Alfabeta - anno IV - n. 41 - ottobre 1982

I.novità.I loescher università manuali Roy F. Harrod INTRODUZIONE ALL'ECONOMIA MONETARIA L17.500 Elman R. Service INTRODUZIONE ALL'ETNOLOGIA L. 2s.ooo Massimo Llvi Bacci INTRODUZIONE ALLA DEMOGRAFIA • L. 21.000 Angelo Pichierrl INTRODUZIONE ALLA SOCIOLOGIA INDUSTRIALE L. 13.500 Gian Franco Gianotti Adriano Pennacini STORIA E FORME DELLA LETTERATURA IN ROMA ANTICA L. 22.000 Romano Luperlni IL NOVECENTO apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea L. 37.000 Massimo L. Salvadori STORIA DELL'ETÀ CONTEMPORANEA 1. 1815-1914 2. 1914-1945 3. 1945-1970 f monografie Graham A. Allan SOCIOLOGIA DELLA PARENTELA E DELL'AMICIZIA Robert Mcc Adams L. 16.500 L.16.500 L.16.500 L.11.500 LA RIVOLUZIONE URBANA Mesopotamia antica e Messico preispanico L. 9.000 scienze dell'educazione collana diretta da Maria Corda Costa David Hawkins SCIENZA ED ETICA DELL'UGUAGLIANZA L. 3.500 Richard C. Philllps APPRENDIMENTO E PENSIERO NELLE DISCIPLINE STORICHE E GEOGRAFICHE L. 17.500 Robert M. W. Travers PSICOLOGIA DELL'EDUCAZIONE un fondamento scientifico per la pratica educativa L. 17.000 conoscenza e processi educativi collana diretta da Clotilde Pontecorvo e Lydia Tornatore C. Vasoll, L. Tomatore, R. Maragliano, C. Mosconi, L. Lumbelli EDUCAZIONE ALLA RICERCA E TRASMISSIONE DEL SAPERE L. 10.800 M. Ciliberto, S. Nannini, A. Dellantonio, P. Boscolo, C. Pontecorvo INTELUGENZA E DIVERSITÀ L. 12.800 G. Mosconi, P. Orvieto, L.Gianformaggio, L.Arcuri e R.Job DISCORSO E RETORICA L.9.000 L. Marino, G. Nonveiller, L. Handjaras, G. Tassinari, A. Menzlnger ARTE-E CONOSCENZA L. 12.000 LOESCHER I. i .I I ■ ~ ■ UI ùLt:(.,ay nell'ambito di una certa comunità linguistica ed eventualmente ai di là di essa. L'immagine ideale (e Kripke è ben conscio che si tratta di poco più che di una immagine) è sostanzialmente questa: in un atto pubblico l'oggetto x riceve il nome a (per esempio attraverso un gesto d'ostensione: chiamo a questo ...), successivamente il nome a viene «passato• ad altri parlanti eventualmente assenti dalia cerimonia iniziale, ma che lo ricevono con la tacita ·assunzione di continuare a usare il nome per designare l'oggettox, e che a loro volta lo trasmettono ad altri sempre secondo la stessa tacita assunzione, e cosi via. Non credo che valga la pena di soffermarsi a lungo su questo modo di presentare le cose, in cui il richiamo metaforico svolge un ruolo essenziale. Penso invece sia opportuno sottolineare che, all'interno di questo quadro, la portata referenziale dei nomi propri è riportata in modo essenziale a certi rapporti di contatto causale: originariamente un certo oggetto x si vede assegnato un nome a (tanto meglio se questa attribuzione avviene in presenza dell'oggetto), ed è a quell'oggetto che a continuerà a riferirsi se non si verificheranno smagliature nella catena (cioè se il nome passa effettivamente di bocca in bocca, alle opportune condizioni); e tutto ciò a prescindere dai diversi modi in cui si potrà caratterizzare l'oggetto x secondo diversi contesti conoscitivi. Identità e necessità Abbiamo dunque visto qual è il motivo fondameniale dell..'.assunzione,da parte di Kripke, della tesi di Mili secondo cui i nomi propri sono privi di senso o significato come contenuto concettuale-descrittivo: se un certo nome proprio si vedesse associato, come proprio senso, un certo contenuto descrittivo (del tipo di 'la cosa con queste e queste proprietà'), allora il suo referente potrebbe variare a seconda che si considerino situazioni controfattuali (o, semplicemente, temporali) diverse, visto che possono essere di volta in volta diversi gli oggetti che soddisfano le proprietà indicate nel contenuto in questione. D'altra parte, nel caratterizzare i nomi propri come designatori rigidi ciò che si voleva mettere in luce era proprio l'invarianza del referente rispetto a stati di cose differenti. Questo fatto non è però privo di interessanti conseguenze per quanto concerne i rapporti fra metafisica e teoria della conoscenza. Prendiamo