Alfabeta - anno IV - n. 32 - gennaio 1982

Tito Perlini, Claudio Magris «La cultura di massa ridotta a spettacolo», e «Eros di massa in feste eraduni», in Il Corriere della Sera 6- 7 ottobre I981 Beniamino Placido «Apriamo quell'arca per fare uscire Superman e Amleto che sono in noi», in La Repubblica, 30 ottobre 198 I Pier Aldo Rovatti «L'attivismo degli intellettuali», in Alfabela n. 30, novembre 1981 Luigi Berettoni lettera ad Alfabeta n. 30, novembre I98 I Mario Perniola La società dei simulacri Cappelli, Bologna, 1980 pp. 198, lire 5.500 I / diballito sulla spettacolarizzazione della cultura degli ultimi mesi ha tratto impulso soprattutto dall'intervento dei Dioscuri: Magris e Perlini. L'archetipo dei Dioscuri, per le sue suggestioni soteriologiche, è particolarmente adauo a questi tempi di crisi di tutti i Valori, tanto da aver affascinato anche noi. Ma non accampiamo dotti pretesti: la verità è che ci siamo lasciati sedurre dalla moda dell'intervento a due voci. Eccoci smascherati: scherani di Nicolini, militanti de~'Effimero, in lolla a fianco di Vauimo colllro gli «ayatollah». Fuori di bauuta, la nostra dichiarazione di disponibilità nei confronti della moda culturale vorrebbe affiancarsiad un tentmivo ditmdareal di là di una accezione banale di questa nozione, da tulli data per scontata, senza schierarci in nessuno dei due campi contrapposti, dato che, allo stato auuale, né l'uno né l'altro ci soddisfa. Questo rifiuto di prendere posizione nasce dal fatto che, pur inclinando di più dalla parte di coloro che si aprono al nuovo piuuosto che da quella dei fustigatori di costumi, gli uni e gli altri ci sembrano incapaci di ripensare il ruolo dell'intelle11ualenella condizione postmoderna. Peresserepiù chiari, certe prese di posizione a favore dello «speuacolarismo» sono talmente cariche di distinguo, riserve mentali, contraddizioni, da rilevarsi puramente tattiche. Citiamo un unico esempio, scelto un po' arbitrariamente in un repertorio ormai inflazionato: andando alla scoperta di nobili ascendenze letteiarie per I predatori dell'Arca perduta di Spielberg, Beniamino Placido (La Repubblica, 30 ouobre 198 /)accostala scena della lotta fra il protagonista e il gigante con la scimitarra nel mercato atl un'analoga situazione ideata da Mark Twain in Un americano alla corte di re Artù. In entrambi i casi le aspettative del leuore (spettatore), che le righe (immagini) precedemi avevano immerso in w, codice di comportamenti arcaico (lotta a corpo a corpo all'arma bianca) vengono tradite: ci si aspetta una lotta impt1ri fra il gigante con la spado e l'eroe a numi mule: invece l'eroe estrae una pistola, fa fuoco, e si sbarazza con irrisoriafacilità del poderoso avversario. Ecco nobilitato il film, mao/ tempo stesso-dice Pltlcido-ecco riconosciuta la sua matrice inequivocabilmeme reazionaria, come (sembra di capire) tutto l'immaginario internazional-popolare che abita il nostro inconscio collettivo. Al fondo di questo ed altri discorsi c•~ una concezione terapeutica della nuova spellacolarità: frequentiamo pure Capitan Uncino, Superman, Mantlrake, che sono peraltro parenti dei più nobili Oblomov, Raskolnikov, Julien Sorel; giochiamo pure con i contem , I/' Arca, con le casse polverose dei le deposito dell'immaginario. I:'. .. dimostrato che ciò non può Cultura come spettacolo Dallaparbt~!.pt ubbr1eo essere eliminato, altrimenti si prende pericolose rivincite. Con «loro», «si gioca», «si tratta», dice Placido, «cosl si tengono a bada»; almeno finché non sarà venuto qualcosa a sostituire quella «critica, riflessione e resistenza» di cui Magris e Perlini lamentano l'ec/i.sse. Nel frattempo siamo in libera uscita; possiamo frequentare, senza dare troppo ne/l'occhio, i quartieri seducenti ma t!quivoci dell'immaginario collettivo che si rifleue nella cultura di massa. Stando cosi le cose non ci sentiremmo di dar torto a Magris e Perlini, al loro elogio del rigore, al loro recupero della «fedeltà alla forma». Pier Aldo Rovai/i (cfr. «L'attivismo degli intellettuali», in Alfabeta n° 30, novembre I 98I) come noi non sembra ansioso di schierarsi a questo livello di dibauito, e tenta di spostare l'asse del discorso su un piano che, tuttavia, ci