Alfabeta - anno IV - n. 41 - ottobre 1982

I classici dei classici. rimmelshausen e avventuroso Simplicissimus traduzione di Ugo Dèttore e Bianca Ugo a cura di Emilio Benfatti Catullo Poesie a cura di Francesco Della Corte Joyce Fmnegans Wake H.C.E. traduzione di Luigi Schenoni introduzione di Giorgio Melchiori Cechov Il gabbiano ZioVanja Tresorelle Il giardino dei ciliegi a curadi GerardoGuerrieri jin Pàvlocit (Grano rosso, li volo dell'uccello morto, Caccia all'uomo), gli altri Rajko Grlit (Vada come vada, Si ama una voita sola) e Zoran Tadit {li ritmo del delitto). Questi tre nomi vanno ad aggiungersi a quelli già noti di Lordan Zafranovit { Occupazione in 26 immagini, La caduta dell'Italia) ed Emir Kusturica (Ti ricordi Dolly Beli) presenti a Venezia l'anno passato. L'immagine che ne risulta complessivamente è quella di una rivisitazione dei temi della guerra, della resistenza, della collettivizzazione delle terre e dell'urbanizzazione, in una chiave che trasfigura questi soggetti in immagini interiori dei propri autori e anche, in un certo senso, delle condizioni di vita del loro paese. Non mi riferisco solo alla camera a mano o comunque perennemente in movimento di Zafranovit, occhio deformante che ripercorre le atrocità della guerra e della resistenza in una sorta di cinema della crudeltà. Mi riferisco anche e forse più alla durezza di un autore come Pavlovit, al suo cinema essenziale, che rifiuta la psicologia e predilige racconti secchi, intrighi giocati in superficie, narrati con un montaggio veloce e senza «ornamenti»; un cinema che proprio attraverso questa sua essenzialità perss:gue una critica impietosa e serrata di certe forme culturali iugoslave, cogliendo in particolare i problemi del passaggio dalla cultura contadina a quella dell'urbanesimo e dell'industrializzazione, o rivisitando gli ideali della resistenza o della collettivizzazione agricola, in una precisa operazione di demolizione della figura dell'eroe positivo, strumento della retorica e dell'apologetica del realismo socialista. Una strada, questa, che in modi diversi è stata seguita anche da Grlit e da Tadit. Il primo, dopo un esordio un po' «scapigliato• e un po' «nouvelle vague», accentua nel suo terzo film {Si ama una volta sola) il tema dello scontro tra idealità rivoluzionaria e complessità delle situazioni reali, dando vita a personaggi caratterizzati da un romantico vitalismo e segnati, al fondo, da una sorta di fatalismo in cui si mescolano l'utopia, la rivoluzione, la malinconia, la resistività di certi aspetti della cultura borghese, il pericolo del burocratismo. Quanto a Tadit, il suo li ritmo del delitto può considerarsi una specie di sottile veleno insinuato nell'immagine tutto sommato rassicurante che la società {e non soltanto quella iugoslava) vuole proporre di sé a se stessa attraverso i miti del progresso e dello sviluppo razionale e ordinato. Anche attenendoci soltanto a questi film e a questi autori, possiamo dire insomma che l'immagine che ci dà di se stessa la cinematografia iugoslava è quella di un cinema aspro, che fa solo rare concessioni al sentimento, che non disdegna le emozioni forti e che, se è ancora alla ricerca di una vera e propria identità, si presenta comunque come elemento stimolante del dibattito culturale di quel paese. E questo anche sul piano sociale: attraverso questi film, infatti, vengono alla superficie problemi di rilievo, per esempio quello del rapporto tra i sessi, un rapporto che, a differenza di quanto osservato per il cinema sovietico, presenta ancora i limiti propri di un lungo e difficile processo di superamento della tradizione contadina. La donna è sistematicamente sottoposta a violenza e la sua dipendenza economica dall'uomo è ribadita in più occasioni, almeno nei film {e non sono pochi) di ambiente rurale. Ma le indicazioni più interessanti sulla funzione della cinematografia iugoslava nel dibattito culturale le troviamo, a mio avviso, nella produzion,e critica e teorica. Una prima osservazione, obbligata per chi legga la selezione di saggi tradotti nel libro di documentazione della mostra (Iugoslavia.