Alfabeta - anno IV - n. 32 - gennaio 1982

Verifich,1etografiche r R. Barthes La camera chiara. Nota sulla fotografia Torino, Einaudi, 1980 pp.124, lire 6.000 Critica e verità To_rino,Einaudi, 1969 F. Vaccari Fotografia e inconscio tecnologico Modena, Punto e virgola « Lo spelfatore 11011 è colui che 11011 comprende, che si scamlalizza, che odia, che ride; lo spe11a1oreècolui che comprende, che simpmizza, che ama, che si appassiona. Tale spellatore è altre11a1110sca11daloso che /'aurore: ambedue i11/ra11gonol'ordine della co11ser11a~io11e ch chiede o il silenzio o il rapporto in w, li11g11aggiocomune o medio.» E ntro in una sala cinematografica di ... Riesco appena a sedermi che già (ri)comincia ciò che\:.edrò. Un film dal montaggio strano (ndn ne ho mai visti così) in bianco e nero, non molto vecchio (credo 1970- 1972). Si chiama «Le verifiche». Più tardi (nel tempo) sono uscito dalla grande sala di ... Voglio parlare di ciò che ho visto. Luoghi dell'immagine di se slessi Lo specchio è l'ombra. Due doppi. Ma il calcolo è più complesso. Dunque: il negativo & il positivo (UN doppio). L'immagine & lo specchio (UN doppio). L'immagine & l'ombra (UN doppio). 1+1+1 =3. (C'è pericolo che l'anima se ne vada via, confusa). Come ci si autoritrae? Il mezzo di cui si fa uso è un ritardatore meccanico dell'apertura dell'otturatore, l'autoscatto. li gioco è noto. Dapprima, il soggetto dell'enunciazione determina messa a fuoco, tempo, diafram1'}a. Si innesca (poi) il ritardatore, il sostituto del soggetto dell'enunciazione; si compie un breve viaggio verso il luogo ove si attua la posta del gioco. (Prossemica fotografica. L'autoscatto ritarda a dieci- dodici secondi. Di quanto ci si sposta in questo tempo della macchina? Quattro, cinque, sette metri, non di più. Percorrere più spazio comporta un rischio, ci si avvicinerebbe troppo a quel punto di fuga oltre il quale cadrebbe la definizione di autoritratto). Posa, il soggetto dell'enunciato. Questa è la diffusa pratica del farsi fotografie. Una pratica schizofrenica. Vi è un'esperienza più diretta. Servirsi di una superficie riflettente e fotografar(si) con la macchina sul viso. Attività che svela, direttamente, nell'enunciato l'atto dell'enunciazione: cioè, la macchina che cancella il viso del fotografo, perchè all'altezza dell'occhio. Concomitanza rigida, lo sguardo ciclopico rende vana l'operazione di (auto) riconoscimento. (Dolorosamente. Una linea di cesura segna il volto e il corpo. Decapitazione del desiderio). Conviene allora pensare, più che ad un sistema dato al fotografo, al lavoro della macchina per (auto )ritrar(si). Ella grida incontro: lo, non Tu ... (Qualcosa mi tocca e spinge- «l'ossessione di essere presente» - come rendere fattibile, qui ed ora, il non veder(si) mentre si vede?). C'è un gusto naturalistico che-ci comanda di essere più presenti quando più sarebbe bello abbandonarsi ai passi della posa davanti all'obiettivo. Ricordo con precisione che allora avevo pensato, più che al termine gusto, alla parola sortilegio. Un sortilegio naturalistico. Ugo Mulas dice il vero o dice il falso quando afferma di essere lui il ritratto della verifica numero due? Fare la verità. Come cercare in quel viso privato delle tracce, un segno? Quale segno? Su che punto è situato l'inizio del pensiero che mi fa dire questo è..., quest'altro è ... ? L'attaccatura dei capelli, la fronte .... non riuscirò mai a trovare soggetto (se stesso) compiono un percorso di andata (dalla macchina al soggetto) e di ritorno (dal soggetto alla macchina). Uno scarto minimo rende, però, differenti le traiettorie. Lo sguardo d'andata, che _è,realmente, su Nini, non potrà mai (la via senza gioia) sovrapporsi al ritorno del sè differito che lo guarda. L'autoritratto si perde, confuso, ai