infatti un asserto di identità del tipo di 'a = b'. Ora, se a e/o b non sono designatori rigidi, ne consegue che, qualora sia vero, l'asserto può non essere necessariamente vero. Abbiamo infatti visto, per esempio, che l'identità 'il presidente della repubblica = il più anziano ex presidente della Camera' è sl vera nello stato di cose attuale, ma non in tutti gli altri ipotizzabili (per esempio quelli passati, o quelli che potremmo immaginare, ecc.); e questo per il semplice fatto che, benché i referenti delle due espressioni descrittive coincidano rispetto a questo stato di cose attuale, possono benissimo esserci situazioni (anzi, di fatto ci sono) rispetto a cui invece non coincidono. Abbiamo quindi un'identità contingente. Nel caso dei designatori rigidi, ovviamente, il discorso cambia: se rispetto a un qualsiasi stato di cose- in particolare quello attuale - a e b denotano lo stesso referente, allora devono denotarlo in tutti, per la definizione stessa di rigidità. Di conseguenza, se è vero che a = b, allora è necessariamente vero che a = b. Qualora si accetti una prospettiva del genere una apparente complicazione può sorgere dal fatto che, nella tradizione filosofica (basti pensare a Kant), il concetto di necessità è stato spesso associato a quello di a priori. Ciò che è necessario deve in qualche modo essere conosciuto a priori, poiché è proprio il tipo di conoscenza a garantire il tipo di verità in questione. btorniamo al nostro esempio, apparentemente innocuo, costituito dall'identità 'Espero = Fosforo'. Quest'identità è non soltanto vera, ma, trattandosi di designatori rigidi, anche necessariamente vera. D'altra parte, è innegabile che la conoscenza che esso esprime non è stata ottenuta sulla base di semplici speculazioni a priori (o addirittura di natura linguistica), ma presumibilmente, in seguito a certe più o meno ingenue osservazioni astronomiche, cioè del tutto a posteriori. (Anche se la storia non fosse proprio andata cosi, non avremmo certo difficoltà a immaginare una situazione in cui si scopre che due corpi celesti, fino a un certo momento ritenuti distinti, in realtà coincidono). Abbiamo visto poco fa come Kripke dissoci il concetto di portata referenziale di un nome proprio da quello di contenuto conoscitivo associatogli dai parlanti. Ora, di fronte a questo nuovo problema, assistiamo a un tipo parallelo di dissociazione: il concetto di a priori qualifica un certo modo d'essere della conoscenza (è quindi una nozione gnoseologica), mentre il concetto di necessità riguarda, per cosi dire, la natura stessa delle cose (ed è quindi una nozione metafisica). Tornando al nostro esempio, si può dunque del tutto legittimamente sostenere che solo a posteriori si è scoperto che Espero = Fosforo, e in pari tempo affermare che, una volta scoperto ciò, il corrispondente enunciato di identità è necessariamente vero, per il semplice fatto che non possiamo ipotizzare situazioni in cui un oggetto è diverso da se stesso. Al massimo possiamo ipotizzare situazioni in cui certi dati fenomenici (comparire in cielo a una certa ora del giorno, ecc.) che. prima della scoperta dell'identità, venivano associati esclusivamente alla parola 'Espero', e altri che venivano invece associati esclusivamente alla parola 'Fosforo', hanno a che fare con due oggetti diversi: ma allora ciò non riguarderebbe più quel particolare oggetto (Venere) èhe è al centro del nostro enunciato di identità, e che certo non può «sdoppiarsi» in nessuno stato di cose ipotizzabile, ma riguarderebbe, per l'appunto, quei due oggetti. Una volta che abbiamo scoperto che è a questo particolare oggetto che si riferiscono i nomi 'Espero' e 'Fosforo'. non possiamo dire che Espero (cioè Venere) avrebbe potuto non essere Fosforo (cioè, ancora Venere). Conseguenze epistemologiche L'idea di sganciare la portata referenziale di un designatore dal contenuto concettuale-descrittivo che gli viene associato nell'uso può essere estesa dal caso dei nomi propri ad altri forse più interessanti dal punto di