Fine secolo - 21-22 settembre 1985

Il telegrafista di Itaca di Franco SIDDERI I oannis M. era telegrafista ad Itaca. L'uffi– cio del telegrafo è in un edificio di due piani, con un bel balcone bianco e celeste, sul lato della piazza principale di Vathi, la "ca– pitale" dell'isola. Dal balcone si domina il pic– colo porto, in un'insenatura del grande golfo di Molo. Tra una telefonata e un dispaccio Ioannis si affacciava al balcone e poteva osser– vare tutto il movimento della piazza e del por– to. Da un paio d'anni, Ioannis è in pensione e, per occupare il tempo e rendersi utile, ha av– viato una attività di "consulenza burocratica". Aiuta gli isolani a inoltrare pratiche e a pilo– tarle nel labirinto della burocrazia ellenica. Quando Ulisse finì di raccontare il viaggio, nella reggia di Alcinoo, tutti si resero conto che un ospite non comune era giunto fra loro. Alcinoo offrì allora nuovi doni al re straniero e ordinò ai dodici principi di Corfù di offrire un tripode in bronzo: ai dodici aggiunse il suo. Carico di doni Ulisse fu imbarcato per Itaca: si sa che fine fece la barca "dell'accompagno". Non si sapeva invece, che fine avessero fatto i tredici tripodi - e il resto dei doni - che Odisseo appena toccata terra nascose in una grotta (quella delle Ninfe, cui oggi si può accedere per una comoda strada bianca?). Finchè, mi rac– contava una sera l'ingegnere F., l'archeologa inglese Miss Benton, alla fine degli anni '20, non trovò, in una grotta semisommersa, sulla costa nord-ovest dell'isola, dodici tripodi bronzei, di epoca micenea. E il tredicesimo? Dopo lunghe ricerche Miss Benton appurò che era stato venduto, molti anni prima, dal pro– prietario del terreno a persone non identifica– te. Chiedo a Ioannis - la maggiore autorità ar– cheologica dell'isola - chiarimenti sui tripodi. Mi invita a casa sua. Ho così l'onore di cono– scere sua moglie che, appena fatte le presenta– zioni, va in cucina. Ioannis invece mi introduce nella sua biblioteca: un vero archivio di pub– blicazioni, opuscoli, articoli, cartine, materiali di ogni tipo - alcuni con date del secolo scorso - stipati in tre vecchie librerie a vetri. Nèlla ri– cerca delle immagini dei tripodi Ioannis mi fa scorrere sotto gli occhi una straordinaria se– quenza di vecchie fotografie: ingialliti contadi– ni in maniche di camicia e archeologi in pana– ma e calzoni alla zuava che rovistano le pietre di Itaca. Schliemann fu qui, mi racconta, ancor prima della Benton, e cercava la reggia a Aetòs, non a Stavros. E mentre mi espone la sua tesi - opposta a quella della scuola archeo– logica inglese - torna sua moglie a offrirmi un rinfresco: un piattino con marmellata di cilie– ge, e, per l'immancabile sete, un bicchiere di acqua ben fresca. Così, mangiando marmellata di ciliege e bevendo acqua fresca in una splen– dida mattina di agosto fui introdotto ai molti argomenti della contesa fra l'autorevole Scuo– la Britannica e Ioannis, ex telegrafista di Itaca. Ah, i buoni finanzi ., en. di Margherita BELARDETTI I L a gita è molto più lunga del previsto. II• sentiero aie di sbieco, si inabissa di col– po in una via ferrata, torna a salire, ag– gira una valletta. Nel mezzo di una pietraia ri– pidissima, la mia compagna di escursione si la– scia cadere su un masso e dice: «Ho fame». E' al sesto mese di gravidanza, ma ha camminato impavida senza una parola di lamento. Il mari– to lascia vagare lo sguardo impotente sulle pie– tre tutt'intorno: non abbiamo con noi niente di commestibile, sicuri come eravamo di farcela in poche ore. «Non bisogna affamare le donne incinte» dice, alla ricerca di una soluzione. An– ch'io pur non essendo in questo fortunato sta– to, metterei volentieri qualcosa sotto i denti. Puntiamo gli occhi sul