Alfabeta - anno IV - n. 43 - dicembre 1982

Ladanzadegliassessori isogna ritenere che la danza in B Italia abbia già esaurito, nella effimera fagocitazione delle novità provenienti dall'estero, l'età d'oro dei suoi ultimi cinquant'anni? In vista di una nuova stagione che comincia e. che non esitiamo a definire depressa, emergono i sintomi di un inarrestabile processo di istituzionalizzazione. La tendenza che si profila è il ritorno alle grandi sicurezze; l'obiettivo è un perentorio «rappel à l'ordre,. dopo tentativi tanto stentati quanto privi di finalizzazione di rincorsa pseudoculturale e di adeguamento a modelli stranieri più avanzati. Forte di un consenso che non è diminuito nella stagione estiva - presentatasi al solito in forma di «grande bouffe,., ma predeterminata, già anticaotica e segnata dall'abolizione di incongruenze e impertinenze nell'accostamento dei generi di danza, - l'istituzione ripiega progressivamente sulla normalizzazione. Sceglie e seleziona senza rischiare, e quando si impegna in progetti nuovi non esita a investire su quelle presenze per lo più straniere che avevano già dimostrato di saper sostenere il mercato commerciale. Eppure, solo tre anni fa, la casualità degli interventi di danza nei cartelloni teatrali, l'arditezza - al di là delle specifiche intenzioni - di programmi multidisciplinari e pluristilistici (c'è -danza e danza) avevano garantito la relativa autonomia del giovane settore rispetto agli altri generi dello spettacolo. Un'autonomia di scelte di tipo fortemente agnostico, indifferente persino ai guizzi contestatori di un pubblico digiuno ma curioso, alle contraddizioni, ai vuoti di cassetta. Quando Pina Bausch non era ancora un nome di richiamo nazionale, i teatri che l'accolsero per primi opposero critiche magnificatorie all'accoglienza fredda, di pura cortesia, del pubblico; e spesso, ignorando la portata dell'importazione, collocarono la tedesca in una normale programmazione di teatro, danza, musica come solo oggi, certo alla luce di più accorte riflessioni, sembra essere appropriato per una fruizione distesa del suo progetto di teatro-danza. Quando il fiume di importazioni dall'America non aveva alcun filtro selettivo se non l'(obbligatoria) etichetta di provenienza, si vide più danza selezionata di quanta non se ne veda ora che le importazioni sono frequentissime - ma filtratissime, funzionali a un progetto di riconferma, di ridondanza di linguaggi scontati e spesso banalizzanti anche l'accezione di «nuova danza,.. Infine, quando gli spettacoli prodotti da gruppi e performers italiani non erano stati ancora pregiudizialmente ghettizzati nell'alveo della seconda e terza categoria, mantenendo perciò una relativa libertà di circolazione, essi si poterono garantire quel diritto all'esistenza (quanto meno fisica, se non culturale) che molti organizzatori, esperti e addetti oggi non sono più disposti a riconoscere loro. incorso dai mass-media ma sal- R vato da se stesso perché espressione di un apparente vuoto di potere, il cosiddetto boom della danza ha creato paradossalmente una sorta di limbo felice, di smottamento del terreno, arido da vecchia data, per inL.,, ..., -C'""~ n ba nesti antitradizionali, confronti, sconfinamenti. Tanto è vero che, nell'àmbito del teatro, la danza nella sua accezione più ampia - da gesto a movimento, raccordo con lo spazio, tenuta scenica di tipo non attorale, fino a impostazione o semplice atteggiamento di danza - è diventata metro di misura di un ipotetico grado di novità, se non addirittura garanzia, specie per molti giovani gruppi teatrali, dell'essere «in,. avanguardia. Più in generale, la nuova attenzione al corpo e alla danza ha aperto inesplorate vie di ricerca nell'arte contemporanea italiana. Tra le più feconde e già in parte collaudate, la riscoperta di un'affinità elettiva sedimentata dal tempo dei greci-: e rispolverata con punte di grande interesse dal futurismo italiano - tra poesia e danza, come possibile costruzione e non ricostruzione archeologica di un linguaggio contaminato e trasgressivo, per il futuro. Naturalmente, assai poco di questo Marinella Guatterini materiale inedito e di queste sollecitazioni culturali è stato accettato per ora. Esauritasi, come pare, la fase del fenomeno, della moda «di moda» (presso i mass-media la danza come stimolante capace di riempire teatri non fa più notizia). !"organizzazione istituzionale ha preferito ghettizzare queste espressioni di cultura viva in un'area marginale, incapace di porsi come interlocutore privilegiato o sostituto di un ipotetico testo sacro e