vista epistemologico generale. Prendiamo per esempio in considerazione nomi di generi naturali (del tipo di 'tigre') o di sostanza (del tipo di 'oro'). In casi di questo tipo, anche lo stesso Mili aveva sostenuto che si tratta di espressioni connotative: perché di qualcosa si possa dire che è una tigre è necessario che sia soddisfatto un certo insieme di attributi (essere un animale con queste e quelle caratteristiche), che costituiscono appunto la connotazione del termine 'tigre'. Ma, ancora una volta, l'apparente intuitività di una simile concezione sembra scontrarsi con alcuni controesempi. Anzitutto, la capacità di enumerare gli opportuni attributi richiesti può variare di molto da parlante a parlante: quello che un bambino, sulla scorta di certe approssimative conoscenze iconografiche, potrebbe dire delle tigri è ovviamente molto diverso da quello che potrebbe dire uno zoologo professionista. D'altra parte, sembra plausibile sostenere che la parola 'tigre', usata dall'uno e dall'altro in contesti conoscitivi diversi, designa sempre lo stesso genere di animale. Che cosa garantisce dunque la continuità del riferimento? Si potrebbe rispondere che è opportuno isolare un certo standard di attributi, da considerarsi come il senso ideale di un termine quale 'tigre'. Ma ci troviamo allora di fronte a un nuovo problema: di fatto, il sistema del sapere (ingenuo o scientifico che sia) è spesso soggetto a profondi mutamenti, cosicché certe procedure di identificazione di generi naturali come le tigri o di sostanze come l'oro possono succedersi l'una all'altra. Se davvero i criteri di identificazione (riconducibili a certi «attributi») coincidessero con il senso delle nostre espressioni, allora mutamenti intervenuti in questi criteri determinerebbero mutamenti di senso, e termini come 'tigre' o 'oro' potrebbero allora riferirsi a generi o sostanze diversi da quelli a cui di fatto si riferiscono. L'idea che Kripke avanza a questo proposito è, ancora una volta, di sganciare il problema del riferimento da quello delle procedure cognitive che associamo all'uso di quel termine (e che quindi ci permettono di spiegare come afferriamo concettualmente il referente). Cosi, non è certo contraddittorio immaginare una situazione in cui, grazie a tecniche sofisticate, si scopra che in realtà l'oro è privo di qualcuna delle caratteristiche tradizionalmente associate al preteso senso del termine 'oro': nondimento questo termine continuerebbe a denotare la stessa sostanza che ha sempre denotato. (Semplicemente, avremmo mutato i criteri di identificazione dell'oro). E il motivo per cui mantiene invariato il proprio referente è che, analogamente al caso dei nomi propri, il termine 'oro' è stato originariamente associato a certi campioni di sostanza . .:d è a q111•• ,\la ~o~tarua. 4uali che ~•ano i criteri t.h identificazione adottati di volta in volta, che è rimasto associato passando di bocca in bocca. L'equiparazione dei termini di genere naturale e di quelli di sostanza ai nomi propri ha conseguenze di rilievo per una importante classe di asserti scientifici. Infatti, considerare quei termini come designatori rigidi (al pari, appunto, dei nomi propri) implica, ancora una volta, che le asserzioni vere di identità che li coinvolgono siano necessarie anche se, eventualmente, a posteriori. Prendiamo, per esempio, il caso di un termine molto familiare come 'acqua'. L'immagine idealizzata che Kripke propone è approssimativamente questa: in presenza di campioni d'acqua la gente ha cominciato a usare il termine in questione, e se l'è passato di bocca in bocca con l'intenzione di continuare a riferirsi alla sostanza esemplificata da quei campioni. Ora, di questa sostanza si è scoperto a un certo punto che essa non è altro che H,O. Da un lato ciò non ha determinato una diversa portata referenziale del termine 'acqua' (che ha continuato a designare la stessa sostanza di prima), e questo per il semplice motivo che non c'è bisogno di associare al termine, come «senso», questo o quel