paesaggio scabro. Ed ecco, sulla cresta del monte, grigio su grigio, un edificio solido e spigoloso: è una caserma della guardia di finanza, a pochi metri corre il confine con l'Austria. Ci avviciniamo, pieni di speranza, ma il giovane finanziere che staziona sulla porta ci delude perentorio: per i civili non è previsto nessun servizio di ristoro. Ci acca:. sciamo su una panca, vicino alle lapidi di due finanzieri morti vent'anni orsono, l'amica in– cinta lamenta di avere davanti agli occ;hi una nuvolaglia nera e ansima. Il marito allora, dopo breve lotta interna torna a bussare alla porta della caserma e dice -con voce che s'in– crina dall'emozione- «mia moglie è incinta, non abbiamo da mangiare, avreste per caso un pezzo di pane?» (formula la domanda proprio così, implora un 'pezzo di pane', perché nei momenti di intenso patetismo vengono in soc– corso le frasi fatte). Segue un velocissimo interrogarsi con gli occhi fra il giovane soldato e il suo superiore, quindi la poverina, sarei tentata di dire «allo stremo · delle forze», scompare nella caserma. Io e il marito torniamo alla nostra panca, cerchiamo di distrarci osservando minuziosamente un ge– neratore di corrente a pale, i rotoli di filo spi– nato lungo il confine, ci chiediamo come possa essere, giorno per giorno, la vita in un posto così solitario. Intanto dalla finestra della cuci– na, a pochi passi da noi, arriva uno sfrigolare di burro, un fumigare di speck abbrustolito, un rumorino di piatti smossi. Lasciamo trascorrere un lungo quarto d'ora, senza altro interesse per il mondo circostante, concentrati totalmente sulla voragine del lan– guore di stomaco, quando riappare il giovane finanziere e mi chiede rispettoso: «Signora gra– disce qualcosa anche lei?». Intrisa di debolezza e di gratitudine, varco a mia volta la porta del– la caserma e non posso trattenere un sopras– salto di entusiasmo al vedermi davanti una bella stanzetta dalle pareti di legno chiaro, ten– dine celesti alle finestre, un finanziere con un grembiulone che lava mansueto i piatti e, al mio posto a tavola, un piattino decorato su cui sono stati disposti -con grazia femminile- tre diversi tipi di salame, intercalati a listarelle di formaggi, il tutto coronato con un cesto di vi– mini dove il pane è adagiato sul tovagliolo 'a fiori. L'amica incinta sforchetta al settimo cie– lo in un gran piatto fumante, io intercalo ogni fettina di salame con una parola di ringrazia– mento, finché ci viene detto che anche il signo– re di fuori può entrare. Una sensazione di essere capitati, in un film vecchia maniera, dalla parte dei buoni ci riem– pie di sincera euforia, di entusiasmo espansivo. Del salame, del formaggio, del pane e del vino non resta più traccia. Del resto chi riuscirebbe a resistere al fascino genuino di sentirsi benefi– ciati di una azione cavalleresca e alla grandio– sa soddisfazione di vedersi soccorsi -nel mo– mento del bisogno- non con una impalpabile e astratta parola d'aiuto, ma con un bel pezzo di pane e formaggio? FINE SECOLO* SABATO 21 / DOMENICA 22 SETTEMBRE ·23 Amore di lgi CAPUOZZO U na certa dimestichezza con la malattia e i suoi luoghi, le grandi stanze dell'o– spedale, i giardini appartati, i lunghi pomeriggi, e le notti, mi permetteva di ricono– scerlo subito e, in una certa maniera, di predi– spormi a riceverlo e a coltivarlo. Il desiderio era lì, pungente e dispettoso, poco disposto ad accettare rinvii o scuse. Nel cuore della malat– tia nasceva tra le pieghe dei lenzuoli che presto perdevano la ruvidezza dei bucati disinfettanti, e si nutriva del rilassamento del corpo, delle pose che prendeva per sfuggire ai crampi. Cre– sceva, ferita che spurga o febbre che sale, eco delle cose della vita o fuga, fantasma di donna