Alfabeta - anno III - n. 31 - dicembre 1981

Discutere di letteratura Il cerchioneoclassico I due poli del discorso, avanguardia e neoclassicismo, continuano ad avere una sotterranea, ma a volte palese, vitalità culturale e letteraria anche ai giorni nostri, cosi che le polemiche e gli scontri di allora, da La Voce, fondata nel 1908 e accompagnata da Lacerba (1913-'15), alla fondazione de La Ronda (1919- 1923) con il suo inevitabile crappel à l'ordre», acquistano periodica rilevanza sia pure con quelle diversità che il cambiamento di angolatura storico-critica non può che produrre. Credo che per circoscrivere il territorio della contesa con un solo esempio, una sola linea tracciata senza staccare la mano dal foglio, basti la polemica sulla prosa e sul romanzo, che è appunto quella più direttamente legata alla fondazione de La Ronda; ecco, in questa polemica, come spesso in molte polemiche, si respira subito aria di falsificazione. Quando Cardarelli scrive, riferendosi evidentemente a La Voce, che: cCento anni fa si attendeva a immesirire la lingua in nome della purità letteraria, oggi si avvilisce, oltre che immiserire in nome della purità filosofica. La quale non ha più per oggetto di eliminare dall'uso corrente delle parole il termine forestiero, bensl quello retorico e più propriamente italiano». Cosi che le voci come forma, lirica, annonia, pralica ecc. vanno recuperate al loro «nativo senso, italiano e non tedesco, classico e non romantico, rettorico e non estetico ... >, basta rispondere soltanto con un nome, quello di Renato Serra per fare cadere tutto il castello di sabbia costruito con tanta rura. Ma se si guardano i termini oppositivi usati polemicamente da Cardarelli, classico e non romantico, rettorico e non estetico, dal punto di vista di una poetica nuova e alternativa, non si fa altro che cominciare a elencare i canoni di quel neoclassicismo che appunto si voleva contrapporre al «disordine• delle avanguardie del principio del secolo, che non erano soltanto «futurismo», ma più vasto e articolato movimento teso soprattutto a non spezzare anzi a rafforzare quei legami con la letteratura europea che si erano costituiti a partire dal lavoro dei simbolisti. A questo proposito mi pare doveroso ricordare l'esplorazione eccellente in questo campo che Glauco Viazzi ha reso pubblica nell'edizione postuma della sua vastissima ma indispensabile antologia poetica stampata da Einaudi (Dal Simbolismo al déco ). Notevolissimo evento, da questo punto di vista, è, a mio parere, l'attesa abolizione del troppo nostrano e provinciale termine «crepuscolari» in favore della collocazione in un'area molto più vasta e più significativa (appunto quella del tardo simbolismo e del liberty). Dunque quella letteratura che era definita «decadente•, con definizione ormai svuotata di qualsiasi preciso contenuto e articolabile fino alla propria negazione (voglio dire che con questa imprecisione potrebbe essere definito decadente anche il neoclassico Paul Valery) doveva essere sconfitto in nome di una purezza che molto imprudentemente veniva per opposizione definita anche «nazionale• o «italiana». Il quadro va tuttavia completato e problematizzato, proprio per non cadere nei medesimi, apodittici, «errori• cardarelliani, inserendoci il notissimo incontro con Leopardi. Scrive Cardarelli: «Questo fu per noi un avvenimento della massima importanza, che chiuse il ciclo, diciamo cosi, fruttuoso e eroico delle nostre esperienze e ci costrinse a mettere il capo a partito. Non soltanto era una voce antica e familiarissima a cui sarebbe stato difficile disubbidire, ma un santo della tradizione che si s~ccava dalla sua polverosa nicchia per rivelarci un autore modernissimo. Tanto moderno che da allora in poi tutta la morale e la filologia di Nietzsche non sono, a parere nostro, che poche briciole cadute dalla mensa di Leopardi. Da quando abbiamo capito questo siamo rientrati nell'ordine. Ci sentiamo come dei giubilati; dite pure dei malinconici sedentari. Il nostro nomadismo è finito». Si mettono da sé in rilievo in questo brano i concetti di obbedienza (ai canoni, naturalmente, estrapolati da un'interpretazione neoclassica di Leopardi) e di rientro nell'ordine, ma non si può non rilevare l'aperta contraddizione che sbuca fuori da quella definizione di «malinconico sedeQtario» che sembra essere la conseguenza di quel punto di arrivo. È questa una spia di quell'irrequietezza non domata che farà, soprattuttc nelle poesie, del neoclassicismo cai-derelliano un'esperienza più articolata t: complessa di quanto non si possa stabilire a prima vista. Il «nomadismo» era solo