rezza finanziaria postbellica, pur di assicurarsi lo smantellamento della «preferenza imperiale,. e lo sbocco commerciale nei mercati dell'area della sterlina. Il problema vero è la scelta tra indirizzi di politica generale. O l' «Angolo della Fame", come lo chiama Keynes, cioè la pianificazione statuale del commercio estero con la possibile conseguenza - per un paese dalla struttura economica come quella inglese - di perdere nella stretta dell'isolazionismo economico la dimensione di potenza mondiale nonché di rischiare - cosa, se possibile, anche più sgradevole - la disruption sociale all'interno. (È il «modello russo», spiega Keynes tanto per essere chiaro, quello che i «quasi comunisti», non però i laburisti, vogliono). O una qualche variazione dell'alternativa «Tentazione,. (Temptation), cioè l'abbraccio travolgente dello zio Sam, che però, «proprio perché non è uno zio Sap (scemo)», comporterà la inevitabile subordinazione inglese nella «costruzione di una economia internazionale del tipo di quella che gli americani hanno in cuore». «Il filisteo inglese e borghese confesso», come l'aveva chiamato Lenin nel 1920', che pure aveva avuto in passato momenti passeggeri di disillusione e di «quasi bolscevismo», traccia ora con cura la rotta verso la conservazione del sistema sociale anche a prezzo dell'Impero. La situazione è drammatica e urgente. insiste Keynes. Nell'architettura del mondo postbellico, pur affollata di grandi ma incerti progetti, restava il vuoto del breve termine, dove inevitabilmente si fissa la sua attenzione, e della individuazione delle condizioni politiche immediate della stabilità sociale. Le buone parole non servono, illudersi è pericoloso. «Se per un qualche sfortunato errore geografico», arriverà a dire questo anomalo funzionario dello Stato, a guerra in corso, «le forze aeree americane (è troppo tardi adesso per sperare ancora qualcosa dal nemico) dovessero distruggere ogni singola fabbrica sulla costa nordorientale e nel Lancashire (a un'ora in cui i dirigenti fossero seduti al loro posto e nessun altro), noi non avremmo nulla da temere. Come altro faremo per recuperare quella pimpante inesperienza che è necessaria, così pare, per avere successo, è cosa infatti che non riesco neppure a immaginare» (Coli. Wr. XXIV, p. 262). Se nel 1917 i suoi «pensieri di Natale» indugiavano sulla imminente «scomparsa dell'ordine sociale che abbiamo finora conosciuto» e sul fatto che altro non c'era da fare se non «esser allegramente bolscevichi... dato che chi ci comanda è tanto incompetente quanto è insensato e corrotto» (Coli. Wr. XVI, p. 215), ora il fatto nuovo è che tra «chi comanda» c'è lui stesso. È a lui, infatti, che l'emergenza per l'interruzione dell'assistenza bellica americana, in congiunzione con l'assenza di una politica laburista c;lieconomia internazionale, consegneranno straordinari poteri di decisione e gli permetteranno nei tre ultimi, cruciali, mesi del 1945 di --<wraintenderea WaDiplomaticamente, mi pare, ha poche qualità. Non gli interessa affatto - come a quell'altro plenipotenziario famoso (ma in realtà con assai minori poteri): il «segretario fiorentino» - trarre lezioni di arte politica e cogliere «regole generali» dall'esperienza diretta della macchina governativa con cui entra in contatto. Stenta perfino, si direbbe, a intendere le regole interne ed effettive del funzionamento dell'apparato decisionale americano. Né ha il gusto - presente invece nei suoi saggi biografici - di capire fino in fondo l'interlocutore politico che ha di fronte, di anticiparne le mosse, di prevederne - nella ricostruzione del suo EuKenw \fu, 1111 \lappa 1m11rn:1,mal, d, I 1n11::e f J<r2, shington allo storico «riorientamento» delle relazioni anglo-americane nel dopoguerra. «L'impegno più duro» confesserà al suo migliore confidente, sua madre, «che io abbia mai avuto». eynes «plenipotenziario» è un K soggetto non facile da decifrare - soprattutto per una certa «schizofrenia» che lo porta continuamente a sovrapporre e a faticosamente disgiungere, da politico, gli interessi del suo paese e, da scienziato, quelli dell'intero sistema internazionale, - ma è soggetto fondamentale per cogliere le origini della «special partnership» e la transizione agli