'eliminazio– ne dei cottimi, all'eliminazione delle categorie più basse, alla contrattazio– ne dei ritmi degli organici, a nuovi diritti sindacali. Questa capacità di contestare l'as– setto della fabbrica è innegabilmente il frutto di una maturità nuova che le lotte d'autunno hanno prodotto nel– la coscienza cli ogni singolo lavoratore che costituisce la miglior garanzia per l'affermazione della libertà all'interno del proprio posto di lavoro, condizio– ne primaria per il potere operaio in fabbrica. SIGNORINI - Da parte mia preciso subito, anche per delimitare il tema, che il problema del potere in fabbrica lo identifico col problema della libertà nella fabbrica, unica possibilità per i lavoratori di contrapporsi alla aliena– zione indotta dalJa fabbrica stessa nel- l'uomo-lavoratore. Se approfondiamo infatti, anche sommariamente, alcuni dei motivi dell'alienazione del lavora– tore nella fabbrica, noi scopriamo al fondo tutte le cause che portano a conclusioni più generali di ordine po– litico, sociale e morale e che fanno apparire nella moderna società indu– striale il tema del potere in fabbrica né più né meno come problema del potere nella società. Ricordo di aver letto che l'aliena– zione in fabbrica ha quattro caratte– ris_tic_he: _1) la separazione della pro– pneta dei fattori di produzione e de– gli stessi prodotti; 2) l'assenza di con– trollo sw processo lavorativo; 3) la rmpossibilità di fatto di influenzare le scelte e le politiche imprenditoriali· 4) l'assenza di controllo sulle condi'. zioni di lavoro (normativa e sicurezza sociale). Concordo pienamente con questa classificazione e ritengo che il primo aspetto che ho richiamato è caratteristica essenziale della moderna società capitalistica e perciò in essa ineliminabile. La mancanza di potere in ordine al secondo e terzo dei punti indicati deriva direttamente dalla pri– ma e pone in evidenza le caratteri– stiche che rendono <<immorale», alla radice, il sistema capitalistico. Tali ca– ratteristiche infatti sono scarsamente modificabili da azioni sindacali e con– trattuali e, al limite, dovrebbero porre in discussione l'accettabilità per i la– voratori degli stessi sindacati attuali che, operando all'interno del sistema, come spesso capita di sentir preci– sato, di fatto ne sono garanti. Invece sw quarto punto, è abbastan– za facile convenire che i rapporti di potere che si esprimono nella fabbri– ca a livello contrattuale sono decisivi, anche se, di per sé, sono di fatto indi– rizzati a un semplice traguardo di realizzazione, tipico della società neo– capitalistica (ne fanno testo le socie– tà più avanzate del mondo occidentale). A questo punto mi pare di poter trarre le seguenti conclusioni: l'unifi– cazione della proprietà dei fattori di produzione, lungi dall'essere una spe– cie di mitica panacea per risolvere i problemi della società come appare dalla teorizzazione marxista, è però, a mio avviso, un punto di passaggio obbligato per spostare i rapporti di potere nella fabbrica. _Per. quanto riguarda invece la pos– s1b1lita effettiva di influenzare le scel– te politiche ed imprenditoriali, essa può essere ottenuta solo con l'auto– gestione, punto di convergenza di si– stemi ~conomici opposti, ancor oggi però di fatto tutta da sperimentare e da verificare. La possibilità di controllo del pro– cesso lavorativo è certamente subordi– nata alla soluzione dei primi due pro– blemi ed al coordinamento dell'azione sul piano internazionale, non essendo certo possibile lasciarlo alle sole ipo– tesi di sviluppo della tecnologia. In conclusione dunque, il problema del potere nella fabbrica, anche se ci si può illudere che sia un problema sindacale, è prima di tutto un pro– blema politico. Ritengo sia anche il campo nel quale maggiormente si po– trà operare al cli là di teorie basate swl'anonima genericità della società, per riscoprire fino in fondo il valore profondamente cristiano della coscien– za di ciascun uomo, artefice e bene– ficiario vero di questi ipotizzati spo– stamenti di potere. SCHIAVETTI - Il problema del pote– re in fabbrica è stato impostato da chi mi ha preceduto in una visione as– sai generale, con un discorso molto am– pio cui, data la dimensione della mia azienda e quindi la portata limitata della mia esperienza, io non credo di poter aggiungere nulla di nuovo, a meno che non mi fosse concesso di reimpostare il problema da un punto di vista eminentemente teorico-cultu– rale, cosa che comunque ci portereb– be fuori dei limiti posti dal dibattito. Per queste ragioni mi limiterò ad