Saul Kripke Nome e ■ecessità trad. it. di M. Santambrogio Torino, Boringhieri, 1982 pp. 162, lire 20.000 P ubblicato originariamente all'inizio degli anni settanta, Nome e necessità ha rappresentato, e continua a rappresentare, un punto di riferimento fondamentale nel dibattito filosofico dei paesi anglosassoni. Grazie alla nitida traduzione del Santambrogio, il lettore italiano ha oggi l'opportunità di accostarsi a un testo che, per l'orizzonte problematico in cui si situa e per lo stile argomentativo che propone, indica un modo di fare filosofia con cui non si ha forse molta familiarità. E questo non certo perché la pratica discorsiva attuata da Kripke sia complicata da tecnicismi logici (accuratamente evitati nel testo), ma viceversa perché la riflessione si sviluppa per intero in un ambito di problemi chiaramente percepibili, non perdendo mai di vista i requisiti di adeguatezza intuitiva e di semplicità espressiva. Questa semplicità potrà addirittura sembrare eccessiva a chi è abituato a identificare il discorso filosofico con l'allusione metaforica e la polivalenza dei termini. Ma spesso, come sappiamo, l'oscurità di linguaggio è indice di irresponsabilità concettuale. Le tesi sviluppate in Nome e necessità hanno il loro punto d'origine nelle ricerche che Kripke ha svolto nel campo della logica modale. Ma il testo (salvo forse l'introduzione che, come suggerisce lo stesso autore, va letta dopo) non presuppone alcuna familiarità con le tecniche di semantica formale introdotte da Kripke all'inizio degli anni sessanta. Cosi, nelle pagine che seguono, mi asterrò anch'io dal riferimento a qualsiasi questione «tecnica» e cercherò di presentare, nel modo più semplice possibile, alcune delle argomentazioni formulate nel saggio. Designatori rigidi Una caratteristica certo evidente delle lingue naturali è che, attraverso di esse, ci è data la facoltà di parlare non solo di come stanno le cose, ma anche di come avrebbero potuto stare se si fossero verificate certe condizioni anziché altre, oppure di come necessariamente devono stare sotto l'assunzione di certe leggi, oppure di come saranno forse in un futuro prevedibile e cosl via. Spesso, dunque, nel nostro discorrere, non ci limitiamo a richiamarci a una certa situazione che riconosciamo come reale, ma ci richiamiamo in modo essenziale a una pluralità di simitarci ad assumere, del tutto naturalmente, una pluralità di situazioni che non valgono più attualmente e che, per esempio, si sono verificate in passato. Dopo tutto, che gli enunciati di una lingua naturale possano rinviare a una pluralità di situazioni temporali diverse da quella attuale è perfino banale constatarlo. E tuttavia è proprio sullo sfondo di ovvietà di questo genere che si colloca il nostro problema. Infatti, anche lasciando perdere tutto l'armamentario dei mondi possibili, se semplicemente si ammette che per l'interpretazione di un qualsiasi enunciato sia necessario il riferimento a una pluralità di situazioni o stati di cose (oltre alla situazione reale in cui ha luogo l'emissione dell'enunciato stesso), viene spontaneo chiedersi in che modo i nostri designatori denotino gli oggetti rispetto alle varie situazioni ammissibili. tuazioni semplicemente possibili. Ora, Prendiamo due casi paradigmatici: una situazione (o, come si suole anche le cosiddette descrizioni definite, cioè dire, uno stato di cose o mondo possi- espressioni del tipo di 'il cosi e cosi' bile) è determinata sostanzialmente da (per esempio: 'il presidente della recerti oggetti e da certe proprietà e re- pubblica italiana', 'la più alta cima !azioni che caratterizzano quegli og- d'Europa' ecc.) e i nomi propri. Non getti. potremo fare a meno di notare che il Limitiamoci al primo di questi due referente di un designatore quale 'il ingredienti. Una constatazione che si presidente della repubblica italiana' impone è che dobbiamo disporre, nel- può variare a seconda delle diverse la lingua, di nomi (o, come diremo un circostanze di valutazione: rispetto po' più tecnicamente, di «designato- alla situazione attuale il termine desiri») per quegli oggetti. Si badi che, fino gna Pertini, rispetto a una passata dea questo punto, non abbiamo avuto signa p.e. Saragat e, rispetto a una conbisogno di introdurre la nozione di trofattuale, Pannella. «oggetto possibile». Né avremo biso- In breve, designatori quali 'il cosi e gno di farlo in seguito. Se vogliamo, cosi' banno la proprietà di comportarsi possiamo continuare a tenere, come in modo per cosi dire elastico rispetto a unici referenti ammissibili per i nostri circostanze di valutazione diverse, nel designatori, solo i comuni oggetti del senso che possono denotare oggetti nostro mondo «reale», evitando quin- (eventualmente) via via diversi secondi qualsiasi obiezione preliminare cir- do le circostanze stesse. Ogni volta, la ca la proliferazione di entità bizzarre. descrizione designa quel particolare Semplicemente, assumeremo di po- oggetto che risponde alla proprietà terci richiamare a situazioni o stati di espressa dalla descrizione stessa (la cose in cui quegli oggetti godono di proprietà di essere il presidente della certe