Alfabeta - anno III - n. 31 - dicembre 1981

(da lui risolta ricorrendo alla chiave fenomenolo~<:3), e in seguito l'intrico della trama, dell'avventura (a sua volta riscattato a colpi di stereotipi). Invece per Sollers •1a scelta oggettuale resta semplicemente un modo per punirsi, per castigare la scorrevolezza della confessione lirica «alla Mauriac•, o almeno per renderle la vita difficile e tortuosa. Robbe-Grillet insomma funzionò allora, nella storia del nostro autore, come un moltiplicatore dell'effetto Ponge, come uno strumento per esasperare l'opzione oggettuale, senza tuttavia trasformarla in una macchina narrativa. Si rimaneva tutto sommato nell'ambito della confessione, èlelparlarsi addosso, del divagare, ma debitamente zavorrati di materialità. Il che però significava non essere né carne né pesce. E infatti_in quei primi anni '60 Sollers sospinge l'impresa di Te/ Quel, appena nata, in una specie di limbo: né inferno né paradiso, né soggettività né oggettività, né passo lungo narrativo, né congestionato passo breve di stampo poetico, ma sempre e soltanto prosa d'arte congelata e attorta su se stessa. È vero che poco dopo (siamo ormai a metà degli anni '60) sorge un clima filosofico estremamente propizio a quella difficile via di mezzo, ovvero a quel limbo programmatico. Si tratta del pensiero della differenza, coltivato soprattutto da Jacques Derrida, e pronto a sua volta a rileggere con filtro personale certi autori congeniali come Nietzsche, Heidegger, Bataille. Ne viene una legittimazione rigorosa a favore di una prosa «fatta di niente•, ancora una volta attenta a evitare sia la soggettività lirica sia l'oggettività narrativa, ma a cercare di essere runo e l'altro insieme: un soggetto che fugge da se stesso, si decentra continuamente aderendo via via a tutte le persone pronominali: un tirar fuori la materia delle proprie reveries, ma ostentando una grinta costruttiva e programmata, appoggiata a una prosa di fattura classica e di corretto livello letterario. Infatti l'errore capitale di questa fase, teorica e pratica insieme, era di pretendere di neutralizzare il «significante• del linguaggio a tutto vantaggio della sfera dei significati. Derrida e Sollers (cui frattanto si è aggiunta anche Julia Kristeva) hanno un bel predicare la libertà, il decondizionamento assoluto dell'avventura linguistica, che non dovrebbe essere asservita né al soggetto né all'oggetto, ma appunto libera di tracciare i propri ghirigori, di seguire ogni estro e capriccio del momento. Ma su tutto questo pesa ancora la vecchia pregiudiziale, quasi alla Mauriac, dello scrivere bene e in corretto francese letterario. Si vedanoDrame (1965) eNombres ( I968), le due pietre miliari dell'attività di Sollers negli anni '60, accompagnate dall'esegesi meticolosa appunto di Derrida e della Kristeva, che vi ravvisano quasi delle applicazioni delle proprie teorie, o inversamente dei raggiungimenti da cui estrapolare certe conseguenze dottrinali. Si ammirerà la sottigliezza concettuale, l'intrico, il labirinto dei percorsi cui tale attività dà luogo (sia nello scrittore che nei suoi esegeti), ma il tutto ha un sapore mortuorio, di prodotto imbalsamato nella regolarità di un francese letterario, irreprensibile e fin troppo controllato. Poi, alle soglie degli anni '70, Sollers e Kristeva rifanno i loro conti e giungono a una conclusione decisiva: era sbagliato, fin lì, neutralizzare i significanti, i valori fonici, gestuali, materici della lingua, occorre invece riscattarli, farli risuonare in pieno, abbandonare insomma il limbo e tuffarsi nell'inferno, che d'altra parte può ben cambiare segno, al giorno d'oggi, e presentarsi come un paradiso di ebbrezza, di felici- • tà raggiunta dal basso, dalla parte del corpo. Purtroppo a questo proposito noi italiani dobbiamo recitare un mea culpa, per non essere riusciti a farci riconoscere, in ambito internazionale, una priorità; dato che la necessità di questa chiave bassa, corporale, idiomatica, - sia in poesia che in narrativa, l'avevamo intuita molto prima del duo Sollers-Kristeva; era anzi un requisito saldamente iscritto nel pacchetto di proposte della nostra neoavanguardia, del Gruppo 63. Forse per noi praticare uno stile basso era cosa più facile che non per i cugini francesi, dato lo scarso prestigio della nostra lingua letteraria, e viceversa la forza, la presenza costante di una tradizione dialettale e regionalistica (basti pensare all'effetto Gadda). D el resto, anche la Francia non scherza, in questa direzione, tanto è vero che ha dato l'autore principe, ai nostri tempi, in fatto di stile basso, Céline, e un grosso e felice teorico della lingua parlata, con connessa riforma ortografica, come Queneau (oggi riproposto