La rivoluzionferancese Turgot Le ria:bezze, il prognsso e la storia uiversale Torino, Einaudi, 1978 Bamave httrodlldion à la rbohrtion franç,,ise Paris, Colin. 197I Jean Jaurès Historie socialiste de la rivolation ~ Paris, Editions sociales, 1969-73 Alexis de Tocqueville L'utiro regime e la rivoluzione Milano, Rizroli, 1981 Alfred Cobban The milll of llle (rendi revolulion London, 1955; Milano, li saggiatore, 1981 François Furet Penser la rtvolulion française Paris, Gallimard, 1978; Bari, Laterza, 1980 I n questi anni di «tramonto dell'ideologia», in cui si cerca una risposta alla crisi nella critica dei sistemi e nel confronto di modelli interpretativi divergenti, la ormai secolare qutrelle sulla natura della rivoluzione francese, che ha impegnato numerose generazioni di storici in interminabili discussioni spesso di natura più politica che non scientifica, sembra essere giunta a un_a .svotta ccisiva: a una lunga fase caratterizzata dal monopolio di un dogma (di un unico e totalizzante «sistema centrato•) è subentrata una fase che vede invece affermar.;i una dialettica pluralistica di teorie rivali. Per tuttala.prima metà del novecento la grande «storiografia classica• di formazione giacobina e marxista di Matthiez, di Lefebvre, e di Soboul, che ha dominato la ricerca nel campo, ha accettato come postulato di per sè evidente e come «dogma• generale il modello storiografico della «rivoluzione borghese• codificato da Jean Jaurès nella sua Histoire socialiste de la rtvolution française. li carattere fondamentale di questo modello, e ci~ l'idea di una rottura violenta rispetto a un passato e di una brusca accelerazione verso un futuro. in una evoluzione della storia assunta come necessaria, si spiega e si giustifica nell'ambito di una filosofia del progresso che attribuisce all'uomo la particolare e congenita prerogativa di operare un continuo cambiamento di sè stesso e della sua società verso una sempre maggiore perfezione. Questa idea di mutamento viene formulata da Turgot, in un suo celebre discorso del 1750, quando distingue ci fenomeni della natura assoggettati a leggj costanti...» e « ... racchiusi in un cerchio di rivoluzioni che sono sempre le stesse...•, dal c ...succeder.;i degli uomini ... • che, « ... al contrario, offre di secolo in secolo uno spettacolo sempre mutevole• {Turgot,p.5). La stessa filosofia del progresso è all'origine della ltrtroductio11à la révol11tio11fra11çaise di Bamave, che è la prima importante interpretazione storiografica della rivoluzione del 1789 scritta da un suo protagonista, ed è l'opera a cui poi attinge a piene mani Jaurès nella costruzione del suo modello. Ma nella ver.;ione di Bamave, quel mutamento che per Turgot era soprattutto il risultato di «progressi successivi dell'intelletto umano•, diventa il progresso di una civiltà materiale che si realizza in una successione di forme di produzione sempre più complesse: superando gli stadi della caccia, della pastorizia, e dell'agricoltura, si giunge alla fine allo stadio del commercio e dell'industria che pone il lavoro 11mano inteso come lavoro produ11ivo, al L a.) b1 centro di una dinamica di sviluppo che è produzione di «ricchezza mobiliare». A questo punto il cammino progressivo della storia si determina nelle posizioni strategiche dove viene prodotta la ricchezza mobiliare, ed il popolo protagonista di questa nuova forma di produzione è anche al centro di una imminente e necessaria rivo/uzio11e politica: «... non appena le arti e il commercio giungono a penetrare nel popolo e creano un nuovo mezzo di ricchezza a vantaggio della classe operosa, si prepara una rivoluzione nelle leggi politiche; una nuova distribuzione del potere. Cosi come il possesso delle terre ha elevato l'aristocrazia, la proprietà industriale eleva il potere del popolo; egli acquista la sua libertà, si moltiplica, comincia a influire sugli affari• (Barnave,p.9). Citando ampiamente e parafrasando Bamave, e sostituendo il termine •popolo• con quello di «borghesia», Jaurès formula, nella stessa prospettiva finalistica, il suo modello di «rivoluzione borghese»:cla crescita della ricchezza industriale e mobiliare, della borghesia industriale e mercantile, ha a poco a poco diminuito il potere dell'aristocrazia fondato sulla proprietà della terra ...e con la crescita di una classe-nUOVll più industriosa e più popolare, la democrazia borghese si è sostituita all'oligarchia dei nobili...