allacciarmi al problema prendendo spunto da alcune osservazioni emerse nei precedenti interventi. Mi pare che ad un certo punto dell'esposizione, Pa– parella abbia accennato al fatto che non è possibile fissare in una legge tutto quello a cui l'operaio può aver diritto e che Signorini abbia notato che uno dei fattori di alienazione in fabbrica è costituito dal!' assenza cli controllo da parte dei lavoratori swle condizioni cli lavoro. Prendo spunto da queste osservazioni per conferma– re che concordo sw fatto che il pro– blema del potere in fabbrica è un problema di riportare o cli mar.tenere bibliotecaginobianco ad una dimensione umana il lavoro operaio. Ora io non escludo che in certi tipi di aziende, con certi tipi di lavorazione la posizione dell'operaio in fabbrica sia alienante, frustrante e non nego che tale problema fino ad ora non ha trovato soluzione se non sul piano del– le cose più elementari, tipo una mag– gior garanzia di sicurezza fisica, di minore debilitazione, di un certo com– penso finanziario per determinate pre– stazioni pesanti, di una ricerca di strut– ture che permettano una minima par– tecipazione alle decisioni ai vari livelli (in questo campo è comunque dove– roso ricordare che la situazione rap– portata al passato è nettamente mi- Questo dibattito non ha conclusioni : le visioni ivi espresse sono tutte rappre– sentative, tutte significati– ve, eppure rigorosamente incomponibili. Non ci tro– viamo di fronte a ideolo– gie diverse, se per ideolo– gia intendiamo delle pro– spettive sociali definite e costruite. Abbiamo però di– scipline morali e punti di riferimento che allo stato attuale non si presentano come mediabili. Le parti sono chiare : una contestazione delle i– stituzioni proprietarie da un lato, una difesa della ra– zionalità produttiva dall'al– tro. Nessuno difende il si– stema della proprietà pri– vata come tale, lo si pre– senta se mai come l'eser– cizio di una fonna di re– sponsabilità sociale. Ma d'altro canto nessuno ne configura concretamente il superamento: anche la pro– prietà pubblica scotta. Questi sono i limiti cul– turali del dibattito: ma proprio questi limiti lo ren– dono emblematico, simbo– lico delle tensioni, del di– sordine creativo di questo meraviglioso tempo in cui viviamo, un tempo che ve– ramente sembra il giudizio universale dei miti e delle retoriche che li accompa– gnano. gliorata) e che quindi il nocciolo del– la questione, ovverossia la pesantezza psicologica del lavoro operaio, che può tradursi, in definitiva, in noia conse– guente ad una ripetizione costante del lavoro, non abbia trovato adeguata soluzione. Tuttavia non mi pare che su questo problema, che è il proble– ma del futuro, si sia fatta sufficiente luce. Perciò a questo punto mi domando se non si sia in grado di dare ancora soluzione a questo problema perché non si è tenuto conto di un'altra cir– costanza che, a mio parere, influisce non poco sull'approntamento di valide alternative. Posto infatti che il tempo di lavoro per qualsiasi individuo, a qualsiasi livello sociale, tende a decre– scere e quindi ad incidere meno swla vita dell'uomo, c'è da chiedersi se la frustrazione dell'individuo, se la sua alienazione, non sia conseguenza e por– tato della società stessa, che, soprat– tutto in Italia, non è certo struttura– ta per l'indivirtuo. Se ciò è vero allora se ne dovrebbe dedurre che non basta che l'individuo oggi lotti per eliminare le frustrazioni nell'azienda (riuscendo in ciò non so– lo per il suo intervento rivendicativo, ma anche per l'evoluzione che nel frat– tempo ha investito lo stesso impren– ditore, il quale tende ad adottare tec– niche di gestione che riconoscono nel– la partecipazione dell'operaio al pro– cesso produttivo un valore gestionale inconfutabile), ma che è altrettanto imprescindibile egli lotti per trovare un rimedio alla sua frustrazione di cittadino. Il problema, cioè, se l'operaio derivi il suo stato di frustrazione più dal suo lavoro, dalla sua mancanza di petere in fabbrica o se invece non lo derivi dalla sua mancanza di potere nella società è ancor tutto da affron– tare e da chiarire; comunque, ripeto, esso va affrontato soprattutto tenen– do conto dei due fatti già ricordati: primo, che tendenziaimente il tempo dedicato al lavoro sta riducendosi: se– condo, che all'interno dell'azienda qual– cosa sta mutando, anche, ripeto, per il diverso atteggiamento dell'imprendi– tore. Tuttavia tra sindacati, movimento o– peraio e imprenditori permarranno conflitti di interesse anche in avveni– re. L'unica cosa che