Alfabeta - anno IV - n. 41 - ottobre 1982

Ripensal:,!,,,,,-lancho,t Maurice Blanchot Passi falsi Milano, Garzanti, 1976 La part du reu Paris, Seui!, 1949 Lautréamout e Sade Bari, Dedalo, 1949 Lo spazio letterario Torino, Einaudi, 1967 O libro a venire Torino, Einaudi, 1969 L'infinito intrattenimento Torino, Einaudi, 1977 pp. 576, lire 10.000 L'écriture du désastre Paris, Seui!, 1980 Emmanuel Lévinas La traccia dell'altro Napoli, Pironti, 1979 pp. 115, lire 4.000 D ai testi «narrativi» di Maurice Biancho!, poco tradotti e poco conosciuti in Italia, emerge una scrittura non narrativa, lenta, circospetta, che descrive, ad onde, azioni e pensieri, anzi, con una frase che piaceva a Sartre, «il pensiero preso per ironia come oggetto da tutt'altra cosa dal pensiero». Barthes disse che l'opera blanchotiana, alla ricerca di un senso originario del linguaggio, è «quella del primo uomo,prima del senso•, «un'epopea del senso, adamitica». Foucault ne sottolineò la portata trasgressiva, nel pensiero del «di fuori» (fuori dal senso, fuori dal linguaggio). Personaggio schivo, con un alone d'assenza (non fa apparizioni pubbliche, non ne circolano foto), legato ai tardo-surrealisti e soprattutto a Bataille (alla cui morte dedicò le pagine stupende de L'Amitié: «Ciò che separa: ciò che mette autenticamente in rapl'esperienza di quel limite, dell'incontro con la morte o con l'abisso: Orfeo, Ulisse. Aveva domandato al canto l'annuncio dell'Altro (da sé) come terra promessa, pensiero erratico che, dalla tradizione ebraica, ha appreso a riconoscere, fuori da sé nomade, la propria meta. Aveva raccolto le leggende dei santi-scrittori che si sacrificano al mondo e al linguaggio (perduti prima in questo, quindi in quello) per portare la loro testimonianza di letteratura, di possibilità di attingere ai limiti della propria voce. Aveva narrato l'avventura dell'opera che, abbandonato l'autore, naviga per il mondo e ripropone, ad ogni approdo, l'inquietudine della propria nascita, l'orgoglio della propria vita stretta tra il ricordo dell'origine e l'urgenza del presente. E ci ricordava ancora, Biancho!, di attendere «nella Storia, quei momenti decisivi dove tutto sembra messo in questione, dove legge, fede, stato, mondo dell'alto, mondo del passato, tutto s'inabissa, senza sforzo, senza azione, nel nulla. L'uomo sa che non ha lasciato la storia ma la storia ora è il vuoto, il vuoto che si realizza, la libertà assoluta che diviene evento. Queste epoche sono chiamate Rivoluzione• (La pari du feu, p. 321). Di quest'attesa messianica, di quel «momento favoloso da cui, chi l'ha conosciuto, non può tornare•, Blanchot ora sembra non poter più parlare: la parola frammentaria che aveva teorizzato come esempio di scrittura della molteplicità, della diversità, del movimento, contro il linguaggio dogmatico, unitario, immobile, ora si trasforma, nelle sue stesse mani, in voce delle rovine, cronaca di un disastro che, atteso, è passato senza esser colto. Perché il disastro, forse, è accaduto da sempre, evento di un tempo non lineare che non smette di accadere: come il trauma della scena primaria nel tempo dell'inconscio (anch'esso un tempo 1"' non lineare, reversibile). porto ...>), fu accanto all'avanguardia l' écriture du désastre è un testo di Tel Quel, ma sostanzialmente lon- singolare che depista quanti tano da un progetto teorico di formali- avevano seguito il filo dell'instica decostruzione del soggetto. trattenimento: tutto ad un tratto ci si I saggi di Biancho!, in Italia, hanno accorge che'la crisi che la letteratura circolato tra chi ne recensiva proprio sembrava annunciare e accompagnal'assenza, la teoria dell'assenza (il re, s'è svolta, tutta, s'è chiusa su un mondo che sparisce nelle parole), da orizzonte di rovine. Alla cultura della Eco della Struttura assente a Barilli di crisi si contrappone allora una cultura Tra presenza e assenza. E ciò nono- del disastro, un sapere della sopravvistante