anche al pubblico italiano attraverso una raccolta di saggi). D'altra parte, di nuovo, non eravamo stati noi a scoprire l'ineluttabilità di passare attraverso l'effetto Céline? Non era stato forse lanciato, in quella congiuntura, lo slogan di considerare le prove narrative di Sanguineti come i frutti di un «Céline dell'onirismo», dove era implicata anche l'opportunità di emendare i residui naturalistici ancora gravanti sull'autore di Mort à credit? E non avevamo parimenti predicato la necessità di ristudiare l'intero fascio delle poetiche di Joyce, comprese le più avanzate legate al Fi1111ega11s Wake? plementodi intensità e di sregolatezza. Ma siccome Kristeva è pur sempre una teorica della lelleratura, deve abbracciare una casistica più ampia; ecco allora che introduce una interessante diarchia tra il simbolico e il semiotico, presi, ciascuno dei termini, in accezione molto particolare. La via del simbolico è quella che porta a neutralizzare il significante linguistico; diciamo meglio, a mantenere il corrello livello in lingua, dove cioè la veste fonica non fa velo ai significati. La Kristeva non lo dichiara espressamente, ma sembra essere questa la via seguita da Robbe-Grillet, o in genere da quanti tentano la chiave della riscrittura, utilizzando stereotipi, luoghi comuni, segmenti lunghi di evidente inautenticità al loro interno (da noi, Calvino, Arbasino ). La via del semiotico esaspera invece la materialità dei significanti, fino a segmentarli in unità minimali, che la Kristeva, utilizzando un termine di Platone, chiama «chorai». Devo far notare in proposito che questa sua biforcazione corrisponde, all'incirca, a quella da me proposta, ormai da qualche anno, nei termini di una diarchia tra l'uso di iper e di iposegmenti: al di sopra e al di sotto della frase, abbandonando il territorio ormai sterile appunto della frase. E il lungo errore di Sollers, il suo lungo soggiorno nel limbo èurante gli anni '60 sta a dimostrarlo, mentre successivamente egli è stato «snidato•, costretto a uscir fuori dalla maestria Oscar Dominguez. cLa Terra non i una Valle di Lacrimei., 1945 Sollers, a questa medesima consapevolezza, che cioè oggi occorre mettere in opera un effetto congiunto Céline + Joyce, giunge in ritardo, rispetto alla nostra neoavanguardia, e cioè dopo il capo del I970 (quando purtroppo il nostro clima sperimentale si era ormai disunito e disperso). Ma onore al merito, bisogna riconoscere che egli sidedica a quest'ultimo «partito preso• stilistico con grande energia, con impegno sistematico e a tutt'oggi irreversibile. Premiato, beninteso, dalle agevolezioni connesse al fatto di esprimersi in una lingua come il francese, che mantiene pur sempre un prestigio e una circolazione internazionali (anche se la via congiunta Céline + Joyce mira a un superamento delle lingue nazionali, verso la ricostituzione del linguaggi.o edenico che si parlava prima della Torre di Babele, o al contrario verso una babelizzazione, un missaggio sistematico di tutte le lingue possibili). Per queste varie ragioni, di merito e di fatto, Sollers si è costituito come il numero uno internazionale nell'ambito di un tale attualissimo laboratorio, che pure tanti cultori e seguaci, e spesso della prima ora, ha anche nel nostro e in altri paesi. Lo spalleggia come sempre Julia Kristeva, che è stata pronta a convertire di pari passo le sue sovrastrutture ideologiche, a abbandonare Lautréamont e Mallarmé, su cui giurava negli anni '60, e a scommettere ormai soltanto sul santo nome di Céline e di Joyce, cui si aggiunge anche quello di Artaud, capace di conferire un supdella frase, per scegliere decisamente e coraggiosamente la dimensione intraverbale delle «chorai», la letteratura delle particelle, si potrebbe dire (così come si parla di una fisica delle particelle), accoppiandola all'altra del linguaggio basso, orale, quasi risultante da una registrazione al magnetofono. G iunto a.questo traguardo, Sollers riesce a mutare in punti di forza . quelli che in precedenza potevano essere limiti o cause di debolezza, per esempio il suo essere né carne né pesce, né poeta né narratore. li passo narrativo, se è lecito continuare a individuarlo, pare doversi affidare a quelle che, secondo la mia propria nomenclatura, definirei pratiche iper-segmentali, o dell'impiego di frasi neutralizzate, e che la Kristeva porrebbe all'insegna del simbolico. Quanto al passo breve della lirica, certamente esso si trova a suo agio nel mettere in funzione tutte le risorse dell'intraverbalismo: giochi di parole, rime interne, assonanze, neologismi veri e propri; nel mio recente Viaggio al termine della parola credo di averne offerto una buona campionatura relativa alla produzione di casa nostra. Ora, Sollers, come si è detto, ha scelto senza dubbio questa seconda via, ma la percorre con il passo lungo e l'esasperazione quantitativa che gli derivano dal fatto di essere pur sempre un prosatore d'arte e non un poeta. In tal senso egli si rende davvero degno di quelle grandi imprese che furono al loro tempo gli sproloqui senza fine di Céline, o il work in progress per ecce!