allineamenti politici del dopoguerra. Gli fa velo, probabilmente, la sua antica e invincibile «keynesian hybris» (Maier), un miscuglio di «maleducazione» - per cui aveva negli Stati Uniti una terribile e fondata reputazione (Coli. Wr. XVI, p. 264) - e di avversione quasi ideologica o perfino etica per ogni forma di convenienza e utilitarismo. Quando Vinson, nel corso dei negoziati, prospetta un maldestro esempio, per sostenere una argomentazione tuttavia fondata, Keynes lo fulminerà con una storica battuta. Vinson: «Non mi è chiaro cosa succede al titolare del potere di deroga se dovesse accadergli qualcosa affatto imprevisto ... Supponiamo che si trovi un miliardo di dollari in una cava... » Keynes (come un lampo): «Signor Segretario, sono disponibile subito a includere nel trattato una clausola che comporti l'annullamento immediato del potere di deroga, se noi troviamo un miliardo di dollari in una cava ... » (Clarke, 186/63) Politicamente, però, il senso di orientamento di Keynes «plenipotenziario» è limpidissimo e perentorio. E non possono non venire qui alla mente le osservazioni, isolate e acute, di Antonio Negri sul filo rosso della «continuità» di Keynes e sul keynesismo come tecnica di rianimazione. Keynes sa riconoscere bene, dentro l'involucro del «globalismo» e del «multilateralismo» del Tesoro ameri- ,, ""r ·;.r"" ,. • ~ V ~- '1f~ .. ~ .~. ·" !" • ,;.~ ""''"" ~.(. un potere economico in ascesa. Proprio come per l'Inghilterra di un secolo prima - con un meno forte e certo più diffuso convincimento, - vale per gli Stati Uniti la massima: «Quel che va bene per noi, va bene per tutti». Keynes sa calcolare con precisione il prezzo da pagare - la dimensione imperiale dell'Inghilterra - per conservare la stabilità sociale, e presenta il conto al governo laburista con accuratezza statistica. La collocazione formale di «tecnico» e di «economista» entro cui opera nell'apparato decisionale, lo assolve dall'elaborare le «valutazioni politiche» che spetterà poi fare al Foreign e al Colonia! Office. Siano pure loro a sbrigare queste formalità, dopo che le decisioni economiche fondamentali sono state prese. Marxista nei fatti, Keynes, dal Tesoro, liquida un impero. Lascerà un q~adro politico incredibilmente ribaltato. I conservatori che parleranno come laburisti (e si affanneranno a ricordare gli impegni pubblici delle Trade Unions alla fine del 1944 per «una regolazione e un controllo pubblico del nostro commercio estero», e a rammentare perfino il senso della vittoria laburista alle elezioni e cioè «la determinazione della classe operaia di questo paese a non sottomettersi nuovamente ai capricci imprevedibili di una economia mondiale non pianificata. Quel che i lavoratori avevano richiesto» tuonerà Amery «era ... un controllo nazionale sull'intera area della politica economica e monetaria»). E i laburisti che appena in luglio erano entrati in Parlamento cantando l'Internazionale, e che ora ce~cano nella politica estera i toni e le ambiguità di una «linea bipartitica» e la conservazione di una caratura mondiale in partnership con gli Stati Uniti, a spese anche della prospettiva europeistica. Storiograficamente, si è detto, tutto ciò ha prodotto per anni silenzio. Oppure, il che tutto sommato è anche più deprimente, ne è uscita l'immagine distorta ma ostinata dell'uomo di buone intenzioni tradito dalla realtà dei fatti. La «palese stanchezza», come ci racconta Catalano, di chi, «giunto ormai altermine della vita, si accorgeva di essen,i battuto invano per far trionfare una nuo,a politica economica» L'edizione delle opere complete di Keynes, in particolare delle «attività» di guerra, ha ora posto fine alla triste ma nobile leggenda. Con questo strano plenipotenziario bisognerà rifare i conti. E in una rappresentazione meno lirica delle origini di questo quarto di secolo di egemonia americana, si dovrà assegnare al personaggio una parte meno nobile, più incisiva. Note (I) Al lettore italiano la Rivista !tttemazwnale di Scienze Economiche e Commerciali aveva fornito, già nel 1977(anno XXIV, n. 1), il testo inedito di questo documento «magistrale• (Harrod. Clarke). (2) L'inve11ivaleniniana, assente nella prima edizione dell'Enciclopedia sovietica del 1936, si può