Alfabeta - anno IV - n. 43 - dicembre 1982

b adatto al nostro inferire che non a se stesso (è il caso, nel filone della detective story, dell'agire assolutamente logico di Sherlock Holmes); oppure farsi carico della caoticità del reale e considerarla parte integrante del processo della conoscenza e della ricerca, rivalutando il sapere creativo e probabilistico della abduzione peirceana. In più parti, nei suoi scritti, Peirce ha dimostrato che è il caso (tichismo) a governare il mondo e che, d'altronde, diventa necessaria per il processo globale della ricerca e della conoscenza una tensione asintotica verso la verità, verso un mondo finalmente logico. Questo movimento della conoscenza individuato da Peirce ha qualche cosa di molto simile alla teoria narrativa che si può 'abdurre' dal breve racconto di Hammett. Se Flitcraft - ricostruendosi una famiglia e un'esistenza simile alla precedente - non ha ripercorso pedissequamente la stessa strada aiutato dal proprio solito sapere, ma ha optato per una rifondazione delle sue conoscenze attraverso, e nonostante, il meccanismo opaco e imperscrutabile che muove il mondo, allora la lezione che ci impartisce Hammett è la lezione stessa della scrittura, dell'immaginario e del viaggio. Il personaggio di Hammett probabilmente sottoscriverebbe il frontespizio del Voyage au bout de la nuit di Céline: « Viaggiare è utile, fa lavorare la fantasia». E se fa lavorare la fantasia, il viaggio è allora in qualche misura immaginario e fittizio, perciò niente affatto diverso, almeno a livello di definizione, dal romanzo e dalla struttura narrativa in generale. Giorgio Ficara afferma (Alfabeta n. 38-39) che non vi è nulla di geniale in un «meccanismo» narrativo, e tanto meno nel far ricorso ad autorità quali Chandler e Hammett per sostenere che ogni romanzo è poliziesco: «Dopo l'Ulisse, si dovrebbe sapere quanto sia falsa e fatua l'idea di scrivere un romanzo che non sia anche un romanzo sull'arte di scrivere un romanzo; entrare nella prima pagina bianca di un libro con la svagata (mai deliberata) jngenuità di chi racconta senza sapere perché e in quale direzione e contro quali forze o idee si racconta». A mio parere, non Joyce è da scomodare, ma la scrittura stessa. È l'esperienza stessa della scrittura a essere un romanzo sull'arte di fare un romanzo, poiché essa è un viaggio fittizio e astorico che ogni volta ricerca le proprie finalità e i propri percorsi narrativi. Da quando si usa la tecne della scrittura si sa, o si dovrebbe sapere, che si compie un viaggio nel contempo reale e immaginario dalla caoticità del reale sino a un prossimo e possibile mondo logico. La scrittura, in quanto attività logica dell'uomo, produce significati e diviene parte integrante del tragitto verso l'asintotico e irraggiungibile tentativo di una adequatio intellectus rei, ovvero del mondo finalmente logico. D al modello abduttivo, creativo, raffinato ma fallibile, a un utopico modello deduttivo, tetragono a ogni sorta di dubbio - questo è il percorso che Peirce intuisce per via logica e che la scrittura mette in atto con svagata, questa volta sl, innocenza. Di fronte ali'enigma messo in atto dal percorso logico-metafisico della scrittura (chi può ormai mettere in dubbio che lo sia, dal momento che lo spossessamento di ogni certezza ci ha costretto a rischiare le nostre interpretazioni, a mettere in gioco il nostro sapere e a produrre sofisticate inferenze abduttive che costruiscono, a piccoli salti, le nostre conoscenze e la nostra-stessa esistenza), ogni racconto può ben essere assimilato a un romanzo poliziesco. Non tanto perché esso compie un piccolo passo dal noto verso l'ignoto, dal caos alla logica (ma, si badi bene, proprio questo è il movimento epistemologico della detection: un viatico di segni, sparsi e disarticolati, che man mano aumentano di numero e significato fino a formare una solida struttura logica in cui rimane intrappolata l'unica soluzione possibile, ovvero 1'assassino), ma perché, lo si voglia o no, vi è una posta, un sistema di valori da salvaguardare e per cui si rischia e ci si mette in gioco sino allo smascheramento del colpevole. Un'altra cosa il breve racconto di Hammett può insegnare. Nella introduzione di Marcus, viene detto anche che per i persoriaggi di Hammett l'importante non è scoprire il colpevole - questione che può essere secondaria, - ma che la catena di eventi che il detective mette insieme, la storia che lui racconta e che non coincide mai con la storia dei vari testimoni o imputati, non sia più plausibile o meno ambigua. In altri termini Hammett non predilige la storia