come linea di un fianco, mani energiche che ti scuotono, gioco di controluce su· un camice liso. Qui in città si era presentato con un vestito nuovo e maggiore indulgenza. In un inizio d'e– state improvviso che mi aveva lasciato a suda– re nei miei maglioni di lana era come un'accat– tivante guida turistica, di quelle che ti notano e capiscono che a te, proprio a te, non bastano i bei luoghi della cultura e della storia e ti fanno capire che una sera ti sàpranno indicare altre bellezze, altri segreti. Avresti conosciuto la città in cui vivevi ormai da mesi, l'avresti toccata e si sarebbe rotto il vetro che ti separava dalle persone, dagli og– getti, dai rumori. li primo amore non poteva essere facile. Co– stretto dalla sorte e da una propensione ai lo– cali bui, scovai la più bella ragazza che avessi mai visto. Stava ad un tavolo con delle amiche. Strette strette, erano come un mazzo di carcio– fi. Pettinature sgargianti, abiti che scoppiava– no. I gesti avevano un che di brusco. Lei, era come se un faretto avesse abbandonato l'or– chestra che strapazzava pezzi swing per cercar– la e trovarla. L'avevo trovata anch'io. Abban– donato il banco, come un uccello da preda, mi ero avvicinato. Occhi negli occhi, lei era bion– da, un vestito nero aggraziato. Potevo osserva– re meglio anche le amiche e scoprire subito che erano degli uomini. Travestimenti frettolosi, polsi robusti e qualche ombra sulle guance non resistevano alla vicinanza. Un certo timore che avevo creato al loro tavolo provocò degli atti– mi di silenzio e mi fece udire la sua voce, anco– ra ma'schia. Non credo di aver manifestato al– cunché, quello che mi apparve un ostacolo de– finitivo assomigliava a quello stato d'animo trasognante che ti avvolge dopo un film che ti è piaciuto. Ma sicuramente non mi mossi e lei seppe, alzandosi improvvisamente e salutando bruscamente le amiche, per uscire a grandi passi dal locale, e dalla mia vita, lanciarmi uno sguardo di dolore e più forte ancora di sfida, scrollando con gesto grazioso i capelli. Le risa– te degli amici mi riportarono al banco. E il de– siderio sorrideva soddisfatto dentro di me. Ormai le serate etano calde e il sabato andava– mo al mare. Sprazzi di musica mi attrassero verso un bar di legno sulla spiaggia. Due gran– di altoparlanti, un calcetto, tavole per il win– dsurf, una tenda in cui ci si liberava degli abiti con il telo d'entrata sempr~ aperto. Niente al– coolici, solo qualche birra. E proprio con una · lattina in mano, seduto un po' defilato, il mio costume americano, tutto bagnato, una siga– retta maneggiata con cura, la vidi. I capelli corti da ragazzo, castani che stanno diventan– do biondi, una bocca eccessiva, il corpo magro e muscoloso, la camminata delle donne sulla spiaggia, sedere sporto all'indietro, le gambe a papera, ma forti. Ùiocava a una sorta di ten– nis, con le racchette di legno pieno, tum, tum: Si ferma. Lascia il suo compagno di gioco sen– za guardarlo e punta verso il bar. Mentre sale, libera le spalline del costume, e lo arrotola sui fianchi. Io non respiro. Guardo. Ormai è a po– chi passi, mi sembra di sentire il rumore dei suoi piedi sulla sabbia. Mi guarda e sorride. Mi entra negli occhi, è uno sguardo crudele. Non ha camminato fin qui, ha danzato per una guerra. Mima la resa e mi guarda ancora. Sto al sole ed è un doberman che siede a due metri da me, ansimando lievemente per lo sfor– zo del gioco sulla riva del mare. Il gioco è con– tinuato, fino al calar del sole. Sapevamo en– trambi che c'era l'altro, e lo sapevano i suoi amici che la trovavano insolitamente distratta e negligente. La luce si spegneva e potevo ve– dere meglio i lampi del suo sorriso, inaspettato

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