lascia anch'esso freddi: la pur legiuima rivendicazione di pari credito teorico ai Deleuze, Lacan, Prigogine, rispetto ai Classici, non fa fare passi avanti al nostro problema, che non è chi leggere, ma chi legge e come leggere (chi guarda e come guardare, chi ascolta e come ascoltare, ecc.). Le conclusioni di Rovatti sono deludenti rispetto all'avvio del suo articolo, che sembrava mettere il ,lito sulla piaga, sollevmulo il notlo tli Lo stivale destro di Garibaldi forato dal proiettile. (Museo Garibaldino del Campidoglio). fondo, che è quello del pubblico. È sul problema del pubblico che bisognerà prima o poi schierarsi veramente, dire da che parte si sta. Uno dei campi è ben definito: è quello di chi teme, odia e disprezza il pubblico. In questo senso tale Luigi Berettoni (autore di una leuera ad Alfabeta, pubblicata sul numero 30) è stato assai più chiaro dei suoi dotti e famosi compagni di strada, parlando di «pubblico piccolo borghese o proletario senza identità». Un giudizio nato soprauuuo dal fastidio che il razionalismo «di sinistra» ha sempre provato di fronte al fascino che i simboli veicolati dalla cultura di massa esercitano, al di là degli strati sociali e della collocazione politica. Aueggiamento che ha spesso condouo gli strati culturalmente egemoni del movimento operaio a consegnare la creatività mitopoietica delle nwsse nelle mani del fascismo (cfr. Carlo Forme11ti, « Il fascino dell'ombra» su Alfabeta n° 26127, luglio-agosto 1981). Non altrettanto ben delineato è I' altro campo. Anche chi invita ad affrontare a viso aperto il pelago speuacolare, non lo fa senza arricciare il naso: «l'acqua non è delle più limpide, siamo d'accordo, man ci troviamo (e non da un'altra parte), e se c'è un'istanza cullu• raie prioritaria è quella di avvicinare lo sguardo, analizzare l'habitat, studiare i fenomeni specifici, rintracciare fisionomie e identità» (è ancora Rovatti nell'articolo già citato). L'acqua sporca sta un pò n a rappresentare la paura di essere riassorbiti nell'anonimato della produzione e del consumo culturale di massa; un rischio che può essere accettato solo perché è l'unica viaper tirarne fuori il bambino. Per Rovatti il bambino sembra essere un pubblico da strappare ad una certa «assenza», ad un «di.stacco»che gli impedisce di camminare con noi alla ricerca di nuovi oriz• zonti culturali. Ci pare qui di sentire un'eco non molto lontana della vecchia illusione illuministica dell'avanguardia politica. Finché questa illusione non sarà morta e sepolta non esisterà veramente il campo cui vorremmo apparte• nere: quello di chi sta decisamente dalla parte del pubblico. Ma esisterà mai veramente? Non dobbiamo rifiutarlo come una resa senza condizioni al/' industria culturale, un'abdicazione al nostro ruolo critico? E noi che ne parliamo non siamo forse portatori di una sorta di snobismo an• tintellettualistico, patetica riedizione delle sessantottesche aspirazioni ad «andare verso il popolo»? A nostro parere non si trattadi sceglierese debba esistere: «stare dalla parte del pubblico» non è una scelta, ma la necessità di assumere coscienza di una condizione e di imparare ad operare in questa condi• zione. li problema è: ha ancora senso ragionare in termini di contrapposizione fra sapere «alto» e forme di cultura «basse•? Questa metafora topologica rispecchia il modo in cui la modernità ha guardato ali'antica separazione fra scienza e filosofia da una parre e mito e altre forme di sapere narrativo e/o empirico dall'altra. Metafora spaziale per una separaz.ìoneche riguarda piuttosto due dimensioni temporali dell'esperienza umana: quella - «immobile» etl apparentemente priva di direzione evolutiva-dei gesti e delle relazionì quotitliane, rimasti immutati auraverso i secoli e governati dalla ritualità e da un simbolismo archetipico; e quella, dinamica e storicamente orientata, della evoluzione degli stili culturali di progettazione e appropriazione politiche del mondo. La modernità hasottolineato l'opposizione fra questi due mondi, non per esasperarne l'antagonismo, ma al con• trario perché il dualismo fra «natura• e «cultura» doveva servire da mascheramento dialettico del cortocircuitQche il modo di produzione