limiti del campo di visione dell'occhio. Alla ~ua periferia. il viso Due «verifiche» di Ugo Mulas (Torino, J::immdi) quel che cerco, un punto dal quale partire lo sguardo. Solo, si arriva dove c'è la macchina, sempre. Che si sovrappone al corpuscolo «auto» (di autoritratto), offre sè completamente alla volontà di sapere. Può bastare? («Forse, qui come nel successivo autoritratto con Nini, c'è l'ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare coinvolgendomi. O meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può nè sopravvalutare nè sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente») Non ci si vede e non ci si vedrà più. Sullo stesso fotogramma insieme a Nini. Gli sguardi in macchina. Uno: lo sguardo di Nini, presente. Due: lo sguardo di Ugo, non assente ma generato altrove. Sguardo di un doppio non dalla, ma sulla superficie planare (lo sguardo boomerang).Sullo stesso piano, Nini appare perfettamente incisa; Ugo non è a fuoco. Immagino uno specchio alla destra e sullo stesso piano di Nini. Ugo la guarda lungamente ( ne ha fatto il punto di messa a fuoco); lo specchio riflette lui che guarda Nini. L'immagine allo specchio guarda in macchina ma non è guardata dalla macchina. Gli sguardi del fotografo e del suo sfugge alla vista. Mi sfugge qualcosa: c'è differenza tra il lavoro di chi rimane dietro la macchina e inevitabilmente (si) fotografa il gesto di fotografar(si) e il lavoro del soggetto che stabilisce al di là della macchina un punto possibile (dove tra qualche secondo andrà a collocarsi) e differisce se stesso? Pratica che chiama a sè più partiture, l'autoritratto differito somma le operazioni dell'Operator e del soggetto che viene fotografato. Lo scatto della macchina libera dal1a scissione e ridistribuisce i due luoghi, dell'oggetto, lo Spectrum che si guarda, e del soggetto, lo Spectator, che lo guarda. (L'atto dello Spectator, il guardarsi dopo, prevede una teoria del ritrovamento che chiede una fondazione. Scienza del piacere, dell'angoscia, dello stupore dello sguardo che trova o che perde, Barthes 1980). Il ritratto di sè, presente, richiede una separazione dalle pratiche automatiche della fotografia. Penso: riuscir,ò a fotografarmi senza che la macchina si accorga che sto per farlo? Sostituire: cerco una giustezza nel-- l'operazione. Uno scambio di qualcosa con qualcosa d'altro, che abbia uguale valore d'uso. («Ora, la frontalità che cosa è? il portare sullo stesso piano i concetti sulle cose semplici, portare all'immediatezza qualsiasi concetto, che non f?i bik)tecag I nob1anco r nasconda niente e che non frapponga tra te e la cosa alcuna mediazione ideologica o mitica. La scrittura, la poesia, o la musica tridimensionali, anche quelle moderne, vivono di mediazioni: l'opera non si presenta come un oggetto immediato ma come una elaborazione ... , si trascina con sè dei pesi che diventano la sostanza dell'arte. Mentre la frontalità cerca di liberarsi da quel tipo di sostanza per restare l'essenziale dei concetti, l'origine e gli scopi primari del fare .... Tutti i concetti primari hanno lo stesso valore, vivono nello stesso piano.•) Vi è una possibilità precisa di autoritrarsi rimanendo dietro la macchina. Abbandonare completamente l'idea di un viso splendido che guarda, e privilegiare, spostando l'inquadratura, altre parti di sè, sostituire con ... Questo significa ritrarre i piedi, i polpacci, le ginocchia, le coscie, forse il bacino. Denominando autoritratto una foto del proprio piede, si opera una sostituzione. L'ossessione della propria immagine. (Quando non ci si ama abbastanza, non interessano le foto di sè; bisogna amarsi per interessarsi alla propria immagine.) Come costruire una pratica analitica della fotografia? La bobina va avanti. Ho visto due mani (dell'autore); le guardavo, fisse, da breve distanza. Sullo schermo, per trenta minuti, ho guardato quelle mani. La verifica numero 7 è sul laboratorio. (La mano destra - in negativo - sviluppa; la mano sinistra-in positivo - fissa. Asimmetria di funzioni. La mano sinistra regge la fotocamera, regola il fuoco, prepara lo scatto. Quando tutto è pronto, la mano destra, ·il suo indice, preme il pulsante che fa partire i meccanismi. Le funzioni cosi sono disposte, ad assicurare alle due mani il mantenimento di un regime che vuole la mano destra vittoriosa sulla sinistra. L'una comanda e l'altra obbedisce.) «È la mia verifica del laboratorio, cioè un'operazione in cui la macchina fotografica è esclusa ... » lo, le mani, le considero come un autoritratto possibile. Luoghi del tempo e del possibile Il tempo fotografico è una matrice quadrata di trentasei rettangolini tutti uguali («Foto dopo foto, ... l'immagine resta immobile, perchè sono sempre rimasto nello stesso punto e i movimenti del pianista così piccoli in un grande spazio non sono percepibili...•). Il tempo! Il tempo! Come posso dire se questo pianista (ma è un pianista? O non piuttosto un accordatore, un curioso,"un simulatore, uno che non ha mai studiato la musica, un manichino vestito da pianista, ...) ha suonato il Nabucco di Verdi o se ne ripeteva invece una sola nota per trentasei volte? Con la mente sono altrove. Non guardavo più il tempo, ero ritornato indietro, pensando forse a ciò che avevo visto. Ho una fotografia in testa, sempre e solo quella, i baffi, la bocca, il naso di Fontana. È un ritratto. Penso spesso a quel ritratto. («Forse con una punta di sfida Fontana mi spiegò che non era il caso, che come l'occhio valevano le basette, come la mano i baffi, la cintura, i calzoni:; una cosa valeva l'altra•). Si può provocarlo nuovamente il problema. Quale musica stava suonando, se suonava, il pianista? Qualcosa di ossessivo, che in ogni caso ripete solo se stesso. Trentasei fotogrammi in un fotogramma, ripetuti a diciotto o ventiquattro il secondo per trenta, sessanta, novanta, centoventi, centottanta, duecentoquaranta, ... secondi, una metodicità vertiginosa. (La pazzia del tempo ha piantato il suo vessilosul mio cranio, da trionfatrice). Allora l'ultimo tempo che mi rimane, dicibile, è quello della progressione didascalica data dai numerini che corrono lungo i fotogrammi. Da due a trentasei A. I numerini adducono la verità che mi interessa (il pianista sta veramente muovendosi nel tempo, la musica si sviluppa e non si ripete. «Se non ci fossero si potrebbe pensare a trentasei foto ripetute•). I numerini sono l'estrema testimonianza di un tempo che scorre nella realtà (il senso dello scorrere del tempo che io ho), micro-misurazione in termini aritmetici sul baratro (un tempo sul confine) del non-dicibile (non conosco). Di fronte a questa misura mi arresto spaventato. Cerco di parlare di questo tempo. (Io lo chiamo tempo!). Non è (un) presente, non è (un) futuro, posso pensare che non è neppure (un) passato. È un tempo alieno, fermo ma che tuttavia non riesco a fermare. Una volta fotografata, la mano del pianista riuscirà mai a scendere sulla nota? (I cavalli di Muybridge non taglieranno mai il traguardo). Fo~e un tempo da mettere in relazione con la morte. Non so. Subito si apre una crepa che (per)corre tutto attorno, untaglio che aprendosi mi dice di seguire con lo sguardo il verso. (Un evento). Sto entrando in una terra silenziosa - ma ci potrebbe essere una attività febbrile, una storia di spiriti convulsi, il rumore di ultrasuon·i -, riuscirò a comunicare? (Una nuvola non dominata, ... il Caos. Buco del linguaggio). Se mi fermo, guardo. Ci parleremo? (Viaggio allucinante. Miniaturizza-

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