• (Jean Jaurès, tomo I, pp.191-192). e reando una nuova distribuzione del potere, sostituendo la democrazia borghese all'aristocrazia feudale. la rivoluzione del popolo di Massimo Terni dove al centro del movimento progressivo della storia viene sempre individuato un unico protagonista, cioè la lolla di classe tra una classe in ascesa e una classe in declino. Questo conflitto tra classi antagoniste è il motore che dà l'impulso. da un unico centro, al movimento della storia, ed il suo esito è sempre determinante per la totalità della società. Così nella rivoluzione francese la classe in ascesa-la borghesia esce vittoriosa dal conflitto con la classe in declino, la nobiltà feudale- impone la rivoluzione politica del nuovo modo di produzione capitalistico come rivoluzione universale. Come rivoluzione delle grandi masse di sanculotti e di contadini, il cui ruolo politico, quello di mera forza d'urto al servizio della borghesia rivoluzionaria, è necessariamente funzionale al progresso della civi/ization capitalista che inevitabilmente deve essere quello di t1111ala società. Un sistema centrato e totalizzante di questo tipo ha certamente in mente l'abate Siéyès, quando nel suo pamphlet profetico Che cosa è il terza stato identifica la rivoluzione del terzo stato con quella di tulla la 11azio11e: qui il terzo stato è tutto, e i due ordini privilegiati sono niente, non tanto e non solo per ragioni quantitative {l'uno rappresenta la grande maggior~nza e gli altri un'infima minoranza della nazione), ma perchè si vuole spiegare il mutamento, il progresso che è proprio dell'uomo facendo riferimento a un unico ce111ro di propulsione che è quello del lavoro produttivo che crea ricchezza. Perchè. come dice Barnave. «il Garibalcli o bor<lo dtlla lancia Mazzini abbordo e couuro la goltlta Luisa. Barnave o della borghesia di Jaurès attua la rottura definitiva colla vecchia forma di produzione feudale (quella della proprietà immobiliare) e il passaggio irreversibile alla nuova forma di produzione capitalistica (quella della proprietà mobiliare). Una rivoluzione economica ha preparato la rivoluzione politica, e la rivoluzione politica fa da acceleratore alla rivoluzione economica, in funzione di un futuro che è determm1s11camente implicato nella stessa teleologia del progresso. L'unica differenza tra Bu:r.t ..e e Jaurès sta nel fute supremo della teleologia, che per Barnave è la civilizatio11 e per Jaurès il socialismo. Questo modello di rivoluzione, che sia la rivoluzione del popolo di Bamave o la «rivoluzione borghese• di Jaurès ri- .conduce sempre a un sistema centrato, neo cammino naturale delle società è quello di crescere inces~antemente in popolazione e in industria fino a che non siano pervenute all'ultimo grado della civilization ... » (Barnave, p.9). Nell'ambito di questa metafisica del progresso, che unisce la filosofia dei lumi di Turgot e di Barnave al marxismo positivista di Jaurès, va collocato il modello della rivoluzione borghese. La sua validità non è mai stata messa seriamente in discussione finché si è creduto nella validità del sistema filosofico che lo sorregge. Ma venendo meno la fede nell'idea stessa di progresso in quanto necessità connaturata all'uomo, e facendosi invece strada l'idea che la storia dell'uomo può anche essere una storia di «regressi», sono cominciate le critiche al modello di rivoluzione borghese e al suo dominio di unico dogma. L'era del conflitto tra teorie rivali inizia ufficialmente nel 1954 con la celebre conferenza The myth of the fr.encli revolutio11 di Alfred Cobban. Il modello-dogma della «rivoluzione borghese» viene definito un «mito», una favola come quelle che si raccontano ai bambini, e viene liquidato, insieme alla teleologia di cui è parte in quanto non rispondente ai «fatti• della storia. Fatta tabula rasa di questo «mito», che costringe a vedere come protagonisti immaginari del 1789 un feudalesimo già estinto da secoli e un capitalismo ancora in fasce, appaiono invece con l'evidenza di dati empiricamente verificabili i reali «fatti• della storia di quegli anni. Ad esempio il/allo che soltanto il 13 per cento dei membri dell'assemblea nazionale costituente è costituito da negozianti, fabbricanti, e banchieri, cioè da uomini delle professioni più indicative di una borghesia capitalista, mentre la maggioranza è rappresentata da titolari di cariche e da avvocati, cioè da figure professionali e sociali tipiche della società di antico regime. Allora questi «fatti• sembrano suggerire che la rivoluzione è stata l'opera della classe in declino degli officiers che hanno agito a proprio profitto occupando posti di maggiore rilievo nella gerarchia del potere, e hanno procrastinato di alcuni decenni, contro gli interessi di una borghesia