ritrovare nella seconda edizione del giugno 1953.Tra le poche cose che Lenin mostrava di apprezzare nel Keynes del primo dopoguerra, c'era l'«_eccellente consiglio» di non pagare i debiti di guerra. (3) Su questo tema, cfr. G. Ferrari Bravo, Le «Riflessioni a caso dopo una visita negli Stati Uniti» di J.M. Keynes, in Rassegna Economica, novembre 1979, n. 6. Vogliounatt~~Mm!,eraviglioso Paul Morrissey Forty Deuce (Usa, 1982) al Festival Internazionale del Cinema Giovani (forino, 25 settembre - 3 ottobre 1982) ste. Sono out, «fatti» per la maggior parte del tempo. L'arte moderna è una cosa stupida. Il suo scopo finisce quando cessa di provocare, di offendere il pubblico: e in qualche anno l'offesa si stempera e l'opera non fa più nessun effetto. A inventare tutto sono i giornalisti, che cercano dispeM orrissey. Ho cominciato faceo- ratamente qualcosa di nuovo su cui do film. Aiutavo Aody Wa- scrivere. Ma è cosl noioso vivere in rhol nella realizzazione: lui era questo mondo dell'arte moderna ... lo alla camera, io al suono e alle luci. vi ho vissuto per anni, e poi ho scoCootinuando a occuparmi di cinema, perto che è tremendamente vuoto. È ho capito che per questo tipo di film meglio affrontare questo mondo sperimentali è molto importante la quando si è giovani per capire subito scelta dell'attore. La recitazione è es- quanto è stupido. La ricerca della nosenziale, molto più importante di vità è assurda, non porta a niente di quanto si pensi normalmente. Il mio buono. I grandi film italiani non hancampo d'azione in ogni modo è il ci- no niente di nuovo. Quando Fellini ha nema. Non mi sono mai interessato cercato di fare qualcosa di nuovo è all'arte moderna e non ne sopporto il diventato noioso. I grandi film non mondo. Più comprendi il suo schema sono mai stati nuovi e non diventano e più capisci che è infantile e banale. mai vecchi. Guardate George Cukor! La gente che vive in quel mondo si Un film trae la sua forza dal cast, ha annoia sempre di più, si ubriaca, è l:f\- bisogno di una buona storia, di buoni 1a r personaggi recitati da grandi attori. D. Qual era il suo ruolo nella Factory? Morrissey. Non esisteva una vera e propria Factory. C'ero io che facevo i film ed ero una sorta di manager dello studio di un artista. Andy invece si ,. o x-~_J s - ~ ~"~~ ,:, -'li ~ :,::./~1~ ....... i. § ; ~· ~ • s) ~] .... _"'DI ~- ~C-5 \IMII...,,~ -· • ~L-=--."""'l~t Giuseppe Chiari, Studi su Firtnze (/982) ~ 1occupava quasi soltanto della sua attività di pittore. D. Lei ha dapprima collaborato ai film di Warhol e poi realizzato dei film personalmente. In cosa si differenziavano queste due fasi della sua attività? Morrissey. Era un lavoro molto simile. In Chelsea Girls Andy voleva che non vi fosse storia. Così si doveva fare una storia senza storia. Chelsea Girls non aveva un filo narrativo unico, ma molti. Non c'era inizio né fine, ma solo tante azioni che si intrecciavano. Andy preferiva mescolare molte cose, una storia unica lo annoiava. Ma dopo Chelsea Girls e Four Stars non c'era più spazio per i film non narrativi. Per questo Andy smise di fare cinema e io cominciai a fare film narrativi. lo penso, infatti, che ogni film abbia bisogno di una storia chiara, che appassioni e che tutti possano seguire. Questo passaggio al narrativo rifletteva anche l'esigenza di allargare il pubblico. I film di Andy non avevano una distribuzione, mentre Trash ha avuto una distribuzione commerciale internazionale. Non era divertente vedere i film di Andy. Era solo interessante. Ma non si poteva pensare di invitare un vasto pubblico a guardarli. Tuttavia gli esperimenti con Andy mi hanno dato un sacco di informazioni su diversi tipi di recitazione. Se non avessi lavorato con Andy ai suoi film non narrativi, non avrei imparato quello che ora so sulla recitazione. D. La sua opinione sulla Factory è ora negativa? Morrissey. No, per nulla. Andy era uno straordinario catalizzatore, una persona che correva i suoi rischi, che non si tirava mai indietro: uno non dogmatico, con un grande gusto per la ricerca. Lavorare con lui è stata la cosa migliore che mi sia capitata. Anche se adesso lo considero un po' infantile. D. Come venivano realizzati i suoi
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