Oitto tra le facoltà di un soggetto, la facoltà di pensare qualcosa e la facoltà di «presentare• qualcosa. C'è conoscenza se, anzitutto, l'enunciato è intelligibile e se, poi, si possono trarre dall'esperienza dei «casi• che gli «corrispondono•. C'è bellezza se, in occasione del "caso" (l'opera d'arte) dato dalla sensibilità senza alcuna determinazione concettuale, il sentimento di piacere indipendente da qualsiasi interesse suscitato dall'opera genera l'appello a un consenso generale di principio (che forse non sarà mai ottenuto). li gusto attesta in tal modo che tra la facoltà di pensare e la capacità di presentare un oggetto corrispondente al concetto, si può provare secondo il modo del piacere un accordo non determinato, senzaregola, chedà luogo a un giudizio che Kant chiama riflettente. li sublime è un altro sentimento. Ha luogo quando, invece, l'immaginazione non riesce a presentare un oggetto che viene- foss'anche in via di principio - ad accordarsi con un concetto. Abbiamo l'Idea del mondo (la totalità di ciò che è), ma non abbiamo la capacità di mostrarne un esempio. Abbiamo l'Idea del semplice (il non-scomponibile ), m;, non possiamo ili ustrarla con un oggetto sensibile, che ne sarebbe un caso. Possiamo pensare !'assolutamente grande, !'assolutamente potente, ma qualsiasi presentazione di un oggetto destinata a «far vedere• questa grandezza o questa potenza assoluta ci appare dolorosamente insufficiente. Sono queste le Idee di cui non vi è rappresentazione possibile, e che quindi non fanno per nulla conoscere la realtà (l'esperienza), interdicono quel libero accordo delle facoltà che produce il sentimento del bello, impediscono la formazione e la stabilizzazione di un gusto. Le si possono chiamare impresentabili. Definirò moderna l'arte che dedica la propria «piccola tecnica>, come diceva Diderot, a presentare il fatto che vi è dell'impresentabile. Far vedere 1 cbe ç'è q~~lço~ che si può pensare e che non si può né vedere né far vedere: ecco lo scopo della pittura moderna. Ma come far vedere che c'è qualcosa che non può essere visto? Kant stesso indica la direzione da seguire designando l'informe, l'assenza di forma, come un possibile indizio dell'impresentabile. Parla anche della astrazione vuota provata dalla immaginazione nella ricerca di una presentazione dell'infinito (altro impresentabile): questa stessaastrazione è come una presentazione dell'infinito, la sua presentavone negativa.Egli cita il «Tu non farai alcuna immagine scolpita>, ccc. (Esodo, 2, 4) come il passaggio più sublime della Bibbia, nel senso che vieta qualsiasi presentazione dell'assoluto. Non c'è bisogno di aggiungere molto a queste osservazioni per schizzare una estetica della pittura sublime: come pinura, essa «presenterà> ovviamente qualcosa, ma negativamente, eviterà quindi la figurazione o la rappresentazione, sarà •bianca• come un quadrato di Malevitch, farà vedere solo vietando di vedere, darà piacere solo recando pena. Si riconoscono in queste istruzioni gli assiomi delle avanguardie pittoriche, nella misura in cui esse cercano di fare allusione all'impresentabile attraverso presentazioni visibili. I sistemi delle ragioni in nome delle quali o con le quali questo proposito ha potuto sostenersi o giustificarsi meritano una grande attenzione, ma possono formarsi solo a partire dalla vocazione al sublime, per legittimarla, e~ per mascherarla. Restano inspiegabili senza l'incommensurabilità della realtà rispetto al concetto implicata nella filosofia kantiana del sublime. Non mi ·propongo di analizzare in dettaglio, in questa sede, il modo in cui le varie avanguardie hanno per cosi dire umiliato e squalificato la realtà cercando i mezzi per far credere che si trattasse solo dell'azione di tecniche pittoriche. La tonalità locale, il disegno, la mescolanza dei colori, la prospettiva lineare, la natura del supporto Garibaldi nella buuag/iu del 30 giug110.