incontaminato appartenente alla tradizione. E le lagnanze sui desolati casi della danza in Italia potrebbero estendersi alle responsabilità della critica. Dapprima sconcertata di fronte all'inatteso boom, aveva fatto ricorso ad analisi accurate per motivarne l'andamento caotico, l'innesto in un terreno culturale digiuno da anni, arretrato rispetto a molti altri paesi, privo di strutture. Aveva giustamente lamentato il disinteresse atavico dell'intelligenza nazionale. Ora, privilegiando l'aspetto negativo del fenomeno neoesploso rispetto ai potenziali germogli di una nuova attenzione e produzione italiana di danza, ha per lo più continuato a eludere domande molto elementari che lo stesso pubblico si pone (a uno spettacolo di danza, d'accordo, ma per vedere la danza o i danzatori, il balletto o i ballerini?), evitando nuove possibilità di lettura dello spettacolo di danza per mantenere permalosamente in piedi l'universo delle antiche categorie di giudizio, intaccati i capisaldi della storia del balletto, ripetute sino alla noia certezze empiriche. Valga per tutte il far risalire all'epoca del «ballo grande» (Excelsior in testa) il deprecabilissimo gusto all'italiana, quando non esiste un'analisi sufficientemente accurata di questa presunta ignobile epoca ballettistica, semmai una stimolazione culturale di segno nettamente opposto, rivalutante, che altri etnomusicologi e musicisti hanno più coerentemente tracciato. ggi questa critica parla di disfal- o ta - giustamente. Ma quale sia stata la sua opera di stimolo culturale e non solo propagandistico nei confronti, ad esempio, di gruppi e danzatori italiani rimane ancora piuttosto oscuro; quali scelte di campo, quali tendenze vive abbia seguito, idem. Nell'amorosa ripetizione che la danza è bella, liberatoria, genericamente futura e da promuovere ovunque, nel più lontano e sperduto paese come nella metropoli, in una capillare e senz'altro meritoria opera di divulgazione storiografica, ecco esaurito il compito della riflessione (o nuova riflessione) che invece sembra ancora da iniziare. Ad esempio consideriamo quanto, e se sia davvero, frenante l'atteggiamento delle istituzioni rispetto alle aspettative di un movimento di interesse proiettato verso l'accertàmento che la danza, con i suoi gesti, le sue posizioni, movimenti e qualità di movimenti, sia davvero cruciale per la continuità culturale di un'epoca come la nostra. Questo accertamento, naturalmente, non può avere luogo laddove non sì·produce cultura contemporanea, ma dove semmai si raccolgono consensi intorno alla cultura del passato. Ancora: è possibile imputare ai corsi e ricorsi storici dell'organizzazione culturale stabilizzata, alla sua maggiore o minore flessibilità, la mancanza di tendenze italiane contemporanee nella danza, di momenti di produzione autonomi, culturalmente affrancati dal più facile riferimento a modelli antichi o appartenenti a culture coreutiche oggi trainanti sul piano commerciale come l'americana e l'emergente tedesca? Se non si è mai visto che movimenti artistici di rottura come il cosiddetto neoespressionismo abbiano trovato un riscontro immediato nell'ufficialità, è bene ricordare le caratteristiche di rigore e di non-contaminazione che hanno dato una spinta originale e propulsiva a questa ricerca. Ricerca inn·estatasi in un momento di decisa conservazione, di barriere inespugnabili erette sin dal primo dopoguerra da critica e cultura accademica nei confronti di tutta quella danza che aveva un pur vago sentore di espressionismo. Il fatto che nel giro di pochi anni questa corrente sia stata non solo assimilata ma rivalutata addirittura nei termini di gloria nazionale è problema che non riguarda il dato artistico in sé, ma la sfera delle convenienze dell'istituzione, la sua logica naturale, estranea alla produzione dissacrante e all'avanguardia, ma non pregiudizialmente contraria alla sua divulgazione. È dunque potenzialmente indifferente ai fini di una produzione nuova e italiana che l'istituzione si ricicli ìn boom per venire finalmente incontro a una domanda particolarmente pressante da parte del pubblico o che, come succede oggi, rifugga da ogni 1 apertura riscoprendo le comodità linguistiche del passato, dal repertorio alla «modem dance» più conosciuta e commerciale. . L'epoca d'oro della danza dovrebbe essere un momento totalmente scollato dalle vicende alterne del normale mercato culturale, le cui contraddizioni, mode, intrighi e seduzioni le saranno estranee. Quest'epoca d'oro deve ancora venire. Se verrà.

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