capitalisticocrea fra le due dimensioni. Non si traila più di progeuo culturale di sfruttamento delle potenze produuive naturali, ma di trasformare direttamente e radicalmente il modo stesso di operare di queste ultime. Sussunzione reale del processo lavorativo sotto il processo di valoriz• zazione: nella formula marxiana è sin• tetizzato l'evento che, ne~'arco di pochi decenni, liquida un patrimonio millenario di tecniche, comportamenti e saperi produttivi, incorporandoli nel macchinario della fabbrica capitalistica. Lo storicismo moderno non fà che regi.strare l'impossibilità di nuovi equilibri fra le due dimensioni temporali: la rivoluzione ininterrotta del capitale estt111dperogressivamente i suoi effetti dalla produzione materiale a tutte le altre sfere della riproduzione sociale. La postmodernità è l'ultima tappa di questo percorso: in quanto scienza capitalistica, il sapere «alto» finisce per applicare a sé stesso i suoi processi tecnici di produzione e riproduzione. La spettacolarizzazione non sarebbe quindi che l'ingresso della produzione capitalistica del sapere nella sua fase matura: in quanto prodo110, il sapere subisce gli stessi processi evolutivi delle altre merci nel passaggio alla fau postindustriale (terziarizzazione, aumento della componente servizio del protlotto, forte sostegno promozionale e pubblicitario, crescente importanza della circolazione rispello alle fasi di produzione diretta, ecc.). In particolare, avviene che forme di sapere «alte» e «basse» siano veicolate dagli stessi apparati distributivi (i mezzi di comunicazione di massa), che impongono una certa uniformità del modo di trasmissione, e che, per motivi di estensione del mercato, siano le seconde ad 'uniformare' le prime. Uso capitalistico della cultura di massa contro lacultura popolare e proletaria e il sapere critico di avanguardie politiche e intellettuali democratici? Si traila di un punto di vista semplici.stico. L'impatto dei nuovi prodotti culturali infatti non è meno corrosivo nei confronti dei valori del sapere tradizionale delle classi dirigenti; di qui la sensazione di «ambiguità» che essi trasmettono, l'impossibililà di connotarli ideologicamente in modo preciso. Più vicina al cuore dei fenomeni in atto sarebbe una riflessione sul fatto che la progressiva liquidazione delle strutture sociali eh, permettevano di vivere.collettivamente l'esperienza mitico-rituale comune a tutte le culture umane sembra aver sot• tratto ad ogni controllo il corredo simbolico legato a tale esperienza. I:'. come se quest'ultimo si sviluppasse ormai liberamente, in modo autonomo da ogni struttura culturale, una sorta di calderone sincretistico in cui vengono a confluire i relitti de/l'immaginario colleui,·o di ogni epoca e di ogni ltwgn. La calza che Garibaldi portava ad Aspromonte.(Museo Garibaldino del Campidoglio). interagendo fra di loro e ogg,nivandosi nell'apparato tecnologico dei media, fino a costituire una sono di «repertorio» di immagini in grado di determinare i modi di produzione e di trasmis• sione del sapere. Ma se si sta veramente sviluppando questa megastruttura de/l'immaginario postmoderno, non è detto si tratti necessariamente di una nuova forma di oggettività, di «natura», destinata a schiacciare qualsiasi aspirazione al miglioramento del nostro vissuto soggettivo. È nostra convinzione che sia al comrario un evento che offre allacultura occidentale la prima occasione storica di sottrarsi allamorsa millenaria della paranoia metafisica. Ne sono un sintomo proprio il distacco, la «curiosità indifferente•, l'opportunismo pragmatico, e il 'misticismo' carico di ironia (tanto da risultare un misticismo sui generis) che caratterizzano le masse dei consumatori di eventi culturali più o ,~eno spettacolarizzati. Sta nascendo una coscienza diffusa del fatto che la megastruttura si lascia usare - può «servire» a qualcuno o a qualcosa - solo se si accetta a nostra volta di servirla; in altre parole, solo non opponendo resistenza, solo lasciandosi attraversare dal jiusso dell'immaginario collettivo, senza subirlo passivamente ma arricchendolo con minimi impulsi soggettivi di orientamento, si possono ouenere certi risultati 'politici'. Se abbiamo