apparentemente finito e Leopard costitul, per i risultati miglioridelle liriche, soprattutto un punto di partenza. Altro punto d'appoggio per la progettata ricostruzione della poetica del neoclassicismo, è il concetto di limite, che molto chiaramente Cardarelli espresse in uno scritto sull'edificazione della città di Roma, l'«etema» per eccellenza: «E ditemi se nelle piazze romane c'è qualche cosa da nascondere o da aggiungere, se l'architettura di Roma non è sufficiente a se stessa, se il bello di questa città non consiste proprio nella sua rigorosa astrazione dalla natura, che l'arte vaMarce/ Jean, «Il risveglio un.possibile», 1938 riò e corresse in mille modi, non uscendo però mai dai propri limiti•. La prima osservazione che occorre fare è che in questa visione di Roma si rispecchia non tanto la Roma storica, multiforme e sincretica, polipesca e barocca, catacombale e mediterranea (nel senso della vitalità e del disordine della natura mediterranea) quanto la Roma cosi come i nuovi urbanisti imperiali l'avevano concepita e ridisegnata nelle loro menti neoclassiche; il concetto di limite si sovrappone a quello di ordine e di chiusura. Dunque anche la letteratura deve guardarsi bene dalle innumerevoli tentazioni di uscire da se stessa, dalla propria nobile rettorica, dal proprio «stile» che deve diventare addirittura un Antonio Porta «super-stile», a costo di togliere al concetto di stile quella necessità che prende anche il nome di funzione strettamente legata a ciò che si progetta di dire. Resistere a quelle tentazioni non significa soltanto restare nei propri limiti, proposizione ancora troppo generica, ma dare della letteratura una definizione adeguata, tale da costituire di per sé i limiti medesimi. Puntare, Hans Bellmer, «Paesesaggia(paesaggio)•,/936 coerentemente, più sul prodotto che sul messaggio e Cardarelli era troppo inquieto e intelligente per non accorgersene e trarne le conseguenze e le conclusioni necessarie. «La speranza è nell'opera» è il primo verso della raccolta delle poesie edite da Mondadori nel 1942 a inaugurare la collezione de «Lo specchio» con una notevole prefazione di Giansiro Ferrata sulla quale ritornerò. Verso che potrebbe essere interpretato in modi perfino opposti se non fosse lo stesso poeta a soccorrerci con altro scritto delucidatorio in cui ribadisce «l'esigenza dell'assoluta bontà, e direi, inevitabilità del prodotto». Questo perché, continua Cardarelli, «l'arte non serve proprio a nulla, è cosa del tutto superflua, e senza di essa, scusate il cinismo di queste mie Kurt Se/igmann,«Il fuoco fa1ua», 1936 affermazioni, si può vivere ottimamente». E ancora: «Scrivere per il pubblico fu sempre il pr~testo di scrittori poco originali e la richiesta di critici mediocri ... L'arte è perché è. Non dpmandatele altro. Non assegnatele alcuno scopo>. Direi che queste lucide affermazioni il cercbio, per quanto riguarda una possibile definizione di «neoclassicismo•, lo chiudono alla perfezione e ci riconducono, altresl, a quella più stretta attualità della polemica di cui ho accennato all'inizio. I termini di contrasto mi sembrano essere da una parte la continuità di quell'impegno a dire, a pronunciarsi, a dialogare, anche provocatoriamente, con un pubblico e con l'intera società che è proprio di. quella che possiamo definire «la tradizione dell'avanguardia», in una profonda e a volte lacerante inter~zione con la storia e le sue continue contraddizioni, e·dall'altra il riaffermarsi della scrittura come valore «in sé». Tipiche mi paiono le dichiarazioni di alcuni tra i giovani poeti degli anni recenti che intendono sottolineare che «la poesia è perché è» e che «si giustifica per la propria evidenza» (emi riferisco all'ambito de La parala innamorata più propriamente «ortodosso») e altrettanto tipiche le dichiarazioni di alcuni scrittori che nel tentativo di disattualizzare il romanzo (stavo per dire: nel tentativo di disinnescarlo, quasi fosse una specie di bomba) coerentemente riaffermano che «la letteratura non serve a nulla», ilche significa pure che serve solo a sé stessa e anche, a mio modo di vedere, che serve a tenersi illusoriamente lontani dai conflitti. Eccoci allora di ritorno in quel territorio del romanzo che, avevo detto cominciando, sento come il più utile a mostrare i lati deboli e falsificanti della polemica neoclassica, segnatamente della polemica «rondista». Ci siamo arrivati con un percorso sinusoidale e vale quindi la pena, credo, percorrere un'"tra ansa del fiume con un altro excursus strettamente dedicato a La Ronda. Non mi pare si possa dir meglio di Natalino Sapegno nel suo «Disegno storico