· il cinema dell'autogestione, Marsilio), è che il corpus teorico che vi appa- . re può essere ricondotto a un'unica linea, antitetica a quella che percorre i saggi critici. Mentre infatti quest'ultima sembra fortemente segnata da preoccupazioni ideologiche e politiche che tjvvicinano ancora a modelli zdanovisti, la produzione teorica appare segnata dalle aperture di una semiologia impegnata in rielaborazioni talvolta originali delle posizioni francesi, italiane e inglesi. Valgano per tutti due soli esempi, i saggi di Du~an Stojanovit e di Bofidar Zeeevit. Il primo svolge una riflessione attenta sulla «struttura aperta• dell'opera cinematografica e sul ruolo dello spettatore nelle diverse, molteplici e tutt'altro che univoche letture del testo filmico. Nei saggi di Stojanovit il criterio di lettura del film tende a spostarsi dalla diegesi (la storia raccontata) alla messa in gioco della relazione tra spettatore e schermo, con un ribaltamento di prospettiva profondamente innovatore nel quadro dominante della critica cinematografica iugoslava. • Zeeevit a sua volta tenta un superamento {discutibile, certo, ma molto personale, e poi qui è la tendenza che mi preme sottolineare) delle stesse posizioni della semiologia francese di matrice fenomenologica. Questo autore contrappone la «natura dinamica del cinema• alle significazioni consolidate nel mito, nella narrazione, che tenta da sempre di impadronirsi dell'arte cinematografica, «grazie al meccanismo attentamente costruito della manipolazione». Questa «natura dinamica del cinema•, aggiunge Zerevit, è anche il suo principio rivoluzionario, e ha la caratteristica «di opporsi alla possibilità di una comprensione totale (o almeno cosi oggi appare) (...); la sua strada sta anzitutto in un dinamico vagabondare, in matrici che continuamente appaiono e scompaiono, conformandosi nuovamente con gli impulsi della ricerca e del cambiamento». Non è difficile vedere dietro queste parole una posizione che poco o nulla ha a che ve<lere con le an1iche restrizioni del realismo socialista: alle certezze ingenue di quest'ultimo si sostituisce la ricerca, e questa diventa lo statuto stesso del cinema. t per questo che, dovendo fare un bilancio di quanto la mostra di Pesaro ci ha fatto conoscere del cinema iugoslavo, credo di poter individuare proprio nella produzione teorica il punto di maggiore incidenza rispetto ai luoghi comuni e ai modelli consolidati della critica ideologica. U n discorso diverso negli argomenti ma non troppo nella sostanza va fatto per la cinematografia ungherese. Tra le tante osservazioni possibili, quella che più merita di essere sviluppata, secondo me, è quella centrata sull'attività «documentaristica• dello Studio Béla Balazs, della quale a Pesaro sono stati presentati alcuni interessanti esempi nei film di lstvan Darday e Gyorgyi Szalai Filmromanzo - Tre sorelle ( 1977) e Stratègia (1979). «Di tutti i rami dell'arte - osserva Dérday- è il film documentario quello il cui materiale, il cui contesto di rappresentazione, è la realtà nel modo più diretto, la cui base è il fatto concreto e la cui missione è, al servizio dell'autocoscienza individuale e sociale, la presentazione in immagini visive della dialettica del fenomeno, essenza di tali fatti concreti. Il film documentario trasmette l'irripetibile, l'hic et nunc, è testimone immanente della storia, falsificabile solo con l'uso della violenza•. Come si vede, Darday si ricollega {in altre dichiarazioni anche esplicitamente) a tutta una tradizione di cinema diretto, che ha avuto il suo momento di massima ascesa negli anni sessanta, ma le cui origini possono riportarsi ad antiche esperienze d'avanguardia, fino al cineocchio di Dziga Vertov. Come sempre nel corso della storia del cinema diretto e in generale documentaristico, anche qui assistiamo a una profonda contraddizione tra le dichiarazioni dei protagonisti e le loro realizzazioni, una contraddizione non solo pressoché necessaria, ma anche notevolmente produttiva. Il metodo di D:\rday, infatti, come quello degli altri autori dello Studio Béla Balazs, all'attualità fonde la ricostruzione, utilizzando si attori non professionisti, spesso interpreti di se stessi, ma in situazioni esemplari di realtà politiche o sociologiche. Ed è questa oscillazione ·continua tra i poli della ricostruzione e dell'avvenimento, che produce il testo filmico, il quale è dunque costruito, si, ma al tempo stesso si offre esplicitamente a una quantità di significazioni, di interpretazioni, che non sono tutte necessariamente previste. Nulla di nuovo, in un certo senso: la miglior tradizione del documentarismo, fino alle prime esperienze del free cinema e della scuola di New York, e poi l'intera esperienza del cinema diretto negli anni sessanta si sono basate su presupposti analoghi. Qui però interessa rilevare che siamo in presenza di un modo sottile di operare una critica sociale e politica. Con il «filmromanzo• Tre sorelle siamo condotti per mano lungo un itinerario insieme