- lenza caratteristico di Joyce. BIBLIOTECA E quindi non è più una vanteria, da .parte sua, esaltare il carattere •infini- . to» dell'impresa che attualmente sta SOLO LIBRI conducendo, il fatto che essa ormai non corrisponde a una semplice opera INDISPENSABILI con un principio e una fine, ma tende a identificarsi con la vita stessa dell'autore, che diviene quindi produttore di un unico testo, «aperto•, illimitato. Naturalmente, tutto ciò si accorda assai bene con i caratteri della nostra era elettronica, o postmoderna, e infalli Sollers, nell'intervista concessa a Hayman, può paragonare il suo Paradis a una banca dei dati, e definire se stesso « ... banchiere purtroppo non di valuta ma di informazione a stoccaggi elevatissimi». Nella quale ultima nozione sono congiunti due aspetti che oggi Sollers è forse il solo a riuscire a conciliare, cioè il «lirismo folle», la velocità delle associazioni, dei rélais, dei cortocircuiti (che ormai si danno all'interno delle singole parole), e nello stesso tempo la sistematicità dell'impresa, ovvero la sua quantità, il che vale appunto a distinguerla dai nostri molti poeti che conducono le medesime operazioni, ma negli spazi corti della lirica. Un suo omologo di «passo lungo» è però Giuliano Gramigna, con le sue prove recenti sul tipo del Gran trucco. Succede allora che anche il rapporto tra H e Paradis è quasi della natura di quello che si può dire tra due calcolatori, magari di «generazioni» diverse, dove il secondo, essendo più recente, appare molto più sofisticato del primo, vale a dire più veloce nei relais, più sistematico e capace nello stoccaggio dei dati. O per ritornare all'ambito linguistico-letterario, nella seconda opera Sollers si allontana ancor più dalla neutralizzazione dei significanti, affronta con più grinta le pieghe e le fralture delle «chorai», snoda tutti i possibili segmenti interni della sua smisurata parlerie. Va da sé che una simile «banca dei dati», non ha più senso usarla (leggerla) per filo e per segno, ci si rivolgerà ad essa per trarne responsi locali e parziali; fuor di metafora, la si dovrà consumare (leggere) a bocconi, rimanendo tuttavia incantati e affascinati dal constatare che quel medesimo intrico di dati, sempre ugualmente sostenuto, continua per 254 lunghissime, elaboratissime pagine; ma certo di volta in volta converrà limitarsi a effettuarne dei prelievi locali; sicuri d'altronde di verificarne pur sempre la completezza, l'esaustività. Tutti i possibili trucchi verbali, motti di spirito, giochi anagrammatici e paragrammatici troveranno un fedele riscontro: l'uso di uno stesso significante, preso intero e poi spezzato in frammenti, che cosi possono secernere nuovi significati (Robespierre, robe de pierre; limites, lismythes); le fusioni di più lessemi a determinare metafore contratte in singole parole (ventrillovacants, fraternidité, lolittré, ondulagité, helléniniste); le variazioni in scala · di vocali e consonanti, i giochi di omofonia (peuples peuplant peuplier plein de peuples; à !'ombre des jeunes nouilles en fleur); i giochi anagrammatici o di palindrome (onu pour nos nus); le rime folli e assurde alla maniera dei limericks, o di Scialoja (le chili au lit, la nonne de Bonn, comment pondre à Londres, !estantes de Nantes, le pal du Népal, le cercueil d'Arcueil). Eccetera eccetera, non si finirebbe più dato che siamo in presenza del grande catalogo di tutti i possibili stratagemmi nell'ambito intraverbale, sorretti oltretutto da una chiave céliniana, o rabelaisiana-bachtiniana di dileggio, parodia, incursione dei valori bassi al fine di ottenere l'esito della comicità. . Del resto, è forse sbagliato teorizzare troppo su tutto ciò, applicarvi il metro dell'analisi. Ne viene piuttosto l'invito a fruire, a godere di questi marchingegni, come se ci venisse offerto uno spartito per migliaia di performances; e naturalmente ne emerge anche l'obbligo morale a continuare per nostro conto sulla medesima strada, a fare altrettanto. KAFKA UNMEDICO DICAMPAGNA a cura di Giuliano Baioni Traduzione di Rodolfo Paoli Poeti italiani del Novecento a cura di Pier VincenzoMengaldo Nievo LECONFESSIONI - D'UNITALIANO a cura di MarcellaGorra RACINE FEDRA a cura di AlbertoCapatti traduzionedi GiuseppeUngaretti con testo a fronte ARNOLDOMONDADOR.I EDITORE

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