D andy Balzac? «Il Dandy è un'eresia della vita elegante. Il dandismo è un'affettazione della moda. Facendo di sé un dandy, un uomo diventa un mobile da boudoir, un manichino oltremodo ingegnoso che si posa su un cavallo o sul canapè, che morde o succhia con sagacia il pomolo di un bastone... ma un essere pensante, no: non lo sarà mai». A prima vista non si direbbe proprio, da questo frammento intransigente del suo progettato Traité de la vie élégante. Eppure molti suoi amici lo erano, e si prodigavano nel tentativo di fissare la filosofia del/'esserlo. Basterà citare Barbey d'Aurevilly, che nel 1845 gli manda subito il proprio Brummell nel quale, come nota Roger Kempf, «c'è appunto una nota dove si parla del suo de Marsay». Balzac, un tale «segretario della propria epoca», non aveva certo trascurato di rappresentare, con questo suo personaggio, una specie umana così fatalmente interessante. E di fatto non c'è, da parte sua, ambiguità di atteggiamento, attrazione e repulsione nei confronti del Dandy. Perché Balzac condivide coi suoi amici una discriminante di fondo, fra l'esserMacl ltd,,andy lo, appunto, e il voleri-O sembrare. Se il dandismo è una filosofia dell'apparenza, se lapossono permettere solo colorq che si sono scoperti dandies. t, una questione di elezione naturale - come quando ancora oggi certuni dicono che una persona ha «classe», e lo dicono soprattutto malgrado una provenienza di classe. Privilegio elargito dal caso, una «grazia» che va riconosciuta e al massimo coltivata, assunta come Destino. Diventare dandy, questo dunque è ridicolo, come voler introdurre il divenire nel regno immobile delle essenze. Ci sono allora dandies cve;i~ e dandies fasulli. Distinguerli non è difficile. Poiché, come dice Balzac, «tutto in noi corrisponde a una causa interna», basterà osservarne attentamente i movimenti: «ciascuno di noi ha qualche tratto dominato dall'anima, la punta dell'orecchio che arrossisce, un nervo che trasale, un modo troppo significativo di sollevare lepalpebre, una ruga che si scava intempestivamente, un espressivo stringere le labbra, un eloquente tremito della voce, un respiro che s'interrompe» (Théorie de la démarche). Il dandy autentico non può tradirsi, soprattutto perché la coscienza di sé gli rende tutto concesso (ancora d'Aurevilly, che annota: «Andato al caffé (...) Rotto un bicchiere senza confondermi, Maldestro, ma sempre sicuro di me. Imperturbabile»). Qualcosa, paò. a('('o111u11tauui i dandies. Una «patetica» spinta alla teorizzazione continua. Gli uni, de/l'essenza che permette loro di istituire nuovi codici esistenziali-artistici; gli altri, del modo di carpire il segreto meccanismo di quegli stessi codici, che cercano di ridurre a norma dello stare in società. E Balzac? Apparentemente fornisce un metodo alla volontà di sapere di questi ultimi, se si propone di estendere al modo di camminare lo studio fisiognomico, analizzandone e isolandone i tratti di espressione. Operazionepreliminareproprio ad un apprendistato di simulazione, cui desidera essere ammessa non solo una ristretta categoria professionale: le quinte della rappresentazione incorniciano ormai l'intera società. Questo metodo è «solo» l'osservazione, in cui devono collaborare facoltà che quasi sempre si escludono: «questo colpo d'occhio che fa convergere i fenomeni verso un centro, questa logica che li dispone a raggiera, questa perspicacia che vede e deduce, questa lentezza che serve a non scoprire mai uno dei punti del cerchio senza osservare gli altri, e questa prontezza che conduce ,d'un sol balza dalla testa ai piedi». Per questa via i flàneurs possono perfezionare le loro passeggiate, hanno la chiave per comprendere cosa rende tale l'incedere di una dea, se proprio vogliono tentare di imitarlo. Dal canto suo, Balzac ha trovato il segreto del suo essere Balzac, e forse dell'aver compreso che il dandismo è anzitutto avventura letteraria. La sua ars deambulatoria ha per esergo una frase di Louis Lambert, e forse non era ancora talmente snob citarlo, vi a[ferma di averla concepita