che Leonetti, sul Menabò 8, nel venza che sembra non voler attendere '67, avesse richiamato l'attenzione sul- più nulla, ma già lavorare, ora, tra le la complessità teorica del rapporto macerie della storia, spinto verso il originale che Biancho! individuava tra futuro, come il famoso angelo di Benopera e mondo. jamin. Oggi che è di moda il pensiero della li destino di Maurice Blanchot semcrisi, può essere utile aprire ad una bra essere quello di un misterioso iceriflessione che sposti la precarietà fra berg del pensiero letterario, minacciole rovine della storia e riprenda, di so per quanti navigavano nelle acque nuovo, a ripensare il linguaggio, l'au- tranquille delle scienze del linguaggio tore, l'opera. e del testo degli ultimi decenni. «li disastro è il tempo in cui non si Nella teoria francese, pur frequenpuò mettere in gioco, attraverso il de- tato da tutti - da Barthes a Genette, da siderio, l'astuzia o la violenza, la vita Derrida a Lacan, da Deleuze a Fouche si cerca». Lo «scenario» è quello in cault - rimane un isolato che costeggia cui tutto si è compiuto: la storia, il formalismo, strutturalismo, posttempo, la vita presente, tutto è crolla- strutturalismo, decostruttivismo, con to, andato in frantumi. La crisi, profe- una personalissima rotta che collega rizzata, attesa, delineata, è già passata, Sartre e Heidegger, Nietzsche e Freud, dissolta come il mondo in cui era ger- Bataille e la cultura ebraica. minata: ora, in gioco, è il dopo. È esso Che muove dall'angoscia come iniche richiede la parola, che ripropone zio della scrittura (Passi falsi) per un'esperienza del linguaggio, un 'espe- giungere alla scrittura automatica rienza di conoscenza, appunto la scrit- come utopia dell'opera scissa dal sogtura del disastro. getto (L'infinito intrattenimento). li testo blanchotiano - saggio, fin- Che parte dalla letteratura come zione, memoria - aveva finora lusinga- esperienza dell'essere (sia pure nelle to il lettore con la propria eloquenza: forme dell'Altro, teorizzato da Emaveva parlato della letteratura come manuel Lévinas, in cui appare privo infinito intrattenimento che colma la della volontà di potenza che Heidegdistanza tra l'uomo e il eroprio limite. ger gli attribuiva) per approdare ad 1 e ir g e - o8"ti he i tfea rrvoone dell'opera che «si riempie di storia» e che adempie al proprio destino e alla propria vocazione nel momento in cui diviene, per chi ne fruisce, altro da ciò che in origine era. Cammino difficile, sorprendente, che fa di Biancho! uno dei più nietzschiani tra i teorici francesi della letteratura. In lui la coscienza di un'esistenza autonoma dell'oggetto letterario convive con l'attenzione al momento originario della scrittura, quando questa è esperienza di un soggetto che in essa si adempie e si consuma: i due momenti, legati dallo strutturarsi del linguaggio come forma privilegiata di conoscenza (della storia e di quanto è fuori la storia), convivono in una riflessione solo apparentemente non sistematica, sorretta da uno stile tesissimo, equilibratamente metaforico, che procede attraverso concetti legati a parole-chiave di significato ancipite (mondo, nulla, opera, morte ...), i cui versanti si affacciano su problemi diversi, facendo cosl della parola stessa una cerniera di raccordo per temi creduti spesso lontani. Alle spalle di questo stile e di queste analisi alcune ascendenze identificabili. Se in Passi falsi (del "43). la ritlcssione accompagnava l'esperienza sartriana del nulla, dell'annullamento del mondo verso la nascita dello scrittore («Lo scrittore non è libero di essere solo senza esprimere che lo è... li nulla è la sua materia•), ne Lo spazio letterario (1953), il linguaggio raggrumato nell'opera, fa l'esperienza di ciò che è al limite del mondo, dell'altro che sorge nella morte delle cose, istituisce un tempo e uno spazio (letterario appunto) ritagliati dentro la storia, ma da essa diversi. Esperienza di un mondo