della letteratura italiana» stampato dalla Nuova Italia nel 1948 (disegno dedicato alle scuole ~a non per questo trascurabile). Cosl scrive Sapegno: «Il significato vero dell'esperienza, che La Ronda espresse in termini alquanto recisi, è da cercare ... in un'idea di Gargiulo, che ne fu in certa misura il teorico più risoluto e copsapevole: l'idea che 'la letteratura, come pura arte, poesia, non può risorgere oggi in Italia se non attraverso la macerazione culturale e critica'. Benjamin Péret, «Al 25 di Boulevard Saint-Germain», 1923 • Del resto la Ronda si definiva da sé un 'luogo di ritrovo': dove il punto di coincidenza tra le diverse esperienze degli scrittori che vi confluirono non può essere trovato se non in una ripresa ed estrema esasperazione di taluni dei risultati, e non dei più ricchi, a cui era pervenuta la generazione vociana. Non a caso gli scrittori de La Ronda erano stati tutti collaboratori della Voce e si erano formati nell'ambito di quelle esperienze, da cui ora si ritraevano delusi inseguendo il miraggio di un approdo più riposato e sereno. Niente più che un miraggio è invero il loro neoclassicismo leopardiano e la realtà della loro opera si inserisce nella preesistente poetica del frammento, . della prosa _lirica,e cioè della disperazinne di poter mai attingere una pienezza poetica ...» N on scrivere per il pubblico, allora, estraniarsi dal tessuto vivente della società nel suo troppo basso e vÒlgaremovimento, inseguire e proporre il «miraggio» neoclassico come elemento di stabilizzazione, di annullamento degli affanni, dunque di monumentale e «romana» immobilità, ecc. ecc. tulle premesse che Cardarelli rondisticam'ente riassumerà nel suo rifiuto diretto del romanzo che cosl l'espresse: «Ora, per esempio, la nostra maggiore preoccupazione è il romanzo. Se ne parla come di una questione di vita o di morte per la nostra letteratura. Il pubblico sembra desiderarlo, gli editori lo esigono. Dunque facciamo romanzi. Non si pensa neppure lontanamente che il romanzo oltre a essere un genere letterario che ci appartiene fino a un certo punto, per una quantità di ragioni tante volte dette, suppone una civiltà letteraria intensissima e di primissimoordine, civiltà che esso non crea ma sfrutta; per giungere alla quale dunque è necessario lasciar vivere e prosperare in pace il poeta, il letterato puro, lo stilista, oltre che lo storico, il critico, il moralista». Ricordiamo un attimo le date della pubblicazione de La Ronda: 19I 9 - 1923 per rifarci a un saggio recentemente pubblicato da Marco Forti, intitolato Idea del romanza italiano, dove con chiarezza viene fatta luce proprio su questo punto. Mentre i «rondisti» imperano, e credevano di imperare o anche si può dire: mentre i rondisti inseguivano il miraggio dell'impero neoclassico, sia pure con tutte le complessità e inquietudini del caso, usciva nel 1923 La coscienza di Zeno e scrive Marco Forti: «Si sa il merito che in questa esemplare rivalutazione critica ebbero Joyce, Valery Larbaud, Crémieux e sua moglie Marie Anne Comnéne, e da noi, con qualche mese di anticipo su tutti gli altri, il giovane Eugenio Montale. Fu allora possibile accorgersi, che con La coscienza di Zeno, Svevoaveva condotto la sua polifonia romanzesca a un livello di stratificata naturalezza, di molteplicità di interne prospettive della memoria creativa, di adozione tutta intensamente inventiva del monologo interiore... » Sottolinea ancora Forti che non fu certo un caso che nell'anno 1925, appunto quello della scoperta critica di Svevo, siano anche usciti Uno,nessuno e centomila e gli Ossi di seppia. Di fatto: «Il percorso che ha condotto sia Svevo che Pirandello, per vie tanto diverse, ma partendo ambedue da premesse veristiche e positivistiche comuni, a prospettarsi il relativismo, la molteplicità policentrica, l'apertura polifonica del romanzo contemporaneo, non potrà non risultare, a questo punto, il più funzionale degli innesti•. In altre parole: la via europea del romanzo italiano «qualcuno» aveva pure osato tracciarla ma l'ideologia rondista era pronta a non vederla. Se mettiamo poi a confronto la cultura e la civiltà letteraria di Pascoli coi. quella presuntuosa, diciamolo francamente, richiesta di Gargiulo, di «macerazione culturale e critica», occorre concludere, quasi brutalmente, che non lo conoscevano, non l'avevano letto, il Pascoli dei Canti di Cas1elvecchio, altrimenti era impossibile •non scoprirne l'aperta polifonia che era appunto il frutto dell'abbandono di ogni idea di poesia pura e di letteratura quale valore a sé stante.

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