del suo detective: non gli costruisce l'isotopia vincente né lo salva da possibili dubbi. L'opposto, probabilmente, sarebbe chiedere troppo a un uomo che si è reso conto sino in fondo della arbitrarietà casuale della vita, tanto da metterla in atto nei suoi personaggi. Hammett non scrive il testo per difendere i suoi personaggi. La sua grande consapevolezza consiste nel credere che a governare le cose vi sono il caso e la probabilità e che, tuttavia, l'uomo persiste nel tentativo di fondare razionalmente il mondo. In questo assomiglia a Peirce. Come Peirce, egli non può concedere ai suoi personaggi la deduzione se non in un asintoticamente indefinito futuro. Il massimo che si può compiere è costruire una storia, un racconto, attraverso e nonostante lo sconclusionato agire del reale. DiscussiopnerSpinoza Spinoza nel 350" della nascita Convegno presso l'Università di Urbino, Istituto di Filosofia (Urbino, 4-8 ottobre 1982) S pinoza segno di scandalo. Non è una novità: lo fu in vita, per cristiani ed ebrei, lo fu tra fine Settecento e inizio Ottocento nella sua riscoperta nell'àmbito della filosofia tedesca, lo sarà ancora nelle riprese così differenti di Marx e di Nietzsche, e poi ai giorni nostri, nella revisione antifinalistica del materialismo marxista operata da Althusser e dalla sua scuola. Perché, appunto, materialismo, ateismo e rigetto del finalismo sono elementi differenziali e costitutivi di un pensiero tanto fortemente anticipatore e originale quanto destinato a fraintendimenti e censure. Il convegno dedicato al 350" anniversario della nascita di Spirtoza, svoltosi a Urbino nei giorni 4-8 ottobre di quest'anno per iniziativa dell'Istituto di Filosofia di quell'università, diretto dalla professoressa E. Giancotti, oltre a presentare un'ampia rassegna dello stato dei lavori critici a livello internazionale', ha affrontato con decisione i filoni più provocatori del pensiero di, e del dibattito su, Spinoza, con una vivacità non sempre abituale in tal genere di riunioni. L'ateismo di Spinoza è stato efficacemente rivendicato da E. Giancotti. con una dettagliata analisi di alcuni concetti-chiave spinoziani che inibiscono qualsiasi comunanza fra il termine «Dio» (che pure ricorre) e il Dio della tradizione filosofico-teologica occidentale. L'estensione-materia è posta infatti come attributo di Dio (i corpi sono dunque «modi di Dio». considerato come cosa estesa); la creazione è sostituita dalla causalità immanente (dove la causa produce i suoi effetti producendo se stessa, come conseguenza necessaria della propria natura, ed è esclusa ogni creazione dal nulla); e vengono rifiutate le tradizionali caratteristiche del Diopersona: l'intelligenza, la bontà, e la libertà (di mutare l'ordine secondo il quale tutto ciò che è segue dalla sua essenza). La libertà divina - esattamente all'opposto del libero arbitrio - si identifica con la necessità della natura e perciò preclude ogni immagine finalistica, che presupporrebbe un'intelligenza e una volontà tesa alla realizzazione di uno scopo arbitrario. Non sola lo qui si dà un'esplicita negazione del miracolo e della provvidenza divina, ma si costituiscono le condizioni di lungo periodo per la critica di ogni antropomorfismo filosofico del soggetto e della finalità, di evidente rilievo anche per il futuro materialismo. Particolarmente stringente, infine, è la confutazione di qualsiasi tentativo di interpretare alcuni termini spinoziani («amor erga Deum», «amor Dei intellectualis») in senso personale. «L'amore verso Dio riguarda infatti la mente in quanto idea del corpo riferito a un tempo e a un luogo determinati, l'amor Dei intel/ectualis riguarda la mente in quanto idea del corpo contenuto in Dio e da Dio derivante ... L'amore verso Dio è l'amore della mente che nasce dalla conoscenza di sé e dei propri effetti, nel contesto dunque delle relazioni che ha con gli altri corpi e le altre menti, l'amor Dei intel/ectualis è rivolto a Dio in quanto eterno, nasce dalla conoscenza delle cose sub specie aeternitatis, cioè nel loro legame necessario di identiià con Dio». L'amore intellettuale della mente verso Dio è parte integrante dell'amore intellettuale infinito con il quale Dio ama se stesso, «ossia, come le menti umane in quanto conoscono secondo il terzo genere di conoscenza [cioè: sub specie aeternitatis] costituiscono Aligluero e Boelli, Mappa ( /969) Augusto llluminati 'tutte insieme' l'intelletto eterno e infinito di Dio, così l'unione degli amori che accompagnano tale forma di conoscenza costituisce l'amore intellettuale infinito di Dio». In una interpretazione 'laica' questo