dell'origine, pre-storico, l'opera non può parlarne che attraverso le articolazioni del linguaggio (Wittgenstein: «/ limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo•). E se lo scrittore che dà vita all'opera è condannato a chiudere la sua ricerca nella scrittura (Orfeo perde Euridice, ma dà vita al canto), il testo, il libro oscilla tra la perdita del mondo e la propria perdita: l'opera «invece di trarre tutta la sua realtà dall'affermazione pura senza contenuto, quale essa è, diviene realtà sussistente e contiene molta parte dei significati che riceve dal moto dei tempi» (Lo spazio letterario, p. 179). La critica alla metafisica condotta dall'ermeneutica si innesta, in Blanchot, sull'umanesimo esistenzialista e attraverso la mediazione di Lévinas, come si è detto, definisce la categoria dell'Altro. Altro è ciò che si pone fuori dell'identità fissa dell'Essere; Lévinas scrive che «l'ontologia heideggeriana subordina il rapporto con l'Altro alla relazione con quel neutro che è l'Essere e in questo modo continua ad esaltare la volontà di potenza di cui solo l'Altro può compromettere la legittimità e turbare la buona coscienza» (E. Lévinas, La traccia dell'altro, p. 12). La tradizione della cultura ebraica in Lévinas enfatizza la necessità del di fuori da conquistare, terra promessa di cui non si vedranno, forse, i confini. E ripropone anche, nell'allontanarsi senza ritorno dall'Origine, il trauma • del divieto dell'Immagine: «rappresentiamoci un uomo sul quale pesa questa interdizione essenziale che, pena la morte, deve escludersi dalle immagini e che, all'improvviso, si scopre esiliato nell'immaginario• (Lo spazio letterario, p. 65). È la notte di un giorno a venire: il senso teleologico del quotidiano è nell'attesa messianica, nella certezza di un evento che verrà ad interrompere il tempo, ma intanto occorre attraversare la notte, cogliendone il senso, «bisogna vivere e lavorare per il giorno. Ma lavorare per il giorno significa trovare infine la notte, significa allora fare della notte l'opera del giorno, fare di essa un lavoro• (Lo spazio letterario, p. 145). I n questa tensione, il linguaggio lavora nella storia cercandone i sensi più nascosti. L'intrattenimento che l'opera compie nel tempo dell'attesa diviene ricerca di una conoscenza non fenomenica, memoria dell'Origine, rottura del presente, denuncia dell'ideologia, frammentazione della scrittura come taglio del linguaggio totalitario che si presume vicinanza radicale delle parole alle cose. Contro la parola dell'immediato, dell'essere che, assente, è evocato dal linguaggio, la scrittura fonda il testo, opera della lontananza (BretonEluard: «Ciò che è creato è la mancanza e la lacuna»). «È cosl screditata la pienezza omogenea che, non si sa come, si trasporterebbe realmente nel linguaggio e che nel linguaggio si leggerebbe immediatamente( ...) La ricerca dell'immediato passa per l'indiretto» (L'infinito intrattenimen/o, p. 548). È cosl che nasce il progetto dell'opera come grande figura del nodo di rapporti tra il linguaggio e le cose, tra il mondo e ciò che è al suo limite, principio (o fine) della finitezza. Va affiorando in Biancho!, negli ultimi testi, un'idea della parzialità come matrice della conoscenza della vera storia (quella che interpreta il senso delle cose). L'«esigenza frammentaria• da un lato si oppone alla Totalità come linguaggio pieno, autoritario, assertivo, dall'altro suggerisce, attraverso la composizione seriale del frammento, l'idea di una ricostruzione radicale del mondo che le combinazioni quasi infinite del linguaggio sembrano consentire. Dunque la diabolicità dell'arte che, dalle rovine dell'Identità, estrae la sopravvivenza di un mondo. La serie come nuovo infinito (tra il Faustus manniano e il bricolage di LéviStrauss): come materia della finitezza e traccia dell'Origine. Nel pensiero francese degli anni settanta è questo un procedimento speculativo che si diffonde