ci auguriamo è che questa conflittualità trovi modi e si esprima su obiettivi più elevati di quanto non sia avvenuto per il pas– sato. ORSINI - Forse è opportuno un bre– vissimo mio intervento. Ringrazio Pa– parella, Signorini e Schiavetti per il contributo che hanno portato al nostro dibattito osservando che non casual– mente, e questo è opportuno in un di– battito, l'angolazione con cui il tema generale da noi proposto è stato visto è nettamente diversa. Da una parte Paparella e Signorini hanno posto il problema del potere di determinazione della vita aziendale; dall'altra Schiavetti ha posto dei pro. premi generali di igiene del lavoro e di psicologia del lavoro. Si tratta di due angolazioni entrambe valide e, in questa prima tornata in cui chiediamo a ciascuno degli interlocutori di espri– mere il loro punto di vista su un tema che è stato loro precomunicato, sono logiche queste differenti modalità di approccio. Nella seconda tornata cer– cheremo una sintesi tra i vari aspetti in cui necessariamente si articolerà il discorso sw potere nella fabbrica. Con questa premessa do la parola a Ravati. RAVATI - Io qui mi trovo un poco in imbarazzo, con i vestiti abbastanza stretti del contestatore, del rappresen– tante della sinistra extra-parlamentare che in effetti è una posizione abba– stanza equivoca ed ambigua, come equivoca e ambigua è tutta la sinistra extra-parlamentare che, in un certo senso, non esiste. L'unica vera sinistra extra parlamen– tare è la classe operaia nella sua glo– balità; gli unici veri estremisti non so– no i gruppetti storici quali possono es– sere i trozkisti, i bordighisti o i nuovi gruppetti minoritari di stampo maoi– sta: i veri estremisti, oggi, sono gli operai nel senso completo del termine. Perché gli operai sono estremisti? Innanzitutto per la estraneità operaia allo sviluppo capitalistico, che è rima– sto tale nonostante tutti gli ideologi del lavoro che dal '45 in poi hanno cercato sempre di far rientrare all'in· terno dello sviluppo capitalistico le punte di conflittualità operaia che si venivano a realizzare. Estremismo operaio che significa in– nanzitutto resistenza di parte operaia nei confronti della produzione, che og– gi assume delle punte avanzatissime di scontro a livello soggettivo nel lu– glio Fiat ed esprime nell'autunno ope– raio uno dei suoi momenti di ricom– posizione interna organìzzata. Resisten– za operaia che è la maggiore cosa su cui il padronato insiste. L'insubordinazione operaia è l'attac– co allo sviluppo e alla produzione e il rifiuto all'organizzazione del lavoro. Solamente in questi termini oggi si può parlare di potere operaio nelle fabbriche. Quindi non potere operaio in termini democratici, proprio perché un'altra forma di estraneità operaia allo sviluppo capitalistico è l'estranei– tà operaia alla democrazia. Quindi non potere operaio in forme assembleari, perché magari le forme assembleari sono funzionali allo sviluppo del po– tere operaio e quindi della lotta con– tro la produzione, ma potere operaio come unificazione dello scontro a li– vello di classe su un tema unificante, che è il tema unificante del salario, della richiesta di più ricchezza, della richiesta di più reddito: della richie– sta di salario a prescindere dalle esi– genze produttive. A prescindere quindi dalla necessità del funzionamento in– terno, allo sviluppo capitalistico oggi particolarmente presente, cioè quello di una maggiore domanda interna che era già presente prima dei contratti e in cui gli aumenti salariali si ven– gono così bene a sistemare. Natural– mente da parte capitalistica si assiste a un attacco diretto a questo potere operaio reale, a questa estraneità alla produzione e allo sviluppo. Questo si verifica in due linee: c'è = attacco alle condizioni generali della classe, che va Io sappiamo benissimo, dal ta– glio dei tempi al maggiore sfrutta– mento, alla maggiore intensificazione e quindi necessariamente alla maggio– re nocività. Dall'altro lato c'è l'inflazione e la deflazione, come aumento del costo del denaro, come attacco alle piccole e medie aziende e quindi come tenta– tivo di creare la dinamica occupazio– ne-disoccupazione in maniera ancora più generale che è quella della ridivi– sione, della ristratificazione della clas– se attraverso il discorso del valore del lavoro, cioè attraverso tutto il di– scorso delle qualifiche; cioè attraver– so tutto il discorso che è il tipico discorso del sindacato, che prescinde completamente da quella che è la real– tà oggi e cioè che sempre più si va ver– so una tendenza al lavoro generale a– stratto, a un lavoro quindi che da un lato ha la faccia capitalistica della massificazione della classe, ma dall'al– tro ha anche la faccia operaia della unificazione della classe e quindi del– lo scontro collettivo della classe con– tro il padrone. In questo quadro il sindacato fun– ziona. E a questo proposito voglio sgamberare il terreno da eventuali equivoci: ormai è finito il tempo delle contestazioni isteriche del sindacato, contestazioni che nascevano unicamen– te da escrescenze intellettualistiche di gruppi estremistici che in fondo con la classe non avevano a che fare; non nascevano da esigenze della classe rea.