per spiegare a se stesso perché non si possa fare a meno di cedere al riso quando un uomo cade o inciampa. E come mai nessuno vi ha ancora pensato? «Non è forse abbastanza profonda, abbastanza frivola, abbastanza derisoria di quanto non lo siano le altre scienze?». Ogni tanto anche Balzac ostentava • una cravatta sgargiante-a quanto scrivono le cronache. Lo distingue fra i suoi contemporanei qualcosa d'altro, l'atteggiamento intellettuale che riconosce il fenomeno moderno della moda e non vi si sottrae, ma ci giostra con sottile perfidia. Honoré de Balzac Théorie de la démarche et d'autres textes Pandora, 1978 Lecinematografie d ll'Est 11mio percorso di lettura della XVlll Mostra internazionale del nuovo cinema (Pesaro, 12-20 giugno 1982) è volto soprattutto a interrogarsi su alcuni aspetti della funzione che il cinema svolge nel dibattito delle idee in corso nei paesi del socialismo reale. Per questo credo opportuno mettere la mostra di quest'anno in un rapporto ideale con quella di due anni fa, in cui fu presentata una vasta selezione della cinematografia sovietica. La domanda centrale di queste pagine è relativa all'immagine che danno di sé le cinematografie del socialismo reale, immagine alla cui definizione possono ben contribuire i testi filmici, come anche quelli critici, teorici e politici prodotti in tre paesi - Jugoslavia, Ungheria, Unione Sovietica - che sono sl molto diversi tra loro, ma che sono anche accomunati dall'appartenenza a una esplicita e precisa area ideologica. E proprio perché questa area ha una sua indubbia leadership nella linea proposta dall'Unione Sovietica (nonostante le particolarità ben note della strada iugoslava e della realtà magiara), credo sia particolarmente proficuo un confronto tra le due cinematografie presentate quest'anno a Pesaro e quella sovietica, un confronto inteso a cogliere conferme e scarti rispetto a tutta una tradizione che possiamo sinteticamente comprendere sotto la nozione di realismo socialista. li cinema sovietico presentato nell'edizione pesarese del 1980 aveva dato, secondo me, agli studiosi la possibilità (peraltro non del tutto sfruttata) di fare un bilancio su tre questioni fondamentali: anzitutto il senso dell'eredità del realismo socialista nella cinematografia sovietica; in secondo luogo l'entità e il segno degli spostamenti verificatisi in questa cinematografia negli ultimi dieci anni; in terzo luogo le conquiste e i problemi sociali che direttamente o indirettamente venivano rispecchiati o filtrati attraverso i film. Al di là delle evidenti differenze di talmente orientato su due problematiche complementari: il «tempo di pace• e la «demotivazione sociale» (se non talvolta la vera e propria «devianza•). Questi temi costituiscono, a mio avviso, per il modo in cui sono affrontati, due spostamenti rispetto alla tradizione del realismo socialista, nel senso che all'epica della guerra e all'epica del lavoro si sostituisce il problema posto dalla ricerca di un senso nuovo (non più dato in anticipo, non più prefabbricato) della vita nel tempo di pace e l'attribuzione di un valore nuovo alla non integrazione nel lavoro e nella produzione. In particolare, per quanto riguarda la «devianza sociale», si nota una considerazione più attenta del senso (del valore) della demotivazione, che viene talvolta perfino presentata come un salutare campanello di allarme nella routine burocratica del lavoratore sovietico. La preponderanza di questi temi nei soggetti dei film sovietici dà l'impressione di un esteso accerchiamento dell'etica del realismo socialista, attraverso il ricorso a molteplici elementi culturali. primi fra tutti la tradizione locat! lingua e culturache vi sono tra le varie ~ repubbliche sovietiche, credo si possa il dire che nel suo complesso il più recen- B ltì cintt dell'URS~iarf~ eya~H+-- Giorgio De Vincenti le (nel cinema delle repubbliche) e la riscoperta di autori russi del passato (Cechov in particolare, ed esplicitamente, nel cinema russo). Cosi per esempio, nel cinema georgiano non è difficile notare talvolta