(Civico Raccohu ,te/le Stampe, Miltmo). e quella dello strumento, la «fattura>, il modo di esposizione, il museo: le avanguardie non smettono di stanare gli artifici di presentazione che permettono di asservire il pensiero allo sguardo, e lo distolgono dall'impresentabile. Se Habermas, come Marcuse, considera questo lavoro di derealizzazione come un aspetto della «desublimazione• (repressiva) che caratterizza l'avanguardia, è perché confonde il sublime kantiano con la sublimazione freudiana, è perché, per lui, l'estetica è rimasta quella del bello. D postmoderno Che cos'è, allora, il postmoderno? Che posto occupa o non occupa nel vertiginoso lavoro delle domande lanciate alle regole della immagine e del racconto? Bisogna sicuramente partire dal .moderno. Tutto quello che è stato tramandato, anche solo da ieri (modo, modo, scriveva Petronio), deve essere sospettato. Con quale spazio se la prende Cézanne? Con quello degli impressionisti. Con quale oggetto Picasso e Braque? Con quello di Cézanne. Con quale presupposto rompe Duchamp nel I 912? Con quello per cui bisogna fare un quadro, sia pure cubista. E Buren interroga quest'altro presupposto che egli ritiene essere uscito intatto dall'opera di Duchamp: il luogo della presentazione dell'opera. Straordinaria accelerazione, le «generazioni» precipitano. Un'opera non può diventare moderna se non è prima di tutto postmoderna. li postmoderno in questo modo non è il modernismo giunto alla fine, ma quello allo stato nascente, e questo stato è costante. Vorrei però non limitarmi a questa accezione un po' meccanicista della parola. Se è vero che la modernità si snoda nel ritrarsi del reale e secondo il rapporto sublime del presentabile con il pensabile, si possono distinguere in questo rapporto due modi, per parlare come i musicisti. L'accento può esser posto sull'impotenza della facoltà di presentazione, sulla nostalgia della presenza provata dal soggetto umano, sulla oscura e vana volontà che malgrado tutto lo anima. . L'accento può essere messo piuttosto sulla potenza della facoltà di pensare, sulla sua «inumanità», per cosi dire (è la qualità che Apollinaire esige dagli artisti moderni), perché non dipende dal pensiero che sensibilità o immaginazione umane si accordino o meno a ciò cheessopensa,e sull'accrescimento di essere e la giubilazione che risultano dall'invenzione di nuove regole del gioco, pittorico, o artistico, o di tutt'altro genere. Si capirà meglio ciò che voglio dire mediante la distribuzione caricaturale di alcuni nomi sulla scacchiera della storia delle avanguardie: sul versante melancholia gli espressionisti tedeschi, e sul versante novatio Braque e Picasso~sul primo versante Malevitch, sul secondo Lissitsky; sull'uno De Chirico e sull'altro Duchamp. La sfumatura che distingue questi due modi può essere infima, spesso coesistono nella stessaopera, quasi indiscernibili, e tuttavia testimoniano di una disputa nella quale si gioca da gran tempo, e si giocherà, la sorte del pensiero, tra il rimpianto e il tentativo. L'opera di Proust e quella di Joyce fanno entrambe allusione a qualcosa che non si lascia rendere presente. L'allusione, sulla quale Paolo Fabbri ha recentemente attirato la mia auenzione, è forse un giro di espressione indispensabile alle opere che appartengono all'estetica del sublime. In Proust, ciò che si elude per pagare il prezzo di questa allusione, è l'identilà Garibaldi con la camicia rossa a Montevideo. (Distgno dal Ytro dd/'A.mmiraglio inglese Wimrington • lngram). LI L 1arco tempo. Ma Joyce è l'identità della scrittura in preda all'eccesso di libri o di letteratura. Proust evoca l'impresentabile mediante una lingua intatta nella sua sintassi e nel suo lessicoe una scrittura che per mòlti dei suoi operatori appartiene ancora al genere della narrazione romanzesca. L'is1ituzione letteraria, cosl come Proust la eredita da Balzac o da Flaubert, è certo sovvertita, perché l'eroe