proprietà o si trovano in certe repubblica, nel nostro caso). Si spiega relazioni che, di fatto, non li caratte- cosi perché un enunciato di identità rizzano nella realtà. che riguardi due designatori di questo Se ci preoccupa l'idea di assumere tipo non esprime una identità logicauna pluralità di situazioni possibili mente necessaria: è fattualmente vero, (preoccupazione, questa, che non cioè vero nella situazione reale o attuasembra turbare l'uomo della strada, il le che il presidente della repubblica quale non trova nulla di problematico . non è altri che il più anziano ex presinell'immaginare, per esempio, un pos- dente della Camera (dove l'espressiosibile corso di eventi che si sarebbe ne 'non è altri che' svolge nel linguagdeterrninato se Cesare non avesse at- gio discorsivo una funzione analoga a rioc:f i·a ,rèèf lta dal segno di identità in una lingua formale). Ma ciò non è certo necessariamente vero: posso benissimo addurre una situazione controfattuale (o, semplicemente, passata) in cui non si dà il caso che il presidente della repubblica sia il più anziano ex presidente della Camera. E si spiega, anche, il motivo per il quale c'è un'interpretazione non contraddittoria di un enunciato come 'Il presidente della repubblica avrebbe potuto non essere il presidente della repubblica': ciò accade quando vogliamo dire, per esempio, di Pertini che avrebbe potuto non essere eletto, richiamandoci appunto a una situazione controfattuale. E veniamo adesso al caso dei nomi propri. A differenza di quanto abbiamo appena constatato, sembra del tutto ììnplausibile dire 'Pertini avrebbe potuto non essere Pertini' e, benché la forma di questo enunciato sia esattamente simile a quella dell'enunciato di prima (con l'unica differenza che abbiamo un nome proprio dove prima c'era una descrizione), l'impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di contraddittorio è certo molto forte. Non ho difficoltà a pensare a una situazione nella quale colui che di fatto è il presidente della repubblica non è il presidente della repubblica, mentre non riesco a pensare coerentemente a una situazione nella quale colui che è Perlini non è Pertini. Perché, dunque, abbiamo una simile disparità di comportamento nel contesto di enunciati come quelli appena visti? La risposta di Kripke è che, a differenza delle descrizioni, i nomi propri sono designatori rigidi, cioè espressioni che denotano sempre lo stesso referente rispetto alle diverse circostanze di valutazione. Se per esempio dico: 'Nel 1976 il presidente della repubblica ha trascorso le vacanze in Francia', posso intendere (per lo meno) due cose: o che quello che è oggi il presidente della repubblica, cioè Pertini, ha trascorso le vacanze in Francia nel I 976, o che ve le ha trascorse l'allora presidente della repubblica, che non è Pertini. E questo per I' «elasticità» di riferimento della descrizione 'il presidente della repubblica'. Ma se dico: 'Nel 1976 Pertini ha trascorso le vacanze in Francia', svanisce ogni possibile ambiguità: il nome proprio 'Pertini' non può che designare queWunica persona che designa (una volta assunto, ovviamente, che proprio quello sia il nome di Pertini). Teoria del riferimento Finora non abbiamo fatto altro che registrare certe asimmetrie di comportamento fra designatori e illustrare alcune nostre intuizioni a esse connesse. Ma possiamo fare un ulteriore passo avanti nel nostro lavoro di chiarificazione e chiederci: è possibile collegare il fenomeno della rigidità o meno dei designatori a considerazioni di ordine semantico più profonde e generali? È chiaro che se rispondiamo positivamente alla domanda ci impegnamo a mostrare che le modalità o procedure attraverso le quali i designatori • «elastici• e quelli rigidi si riferiscono ai propri oggetti sono, nei due casi, essenzialmente diverse. Di fatto, per i rappresentanti paradigmatici di queste due categorie di espressioni, cioè le descrizioni e i nomi prop{i rispettivamente, possiamo richiamarci a una, ben nota argomentazione, formulata nel secolo scorso da J.S. Mili, nel suo Sistema di logica. Ci sono espressioni, osserva Mili, che hanno una denotazione (un referente, nella nostra terminologia) solo in virtù del fatto che hanno anche una connotazione, e questa connotazione non è altro che l'insieme di attributi che un oggetto (o µna classe di oggetti) deve soddisfare perché sia, appunto, la denotazione di quell'espressione. Questo è il caso delle descrizioni: Pertini è il referente della descrizione 'il presidente della repubblica' proprio perché soddisfa l'attributo o proprietà di essere il presidente della repubblica. Ma ci sono espressioni, ed è il caso dei nomi p;opri, che, pur avendo una denotazione, sono prive di connotazione_ (e sono quindi prive, in senso stretto, di un «significato»), in quanto designano direttamente i loro referenti, senza passare per attributi, proprietà, ecc.: cosi, un nome proprio come 'Pertini' è privo di qualsiasi contenuto descrittivo o concettuale. Per intuitive che possano sembrare, queste osservazioni di Mili non hanno avuto molta fortuna nella logica e nella filosofia del linguaggio del nostro