– le, ma non erano altro che una proie– zione, per di più abbastanza mistifi– cata, delle esigenze reali della classe. Qui parliamo del sindacato non in termini di tradimento, non in termini di degenerazione, ma parliamo del sin– dacato in termini di funzionalità og– gettiva che oggi esso ha all'interno dello sviluppo capitalistico; parliamo del sindacato come di uno strumento capitalistico oggettivamente esterno al– la classe capitalistica e usato appunto per far funzionare la classe all'interno dello sviluppo. Parliamo del sindacato come strumento sostanzialmente ester– no alla tendenza oggettiva della classe verso il comunismo, e quindi parlia– mo del sindacato anche riferendoci ai paesi socialisti, i cosiddetti paesi so– cialisti naturalmente, dove il sindaca– to viene fatto funzionare proprio in questa direzione, cioè in una direzione di sviluppo capitalistico anche II, cioè sostanziaimente di imposizione del la– voro alla classe. PESCHIERA - E' stato più volte OS· servato che l'esercizio del potere nella fabbrica, in relazione agli interessi e ai diritti dei lavoratori dipendenti, propone una problematica che è co– stante al di là della natura dei sog– getti che riswtano titolari del diritto di proprietà del capitale investito; la osservazione trova una puntuale con– ferma nella realtà del nostro ordina– mento giuridico ed economico, dove l'esercizio del potere propone interro– gati.i comuni a prescindere dal fatto che siano in questione aziende priva– te, a partecipazione statale, municipa– lizzate, nazionalizzate. Del resto non mi riswta che il problema della alie– nazione operaia sia stato valutato di– versamente in relazione alle suddette circostanze. A mio avviso i termini di partenza di qualsiasi questione relativa al pro– blema del potere nella fabbrica sono di per sé indiscutibilmente chiari. L'organismo imprenditizio, o meglio l'impresa, si struttura in relazione ad una tipica finalità; la produzione e la relativa continuità della stessa; il per– seguimento di siffatto obiettivo è per definizione strumentale e necessario in relazione ai fini ulteriori che sono invece per definìzione subiettivi, a se– conda cioè che si ricolleghino all'im– prenditore (profitto) o al lavoratore (retribuzione). Intendo osservare che qualunque sia il grado di conflittualità che ragioni economiche o politiche possano im– porre, resta incontrovertibile il dato logico per il quale le rispettive aspet– tative di chi organizza e di chi è or– ganizzato presuppongono il consegui– mento dell'interesse obiettivo dell'im– presa riconosciuto, come si è detto, nella produzione e nella sua continuità. Senonché si assiste fin dal sorgere della questione industriale alla singo– lare circostanza per cui una parte del contratto, cioè l'imprenditore, gestisce oltre al suo interesse tipico, ma sem– pre subiettivo, costitwto dal profitto, anche l'interesse obiettivo dell'impre– sa, nonché, per certi aspetti, lo stesso interesse del lavoratore; circostanza quest'wtima che perdurerà finché la collettività del personale acquisterà la piena consapevolezza dei suoi interes– si e diritti. Di conseguenza l'altra par– te, cioè II lavoratore dipendente, si tro– va nella perenne situazione di doversi difendere oltre che dalla interpretazio– ne unilaterale che l'imprenditore fa del suo interesse subiettivo (situazio– ne fisiologica) anche della interpreta– zione unilaterale che l'imprenditore fa dello stesso interesse obiettivo della impresa (situazione patologica). Ecco le ragioni essenziali per cui nel nostro Paese si pone in maniera indilazionabile il problema della rifor– ma dell'impresa; problema dal quale lo stesso conservatorismo strisciante di tanta parte della sinistra nostrana mostra cli sfuggire puntualmente. Da altro canto non si pensi che la solu– zione del problema possa essere la-

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