non è un personaggio, ma la coscienza inleriore del tempo; e perc)lé la diacronia della diegesi, già messa in difficoltà da Flaubert, si vede rimessa in causa dalla voce narrativa adottala. Tuttavia l'unità del libro, l'odissea di questa coscienza, anche se è sospinta di capitolo in capitolo, non è turbata: l'identit~ della scrittura con sé stessa attraverso il dedalo d"ellainterminabile narrazione basta a connotare questa unità, che si è potuta comparare a quella della Fenomenologia dellospiri10 _ Joyce lascia intuire l'impresentabile nella sua scrittura stessa, nel significante. La gamma degli operatori narrativi e stilistici conosciuti è messa in gioco senza alcuna preoccupazione di conservare l'unità del tutto, e sono ,perimentati nuovi operatori. La ~rammatica e il vocabolario della linSua letteraria non sono più accettati come dati, appaiono piuttosto come accademismi, rituali derivati dalla pielà (come diceva Nietzsche), che impediscono che l'impresentabile sia chiamato in causa. Ecco, dunque, la disputa: l'estetica moderna è una estetica del sublime, ma nostalgica; permene che l'impre- ,cntabile sia evocalo solo come un contenuto assente,ma la forma, grazie alla suaconsistenzariconoscibile, con1 inua a offrire al lettore o all'osservatore materia di consolazione e di piacere. Ora, questi sentimenti non costituiscono l'autentico sentimento sublime, che è una combinazione intrinseca di piacere e dolore: il piacere che la ragione ecceda ogni presentazione, il dolore che l'immaginazione o la sensibilità non siano all'altezza del concetto. li postmoderno sarebbe ciò che nel moderno chiama in causa la presentazione stessa~ciò che si rifiuta alla consolazione delle buone forme, al consenso di un gusto che permetterebbe di provare in comune la nostalgia dell'impossibile; ciò che va alla ricerca di nuove presentazioni,non per goderne, ma per far meglio sentire che c'è dell'impresentabile. Un artista, uno scrittore postmoderno, è nella situazione di un filosofo: il testo che scrive, l'opera che compie, non sono, in via di principio, governate da regole prestabilite, e non possono esseregiudicate mediante un giudizio determinante, attraverso l'applicazione a questo testo, a quest'opera, di categorie conosciute.Regole e categorie sono ciò che opera e testo cercano. L'artista e lo scrittore lavorano qllÌfl\li senza regole, e per stabilire le regole di ciò che sarà stato fatto. Di qui il fatto che opera e testo abbiano le proprietà dell'avvenimento, di qui, inoltre, il fatto che esse giungano sempre troppo tardi per il loro autore o, cheè lo stesso,che la loro messa in opera cominci sempre troppo presto. Postmodemo andrebbe inteso secondo il paradosso del futuro (post) anteriore (modo). Mi pare che il saggio (Montaigne) sia postmoderno, e il frammento (l'Athae11e11111) moderno. Bisogna infine che sia chiaro come non stia a noi fornire realtà, ma inventare allusioni sul pensabile che non può essere presentato. E come non vi sia da attendersi da questo compito la minima riconciliazione tra i «giochi di linguaggio•, che Kant - definendoli facoltà -, sapeva quanto fosseroseparati da abissi. e che solo l'illusione trascendentale (quella di I !egei) ho potuto sperare di totalizzare in una unità reale. Ma Kant sapeva anche che questa illusione si paga a prezzo del terrore. Il XIX e il XX secolo ci hanno saziati di terrore. Abbiamo pagalo abbastanza la nostalgia del tutto e dell'uno. della riconciliazione tra concetto e sensibile, dell'esperienza trasparente e comunicabile. Sotto la domanda generale di rilassamen10e pacificazione, sentiamo borbottare il desiderio di ricominciare con il terrore. di realizzare il fantasma dell'afferrare la realtà. La risposta è: guerra al tutto, testimoniamo l'impresentabile. attiviamo i contrasti, sai- , iamo l'onore del nome. (Tradu:.ione di Mauri:.io Ferraris) ::: :::
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