secolo. Autori come Frege e Russell hanno obiettato, per esempio, che se si privano i nomi propri di un contenuto in qualche modo des_crittivoo concettuale non si riesce a dar conto del fatto che certi enunciati di identità coinvolgenti nomi propri (del tipo di 'Espero = Fosforo', dove i due nomi propri stanno rispettivamente per la stella della sera e la stella del mattino: cioè, in realtà, Venere) hanno un innegabile valore conoscitivo. L'unico modo di spiegarlo sembra quello di riconoscere ai due nomi contenuti concettuali diversi. Se invece essi fossero privi di senso (di «connotazione», come dice Mili) e fossero invece semplici etichette appiccicate al loro referente, enunciati di identità di quel genere si limiterebbero ad asserire banalmente che due sequenze fonetiche, corrispondenti ai nomi in questione, designano lo stesso referente, anziché comunicarci il risultato di una genuina scoperta astronomica. Di qui, in contrapposizione a Mili, l'idea di associare ai nomi propri un senso o contenuto descrittivo, e, al limite, di identificarli con descrizioni. (Va detto che, su questo punto, i riferimenti storici di Kripke sono a volte fuorvianti, determinando l'assimilazione di posizioni anche molto differenti sotto la vaga etichetta di teorie «descrittiviste» dei nomi propri). Pare dunque che ci troviamo di fronte a esigenze in qualche modo contrastanti. Da una parte il riconoscimento della «rigidità» dei nomi propri sembra indurci a separare in modo netto questa categoria di espressioni dalle descrizioni, dall'altra certe esigenze di natura cognitiva globale (come la significatività di certi enunciati di identità fra nomi propri, o il fatto che solitamente, per esempio di fronte a una domanda, identifichiamp il referente di un nome proprio ricorrendo a una o più descrizioni) paiono riavvicinare nomi e descrizioni. È a questo punto che Kripke compie. un passo decisivo, anche se, per lo meno ai miei occhi, innegabilmente problematico. In sostanza, quello che egli propone è di scindere il problema della portata referenziale di certe espressioni da quello della loro caratterizzazione conoscitiva. Nel caso, per esempio, dei nomi propri di persona, egli ha relativamente buon gioco a dimostrare che se a un nome come 'Aristotele' associamo come suo senso (attraverso una stipulazione di sinonimia) una o più descrizioni definite (per esempio una descrizione come 'il maestro di Alessandro Magno') ci troveremmo di fronte a varie difficoltà: a) diventerebbe tautologico dire che Aristotele è il maestro di Alessandro Magno; b) quindi, dovremmo escludere, per principio, che· un giorno si possa mai scoprire che in realtà Aristotele non fu maestro di Alessandro: se scoprissimo qualcosa del genere, non potremmo infatti dire che ciò riguarda Aristotele, perché l'essere il referente del nome 'Aristotele' implica proprio il soddisfacimento di quella proprietà; c) non si può fare a meno di osservare che, per una quantità di nomi, i parlanti non sono in· grado di associare descrizioni che identifichino in modo univoco il referente di quel nome. Eppure, sarebbe quanto mai implausibile sostenere che, in questi casi, il nome è privo di referente. Certo è vero che molto spesso le descrizioni vengono usate dai parlanti per fissare il referente di un certo nome proprio: un modo molto naturale di rispondere a qualcuno che ci chiedesse 'Chi è x?' (dove la x sta per un nome proprio) è qualcosa del tipo di 'x è il cosi e cosi'. Ma che una certa caratterizzazione concettuale o descrittiva del referente sia un modo opportuno di spiegare l'uso di un nome proprio, non significa che il nome proprio debba a quella caratterizzazione la propria capacità referenziale, cioè il fatto di designare ciò che designa. In realtà, sostiene Kripke, le conoscenze che si hanno circa l'oggetto denotato da un nome proprio possono \"ariare molto da un contesto conoscitivo all'altro (si pensi al modo in cui può variare l'informazione circa un dato oggetto in momenti di tempo diversi o, più semplicemente, rispetto a parlanti diversi), ma questo non significa certo che allora varia anche il referente. Sino a questo punto abbiamo proceduto in termini negativi. Abbiamo cioè detto, con Kripke, che cosa non fa sl che un nome proprio abbia il referente che ha: abbiamo cioè escluso che sia un contenuto descrittivo o concettuale a darne conto (anche se non abbiamo ovviamente escluso che è a contenuti di questo genere che ricorriamo per chiarirci intersoggettivamente quale sistema di credenze può accompagnare l'uso di un nome). Il contenuto in questione ci serve quindi per spiegare come noi, in questo o quel contesto, cogliamo il referente di un nome, ma non perché il nome stesso ha il referente che ha. Il perché dobbiamo cercarlo altrove, e più precisamente in una certa catena storico-causale che parte da un certo atto originario di nominazione (quello che Kripke, concedendo forse un po' troppo ai richiami della suggestione, chiama «battesimo iniziale») e si sviluppa in una serie progressiva di anelli, ogni qualvolta cioè il nome passa di bocca in bocca
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