in ascesa ma ancora minoritaria, il des~inocapitalista della Francia. Vista cosl a.Ilaluce dei suoi «fatti», e senza l'obbligo di guardare nell'ottica di una teleologia del progresso. la rivoluzione non è più la fase di accelaraZione di un inarrestabile movimento progressivo della storia, ma è invece una fase regressiva che si inscrive ancora nella storia dell'antico regime. Vista cosl la rivoluzione perde la sua necessità e centralità nella dinamica determinista della lotta di classe, per diventare un «fatto• accidentale, quale è quello del ricambio della classe politica ad opera degli officiers (la loro vittoria è casuale e comunque priva di qualsiasi significato universale), e si frammenta in una serie di rivoluzioni, ciascuna delle quali, quella antiassolutista della nobiltà parlamentare, quella giuridico-costituzionale delle élites del terzo stato, quella roussoiano-egualitaria dei sanculotti, quella antiassolutista-antinobiliare e antiborghese dei . contadini, ha una sua particolare ragion d'essere e una sua storia autonoma. E soprattutto, rotto il quadro generale, dogmatico e costrittivo, di una unica e omogenea «rivoluzione borghese», ogni ipotesi diventa possibile, e la discussione è aperta, nello spirito del programma anarchico e anti-metodico di Feyerabend, a proposte interpretative di ogni tipo. A bbattuto il mito di una rivoluzione borghese, il problem:i a cui dare una risposta sembra essere quello del che cosa fu la rivoluzione fra11cese. Ma perchè non chiedersi addirittura: vi fu ima rivoluzio11efra11cese? Perchè ancorarsi, come fa Cobban, all'ultima certezza costituita da quei «fatti• su cui fonda l'esistenza di una sua rivoluzione? Perchè quei fatti e sulla base di essi quella rivoluzione (la rivoluzione degli officiers), e non altri fatti e altre rivoluzioni, e perchè no, al limite e per assurdo, nessun fallo rivoluzionario e nessuna rivoluzione? A questo punto, se si vuole che questo confronto di teorie rivali si traduca in una crescita effettiva della conoscenza, si deve cercare una risposta in un interrogativo di carattere più generale e metodologico: quali sono i veri fa11i della storia? Esaminiamo lo stesso fallo o nonfallo di storia, la presunta borghesia del 1789. Guardiamo da lontanÒ con gli occhi di Cobban, che a posteriori confronta i risultati della rivoluzione con le sue origi11i e fa un bilancio quantitativo che scarta dalla storia le grandezze minime che hanno momentaneamente operato una rottura senza però lasciare tracce durature, e valuta invece rilevanti quelle di maggiore entità la ~~i, realtà è visibile prima della rivoluzione e lo è ancora di più dopo: sono falli di storia soltanto queste grandezze maggiori che stabiliscono una continuità tra il prima e il dopo, tra le origi11i e i risultati della rivoluzione. Vista cosl quella che dovrebbe essere la borghesia del 1789 diventa un 11011-/0110 in quanto grandezza trascurabile: solo il 13 per cento dell'assemblea nazionale costituente, contro·una schiacciante maggioranza di officiers che appare consolidata nelle sue posizioni di potere proprio nel conflitto tra il prima e il dopo. È evidente qui che la pretesa di Cobban di avere fattotab11la rasa di ogni teoria e di avere ricostruito su dati empirici una storia di fatti è disattesa: sta invece proponendo un"altrateoria della rivoluzione basata su certi falli selezionati nell'ottica di una sua filosofia, di un suo bilancio della storia, che guarda11do da /01110110 allelu11ghe durate vede soltanto leco11rùwità stempera e in tale continuità annulla ogni aspetto di rottura. Guardiamo ora da vicino con gli occhi di Barnave che nella breve durata del suo presente non può e non vuole vedere la rivoluzione in un rapporto di continuità con l'antico regime, ma anzi la vive come rottura totale con il passato e proietta la piena realizzazione di tale rottura nei mutamenti di un futuro che immagina già pre-determinato dal progresso economico. Quando contrappone la proprietà mobiliare alla proprietà immobiliare e definisce la rivoluzione come vittoria del terzo stato che produce ricchezza contro la nobiltà oziosa e improduttiva, non descrive necessariamente la società qual era e in cui ancora viveva (che era costituita anche da quei falli che Cobban ha evidenziato), ma esprime piuttosto la visione di quella società che è compito della rivoluzione attuare, che corrisponde più al programma della rivoluzione che non alla società reale di allora. ] In questa prospettiva, il ragiona- ~ mento quantitativo di Cobban perde la "l;
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