l'affiorare di un fatalismo di fondo in cui all'elogio del lavoro produttivo si sostituisce (con molte cautele, e proprio questo è, come si vedrà, il punto fondamentale) una sorta di disincantato •gioco» della vita. E cosi ancora, nei film di Nikita Michalkov, il bovarismo dei personaggi cechoviani viene contrapposto alla logica della produttività. Eppure, accanto a questa impressione di un forte dispendio di energie e di mezzi contro la tradizione del realismo socialista, si ha anche l'altra parallela che gli stessi limiti dell'ostacolo che si vuole abbattere (lentamente peraltro, e non senza contraddizioni) finiscano per condizionare fortemente gli sforzi. Anche il miglior Michalkov, a mio parere, non vale l'enfant terrib/e Tarkovskij, e la sua riproposizione dell'oblomovismo appare molto più innocua delle dilanianti aperture di Andrej Rublev o di Lo specchio. In altre parole, mi sembra che alla fondamentale angustia della tradizione del realismo socialista (che ha altri meriti, lo so: la scelta della «quantità» fatta dal cinema staliniano, la diffusione del cinema su tutto il territorio nazionale) si debba riportare una caratteristica per me fondamentale del cinema sovietico recente: l'assenza del tragico, la mancanza di un discorso sul delitto, la perversione, la morte. Una caratteristica che rende difficile sintonizzarsi con un cinema che appare senza catarsi perché non spinge mai fino in fondo i conflitti, che non sollecita la conoscenza della realtà perché non rischia la perdizione, la negazione, che non sa spingersi al limite perché su di esso pesa ancora l'ipoteca di un ottimismo a tutti i costi. S e ora da considerazioni strettamente cinematografiche passiamo a considerazioni di caiattere sociologico, il discorso presenta altri e ben diversi aspetti: l'immagine della vita in URSS che ci viene offerta (per lo più implicitamente) dai film pesaresi. infatti. presenta almeno due dati di elevato valore morale e sociale. Il primo riguarda l'emancipazione femminile, che in Unione Sovietica appare aver raggiunto livelli a noi sconosciuti, tanto sul piano sociale (rapporto con il lavoro), quanto su quello affettivo (rapporto con il compagno, con i figli, ruolo all'interno della famiglia, sessualità). Il secondo riguarda la coppia, il tema che in Unione Sovietica come nell'occidente sembra occupare gran parte della produzione cinematografica degli anni settanta: nei film sovietici non c'è alcun atteggiamento moralistico né alcuna forma di riprovazione sociale rispetto all'interruzione del vincolo coniugale. Tuttavia, anche per dichiarazione degli stessi cineasti e critici sovietici, il fatto ha assunto un'estensione tale in URSS da divenire «preoccupante», e il cinema sovietico è esplicitamente impegnato nella ricerca e proposta di modelli socialmente utili in relazione a questo fenomeno. Il modello che prevale (forse l'unico che questi film propongono) è quello dell'amore romantico: i coniugi separati hanno di fronte a sé l'alternativa della solitudine o (il che in ultima analisi è lo stesso) il perseguimento di un amore totale. Eppure, nonostante le apparenze, non si tratta di un'astuzia «di regime», volta a ricomporre senza eccessivi scossoni la cellula sociale minacciata. Anche a voler considerare elementi pure rilevanti, come il fatto che nel momento della separazione entra in gioco nei film una serrata critica del lavoro inteso burocraticamente e del carrierismo, resta il fatto che il ricorso ali' «amore romantico• è di per se stesso profondamente eversivo rispetto alla tradi1ione dell'istituzione matrimoniale, e costituisce un momento obbligato e problematico non solo del processo di emancipazione sessuale ma dell'intera problematica del rapporto individuo/istituzioni. R ispetto a quanto detto fin qui, il cinema iugoslavo e quello magiaro presentano più scarti che conferme. La mostra di Pesaro ci ha fatto conoscere almeno un autore iugoslavo di alto livello e due autori che sono già più che una promessa: il primo è Zivo-
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