capito bene il senso di una nozione proposta da Mario Pernio/a (cfr. La società dei simulacr~ Cappelli, Bologna, 1980) è un po' la filosofia del/' «operatore culturaJlbliotcCaQl110bianco le»: è necessario rinunciare ad una progeuualità di stretto controllo dei contenuti politici dei flussi culturali; occorre piuuosto influire sulla loro direzione storica producendo microdifferenze nella loro struttura formale. Non I un caso che simili principi politici in campo culturale (che ripropongono l'antica strategia taoista del wei wu we~ dell'agire non agendo) siano teorizzati da intelleuuali di formazione prevalentemente estetica. Riteniamo infatti che a ciò non sia estranea la precocità con cui laproduzione artisticaha perso la sua aura rispetto ad altri campi di auivilà culturale contemporanea (tanto che le Avanguardie artisrichedel nostro secolo hanno spesso anticipato pratiche che emergono altrove solo oggi, in particolare me11endoali'ordine del giorno quella critica del soggetto che per alrrioperatori sembra ancora di là da venire). Non abbiamo qui lo spazio di verificare questa ipotesi; in ogni caso, qualunque sia la sua matrice storico-culturale, si tratta di un punto di vista che presenta non poche analogie con ceni comportamenti operai fra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, capaci di ribaltare i rapporti di forza in fabbrica col minimo sforzo, seguendo le linee di minor resistenza per realiuare possibilità già iscrille nella materialiJàdell'apparato produuivo. Forse i ora più chiaro cosa intendiamo con lo slogan «dalla parte del pubblico». Le avanguardie operaie di fabbrica rifiutavano ogni sovrad~rminazione da parte delle avanguardie politiche, presunte interpreti della coscienza «soggeuiva» della classe, e si rapportavano allepratiche di massa del movJmento, spietatamente «osg~ttive», ma proprio per questo capaci di riconoscere ne~apparato tecnologico di sfruttamento i segni in esso impressi dall'immaginario sociale delle lolle e di rivolgerli contro il comando capilalistico. Allo stesso modo la figura dell'op,- ratore culturale si delinea come_,rifiuto dell'aura soggettiva del pensllro crilico e come emergenu, delle pratiche di resistenza che si sviluppano dentro il consumo culturale di massa. Col titolo cCultun come spettacolo• Alfabe1a intende intervenire con una serie di precisazionj su un tema che ~ venuto assumendo rilievo nel djbattito culturale degli ultimi mesi a partire soprattutto dagli interventi di Oaudio Magris e Tito Perlini (cLa cultura ridotta a spettacolo» e cEros di massa in feste e raduni». Corriere della S,ra, 6 e 7 ottobre 198I), di Gianni Vattimo (eGli aya10Uahsono fra noi•. L' Espresso, l novembre 1981) e di Pier Aldo Rovatti (eL'attivismo degli intellettuali»,A//abela n° 30. novembre I 981). In sintesi le posizioni espresse erano le scguen1i: seoondo Magris e Perlini la cultura ridotta a spettacolo autorizza atteggiamenli di compiacimento verso la confusione e la retorica dell'inesprimibile, un'orgia dell'indis1into che le forze politiche tendono opportunisticamente ad assecondare invece di analizzare criticamente con gli s1rumenti della cultura autentica; Vattimo denuncia questa presa di posizione (accomunando Albcroni, Severino e Cacciari a Magris e Perlini nella qualifica di cayatollah» della cultura) come il frutto di una concezione patetica dell'esistenza (ricerca dell'autenticità) e di un adomismo di ritorno in cui eia cultura sta al di sopra della vita»; Rovatti infine riconosce che nell'invettiva di Magris e Perlini c•~ qualcosa di vero, che riguarda gli atteggiamenti del pubblicodellospeuacoloculturale, ma agg:j.ungeche vanno evitate semplificazioni eccessive: quando la linea che separa il vero dal falso non t più unica le scomuniche non bastano, si tratta piuttosto di •sapere che libro leggerò domani, e a chi darò credito»; sono Deleuzc. Lacan e Prigogine meno at• tendibili di Nietzsche, Adorno e Benjamin? Caronia e Fonnenti si inseriscono nella discussione ancora con taglio analitico generale; occorre oggi valutare concretamente anche singoli eventi esemplificativi delle dinamiche della spettacolarizzazione.

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