criterio di identificazione; d'altro Iato l'identità 'acqua = H2O, pur fondandosi su una conoscenza ottenuta evidentemente a posteriori, esprime una proposizione necessaria, dal momento che se è vero (come è vero) che questa sostanza è H,O, non possiamo concepire una situazione in cui essa sia diversa da se stessa. (Come al solito, possiamo al massimo concepire che ci sia un'altra sostanza con caratteristiche fenomeniche per noi molti simili a quelle dell'acqua e che non è H20. Ma questo è ovviamente del tutto diverso dal concepire uno stato di cose in cui proprio questa sostanza, cioè acqua, cioè H20, non sia H,O. In termini generali, ne consegue che le asserzioni di identità cui spesso si approda nelle teorie scientifiche hanno sia il carattere dell'a posteriori (non essendo ovviamente semplici analisi di sensi o significati, ma autentiche scoperte empiriche), sia quello della necessità. Infatti, poiché i termini di sostanza o di genere naturale sono svincolati, nella loro portata referenziale, da quello che la gente effettivamente «sa» dei rispettivi referenti (anche se i vari criteri di identificazione sono importanti per spiegarne l'uso nei diversi contesti comunicativi), ·l'idea è che i nomi siano direttamente associati a quei referenti, cioè senzà la mediazione di contenuti concettuali. Cosi le identità teoriche della scienza, quando sono vere, vengono a interessare l'essenza stessa o la struttura interna dei referenti: ancora una volta, la rigidità dei designatori comporta la necessità degli asserti di identità che li contengono, qualora siano asserti veri. Un problema L'attuale dibattito sui problemi di teoria del significato sembra in qualche modo caratterizzato da una situazione cpre-kantiana», con tutte le difficoltà che ne conseguono: solo che a fronteggiarsi non sono più (o soltanto) due orientamenti di teoria della conoscenza, ma, appunto, due orientamenti di teoria del significato (parlo, ovviamente, di paradigmi molto generali). Da un lato si è imposta una linea di tendenza volta a ricondurre per intero la caratterizzazione del significato entro i confini della dominabilità cognitiva. Detto molto schematicamente: il significato di questo o quel genere di .:spressione non è altro che un certo insieme di procedure cognitive. In 4uesto modo, anche se non sempre, il problema stesso del riferimento come assunzione nel campo linguistico di 4ualcosa di dato (e non semplicemente di costruito per via concettuale) è stato spesso trascurato. Ora, uno dei motivi principali della risonanza che il saggio di· K.ripke ha avuto nel dibattito filosofico è di avere avviato una vigorosa reazione a quel modo di porre i problemi, o per lo meno a certe sue estremizzazioni. Come spesso accade, però, nel mostrare i limiti di una concezione strettamente cognitivista, Kripke ha estremizzato al massimo la formulazione del proprio realismo. Buona parte delle istanze e delle linee di soluzione che egli avanza sul piano della semantica delle lingue naturali sembrano difficilmente evitabili: penso, in particolare, al concetto di designazione rigida. Ma il tipo di filosofia complessiva con la quale esse vengono giustificate non è forse altrettanto convincente. Segnatamente, l'assunzione di una forma estrema di realismo porta a una «immagine», come la chiama Kripke, del riferimento (battesimo iniziale, catena causale, ecc.) che è poco più che una vaga allusione metaforica. Analogamente, nel caso dei nomi comuni per sostanze o generi naturali, la chiamata in causa di concetti quali l' «essenza reale» o «struttura interna» del referente sembra a volte un modo un po' troppo sbrigativo per risolvere il problema (oggi dibattuto in vari campi) dell'oggettività del riferimento e della possibilità di mettere in comunicazione schemi concettuali diversi. li fatto è che la giustificazione di questa plausibile oggettività non va cercata astraendo dalla questione delle procedure cognitive, ma, forse, proprio a partire da esse.

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