e si articola con la nozione lacaniana di segno (spostamento continuo del significato, a partire dal significato primario rimosso) e l'idea di Derrida della scrittura come ripetizione incessante di un inizio inattingibile («il doppio e la mimesi sono all'origine•). In Biancho! l'istanza della «parola plurale» somma al rifiuto della parola come «voce dell'essere» l'affermazione dell'alterità della soggettività («la passione del di fuori•) come luogo della scrittura («Quando parlo all'altro, -Ja parola che mi riferisce a lui 'compie' e 'misura' quella smisurata distanza», L'infinito intrallenimento, p. 97). Dunque la parola ha senso solo in un rapporto («Perché due? Perché due parole per dire una cosa sola? Perché chi la dice è sempre l'altro•). Cosi il problema dell'origine è calato nella contingenza e nella precarietà dell'opera: grande metafora ancora di un principio perduto (l'autore è smarrito come l'Essere, come la Totalità infranta) e di un'esperienza del limite (il proprio limite come limite di un'esperienza del linguaggio) che è la sponda contro cui compie, di rimbalzo, i propri giochi il testo. Complessa operazione di organizzazione, nell'opera, dei problemi del linguaggio e del soggetto che, tramite esso, fa esperienza del mondo e, di ritlesso, dell'altro. Approdo speculativo dell'ipotesi costruttivista dello strutturalismo: riconoscimento, proprio nella combinazione delle strutture riconoscibili nell'opera, di quella forza, quella tensione del testo che Derrida rivendicava contro la tassonomia strutturalista. L'approdo di Biancho! è, ora, la scrittura del disastro, esito dell'esigenza del frammento e di una letteratura che spezza il presente per parlare di ciò che è sotto la storia. Contro una cultura della crisi, che immagina la crisi come inadeguatezza del linguaggio e fa nascere un nuovo sapere da tale inadeguatezza, dalla descrizione del presente critico, l'ipotesi blanchotiana di una cultura a seguire, in cui il disastro, compiuto perché forse è compiuto da sempre, si sottrae alla descrizione e all'evocazione. Ora la scrittura di Biancho! non annuncia più nulla (se non la fine delle profezie), ma rappresenta la realtà delle rovine, raccogliendole, sospinta verso il futuro, come, lo abbiamo ricordato, nell'allegoria di Benjamin. Una riorganizzazione del discorso a partire da alcuni, minimi, strumenti: il Nietzsche dell'Aurora che mette in guardia dall'affidarsi all'ebbrezza e all'estasi e accusa le «parole pietrificate, rese eterne» per «ritornare al linguaggio come movimento di sradicamento, sabotaggio o di sterminio che è in azione nella parola• (p. 164). Emmanuel Lévinas che raccomanda «l'indiscrezione nei confronti dell'indicibile»: «L'indicibile sarebbe circoscritto dal Dire elevato all'infinito» (p. 176). Ancora dunque la pratica del limite ci fa conoscere i due versanti del limite stesso: il segmento che entra in gioco sostituisce il tutto; l'eternità, suddivisa, diviene transitoria. Nel mondo, dopo il disastro, alla Legge si sostituiscono le leggi, alla sacralità dell'Ordine la molteplicità, la precarietà, la contingenza delle modalità delle trasformazioni, delle alternanze delle sostituzioni (p. 176). E dalla conoscenza cosi possibile emerge un'altra storia, «dispiegamento di una pluralità che non è quella del numero e del mondo: storia di troppo, storia segreta, separata, che suppone la fine della storia visibile allorché si priva di ogni idea di inizio e di fine» (p. 210). Nella solitudine di un presente eternamente ritornante, in cui la « rottura di ogni legame dà il potere di sentirsi al centro di tutto, perché da tutto ci si sente esclusi» (Starobinski su Biancho!), può nascere ancora una teleologia minima, fuori da ogni attesa: il «cambiamento radicale» può arrivare a spezzare il presente. Evento che ac- •cade in un tempo che non si affida all'avvenire, né si ritira nel passato.

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