pubblico e privato, costruito sulla base di attente indagini sociologiche (il richiamo agli studi sociologici di Budapest è costante per i due autori e per l'intero Studio Béla Balazs) e al tempo stesso capace di farci addentrare nelle pieghe delle emozioni più private delle tre protagoniste e degli altri personaggi. E lungo questo itinerario scopriamo realtà contraddittorie, valori che si rivelano con pudore ma anche con decisione, un'antiretorica programmata nell'affrontare temi sociali talvolta scottanti. Se a questo aggiungiamo la sistematicità dell'impegno dello Studio Béla Balazs, vedremo delinearsi una precisa funzione per questo particolare aspetto del cinema ungherese; una funzione che non è solo di indagine attenta, ma anche di intervento attivo, sia politico che sociale, secondo modalità rispettose dei molteplici possibili livelli in cui il sociale si manifesta e significa. Un discorso, questo, che si spiega ancor più se da considerazioni sociologiche passiamo a considerazioni di linguaggio: l'osservazione fenomenologica che è alla base di questi film sviluppa una strada che tiene conto in modo quasi naturale dell'apporto della televisione nel mondo dei media. I testi filmici di Darday e Szalai tendono naturalmente all'impiego televisivo, sollecitano il cinema a prendere finalmente atto dell'universo mediologico, e la televisione a utilizzare fuori degli schemi usuali l'intervento costruttivo dell'autore. Questi testi, dunque, mostrano una vocazione immediata a essere «lavorati• dal maggior numero possibile di spettatori, a entrare con discrezione ma anche con efficacia nel dibattito delle idee. In conclusione, quanto si è potuto vedere a Pesaro quest'anno del cinema magiaro e di quello iugoslavo presenta, se raffrontato con il cinema del paese guida del socialismo reale, interessanti aperture tanto di carattere politico quanto di carattere sociale e culturale. Di fronte a una cinematografia come quella sovietica, che pur presentando alcuni interessanti motivi di trasformazione interna, appare tuttavia ancora fortemente organizzata secondo una linea di sviluppo univoca, in cui - sia pure in larga approssimazione - l'ideologia tende a conservare il proprio ruolo predominante, la cinematografia iugoslava e quella ungherese presentano più sostanziali aperture interne, fenditure nel tessuto ideologico, spazi concreti di operatività per una progressiva complicazione dell'orizzonte omogeneo e compatto delle culture del socialismo reale. Peter Burke Sociologia e storia Dalla vecchia storia événementielle alla storia sociale. Con spunti da Spencer, Marx, Weber. Bloch, Febvre. Braudel, Le Roy Ladurie. In cerca di una teoria Francis L. Carsten Le origini della PfUSSla Prima del grande impero prussiano, la nascita di una nazione Domenico Sella L'economia lombarda durante la dominazione spagnola Campagna vs. città nel '600: il degrado economico dei centri urbani e la vitalità del 9)11tado Randolph Trumbach La nascita della famiglia egualitaria • Lignaggio e famiglia nell'aristocrazia del '700 inglese Quaderni storici n. 50 Ancora storia sociale su •I vivi e I morti• il Mulino AA.VV., O.ude Bernard. Scienza, Filosofia, Letteratura, a cura di Mario di Giandol"enico, prefazione di Mirko D. Grmek. Filippo di Foni, Per una psicoanalisi della Mafia, Radici, fantasmi, territorio e politica. Vittorio Craia, Proie2ione e peste psj. chica. Una analisi reichiana dei rapporti &a blocchi caratteriali e disfunzioni sociali. Erodoto n. 5. Problemi di geografia. «La geografia nella scuola•. Nuova serie di Herodote/Italia. Quaderni Razionalisti n. 2. Numero monografico. «L'eresia oggi>. Articoli di Edgar Morin, Jacqueline Marchand, Ludovico Geymonat, Gianfranco La Grassa, Giuseppe Prezzolini, Mario Quaranta, Aurelio Macchioro, Antonio La Penna, Massimo Bonfantini ed altri. Albeno Bcnini, Massimo Torrealta, Simulazione e falsificazione. Il segno come valore; semiotica e lotta di classe. Introduzione di Paolo Fabbri e Franco Berardi (Bifo). Ludovico Geymonat, Per Galileo. Attualità del razionalismo. A cura di Mario Quaranta. Petr Bogatirev, Sennotica della cultura popolare. Feste-tradizioni-abbigliamento•teatro-marionette-grida degli ambulanti-insegnedi commercianti e artigianicanzoni popolari. A cura di Maria Solimini. Eugenio Turri, Dentro il paesaggio. Caprino e il Monte Baldo. Ricerche su un territorio comunale. Dino Coltro, Paese perduto, La cultura dei contadini veneti. Volume primo: la giornata e il lunario. Nuova edizione.

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