amore «è semplicemente la gioia di cui gode lo scienziato quando intende le leggi necessarie immanenti nell'universo e le individua nelle cose in rapporto tra loro, cose di cui egli stesso è una, sottoposta alle stesse leggi... Il Dio-Natura è l'universo stesso con il suo ordine necessario», incompatibile con il Dio della tradizione giudaico-cristiana, ma anche di Cartesio e di Leibniz, anche se si mantiene un termine equivoco - come del resto è abituale nel «double langage» inevitabile per un ebreo del XVII secolo (Misrahi), e soprattutto è proprio della tradizione «marrana» cui Spinoza apparteneva (cfr. la suggestiva relazione di Y. Yovel). G li aspetti più specificamente politici del pensiero di Spinoza sono stati affrontati efficacemente da Balibar, Macherey, Moreau e Matheron. Quest'ultimo, nella sua relazione su Stato e moralità in Spinoza, dopo aver ricordato i termini in cui il filosofo indica la genealogia dell'illusione finalistica, ricostruisce la conseguente demolizione di ogni teoria dell'obbligazione morale in materia di Stato - una nozione comune a san Tommaso come a Hobbes (per non parlare dei filosofi avvenire ... ). Infatti, tutti questi filosofi immaginano che esista un modello di natura umana che gli uomini sono destinati a realizzare, e ovviamente la società politica diventa uno dei luoghi privilegiati di tale operazione (che esclude i dissenzienti come devianti o peccatori). Di qui l'obbligo di stringere una società politica e poi di articolarla secondo uno schema variabile da filosofo a filosofo. In realtà, i modelli ideali della natura umana sono semplici modelli operativi, senza consistenza ontologica che ne faccia un effettivo fine per tutti gli uomini; e vi sono soltanto desideri che gli uomini vogliono realizzare, e fra essi quelli «razionali» non godono di particolare privilegio ontologico. Ogni conatus, anzi, esprime la potenza divina. In tali condizioni di presa d'atto del carattere (inevitabile e) immaginario del finalismo, «è impossibile spiegare l'esistenza della società politica e le condizioni del suo buon funzionamento deducendole da una norma morale che essa avrebbe la funzione di realizzare. Non esiste una funzione morale dello Stato: pretendere il contrario equivarrebbe a dire che lo Stato esiste per soddisfare i desideri del filosofo, poiché il modello ideale della natura umana altro non è che la proiezione di questi stessi desideri». Al contrario le cause dello Stato devono essere ricercate non nella razionalizzazione dei desideri dei filosofi', bensì nella natura e condizione comune degli uomini in quanto esseri dotati di passioni. «Spinoza non vuol dire, come quasi sempre si pretende, che lo Stato è necessario per obbligare uomini passionali a vivere conformemente a ragione, ma semplicemente: per il solo fatto che gli uomini sono passionali, per conseguenza necessaria del gioco stesso delle loro passioni, lo Stato esiste»'. La sovranità è quindi ricondotta geneticamente in Spinoza alla potenza della moltitudine, il cui uso è accordato al sovrano e di cui egli si serve per ispirare altrettanto timore a ogni membro della moltitudine, così da estorcergli il rinnovo della delega: «lo Stato sussisterà quindi fin tanto che funzionerà questo meccanismo autoregolato con cui si definisce la sua potenza stessa». Tale autoregolazione comporta naturalmente che il governo si regga non solo sul timore ma sull'interiorizzazione delle norme da parte dei sudditi, proprio utilizzando la religione e l'ideologia finalistica. È lo Stato che, per sopravvivere, deve necessariamente produrre, nella coscienza stessa dei suoi sudditi, le pseudo-virtù dell'obsequium (volontà costante di rispettare in ogni circostanza il diritto positivo) e della giustizia. «Di qui l'apparizione necessaria, nell'interiorità di ogni suddito, della forma della coscienza morale, condizione indispensabile della sopravvivenza a lungo termine dello Stato». Straordinario capovolgimento materialistico, invero, dell'eticismo politico-statuale, ancor oggi - esplicitamente o implicitamente - tanto diffuso'! Il filosofo politico normativista si illude proprio perché parte dalla sua interiorizzazione dei comandi statali in farnia etico-finalistica. Per uscirne bisogna smetterla di considerare le norme come qualcosa di «imposto dalla nostra parte superiore a quella inferiore». Con la conoscenza sub specie aetemitatis «l'illusione della normatività sparirebbe completamentè: noi saremmo al di là del bene e del male». Ma a questo lo Stato è del tutto inutile: «anche il migliore Stato

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