t die che a loro volta parlava di altri testi. D Liber nel momento in cui apre spazio alla fantasia chiude i limiti del mondo. E che si tratta di mostri di carta lo sappiamo solo ora. Bologna d'altra parte sostiene eh.e il testo trasforma il livello denotativo del dizionario nella connotazione affabulatrice dell'enciclopedia che sulla definizione, «realmente», racconta una «storia». Ma è proprio questa l'astuzia del catalogo (che è un mostro anch'esso): raccontare fingendo di descrivere, simulare la voce di un racconto laddove è il silenzio dell'Altro che si vuole raggiungere. Il catalogo parla per non far parlare. Se si considera invece l'ultimo libro di Leslie Fiedler, Freaks, ci si rende conto di come vi sia un'altra maniera per parlare dei «mostri•. Fiedler si occupa delle irregolarità biologiche, di quelli che sono amabilmente definiti /usus naturae, quella enorme schiera di individui cui la Natura ha elargito con parsimonia o abbondanza i suoi attributi. Fra questi il posto più importante lo ricoprono senz'altro i nani, che da sempre popolano leggende e favole di ogni paese e che ai tempi dei re e delle regine allietavano le corti e ne erano allietati. Inoltre i nani sono gli onici freaks cui si è guardato come a un popolo o a una tribù dalle comuni origini, avente incerte origini nell'Africa Nera o (stupore!) nel lontlijlo Oriente. Fiedler in questo caso dà la dimostrazione di come sia consapevole il distacco dal catalogo per accedere all'enciclopedia. Dei nani vengono esplicitati tutti i nomi possibili: gnomi, coboldi, lilipuziani, pigmei, folletti, trolls, elfi, facendo in modo da far rifluire in un unica e rinnovata immagine tutte le definizioni che i dizionari vi hanno dedicalo. Inoltre di ogni nome è riportata il referente di significazione da cui ha tratto origine, evitando non solo la tentazione del catalogo, ma mostrando anche che tutti i cataloghi sono inutili in quanto equipollenti e reciprocamente esclusivi. Il dizionario pertanto, come è giusto che sia, viene assimilato nell'enciclopedia mentre questa correla informazioni scientifiche (mediche, innanzitutto) con racconti antropologici, favole e storia, dando ai nomi il tempo di relativizzarsi e di confrontarsi con il sapere di sfondo: in tale universo di conoscenze liberamente esposte non v'è posto per alcun tipo di esclusione. Il risultalo che se ne ricava è che l'ambiguità e il potere esplicativo del catalogo è reso completamente innocuo una volta che sia stato ricondotto al progetto enciclopedico cui pretende sostituirsi. Del resto i cataloghi somigliano sempre di più agli inventari di paure represse, a identificazioni liberatorie che non concludono un rapporto con l'oggeuo, ma con la coscienza del compilatore. Inoltre Fiedler nel parlare dei «mostri» ricorre anche a dei materiali inediti in tale opera di testualizzazione: egli fa parlare i mostri stessi. Ricorre, in altre parole, alle autobiografie, alle lettere e interviste che essi hanno rilasciato, aprendo definitivamente il recinto in cui erano stati rinchiusi nelle tassonomie teratologiche o nel depliant del freak-show.11senso di ascoltare (leggere) la loro voce implica di per sé ogni annullamento di ogni effetto di catalogazione per il solo fatto che il narrato parla di se stesso da individuo e come individuo, determinando un contesto comunicativo che elude il testo e lo consegna alla storia. Nel cinema vi è un'analogo del libro di Fiedler ed è il filmdi Tod Browning da cui il libro ha tratto il titolo. L'immagine nuova e liberata del freaks nasce da questo film, ed è importante perché immagine e sostanza nella categoria del portento e del meraviglioso coincidono, la diversità si most~ae non certo si dimostra. Inoltre Browning non perde tempo a illustrare l'ingiustizia cui le sue creature (pin-heads, nani, il torso vivente) sono sottoposte (si pensi al recente e patetico film Elephant-man). Ma ricostruisce la vita normale del gruppo nello spazio che ai fenomeni è sempre stato concesso: i baracconi di uno spettacolo da circo. I «normali», fra cui la bionda Cleopatra che sposa per interesse il ricco nano Hans, non sono particolarmente crudeli e si ha ragione di ritenere che il loro comportamento sarebbe lo stesso anche con dei loro simili. Il loro profondo errore, che sarà alla fine pagato nella catarsi conclusiva, è quello di non considerare che i freaks sono come dei bambini e come i bambini sono portati alla crudeltà. Scrive Fiedler a proposito dell'opera di Browning: «... i freaks pur rivelandosi persone né innocenti né innocue, sono davvero come bambini, nel senso che vivono in un mondo i cui valori e le cui proporzioni non sono i loro: sono i nostri, di noi adulti normali, come ci ricordano le due scene più memorabili del film» (il matrimonio e la vendetta dei freaks). È chiaro quindi che il regista ha saputo guardare ai mostri al di là del catalogo di stranezze o prodigi di qualche dime-museum e ci ha fatto anche intravedere l'immagine sconsolante di un recinto culturale (il sistema dei valori «normali») ben più potente e esteso di qualsiasi spazio fisicamente concluso. Le cadute stesse nel catalogo che, se pur raramente, si verificano (nel film si veda il finale e nel libro il capitolo dedicato agli ermafroditi) mostrano che la questione non può dirsi chiusa. In ogni modo Freaks di Fiedler e di Browning contrapposti al «Liber monstrorum» e allo «Speculum cerretanorum» mostrano che io spazio dei mostri anche se tende ad essere assimilato a un sistema organizzato del sapere, l'enciclopedia, porterà ancora a lungo i segni di una originaria esclusione: il catalogo. Certamente i tempi nella storia della cultura sono lunghi e questo potrebbe far disperare. L'impressione è che ci saranno sempre nuovi mostri da conoscere e sempre troppa gente che scriverà dei cataloghi ignorando l'enciclopedia. Ma ci sarà anche altra gente che scriverà articoli come questo. SuFluxusl:ineamenti Harry Ruhé Fl11X11tsh,e most radical aod experi- • meotal art movemeot io lhe sixties Amsterdam, «A», 1979 Dagmar von Gottberg VosteU Floxos Zug Berlino, Saldruck, 198I P er dovere di cronaca: la preparazione di Fluxus affonda negli anni cinquanta, nel clima dell'astrattismo americano e della musica di John Cage. Di lui furono allievi Jackson Mac Low, Dick Higgins, Richard Maxfield - col quale La Monte Young studia la musica elettronica - e Allan Kaprow - futura vedette degli happenings. Fluxus viene annunciato da George Maciunas nel 1961. Sede la sua galleria, I'AG, attraverso la quale voleva inizialmente diffondere- era un lituano emigrato a Soho distretto di Manhattan - l'arte dell'est europeo. Si comincia con rappresentazioni-concerto di emusica antica e nuova». L'anno successivo vi sarà un tour europeo con tappe al museo di Wiesbaden (14 concerti), a Copenaghen (6 concerti), a Parigi (7 concerti), È durante questo viaggio che avviene l'incontro con Vostell e parte l'idea di una sezione europea (si può sensatamente ipotizzare che in Europa venisse ricercata la malia di una grande stratificazione culturale). Nello stesso anno Maciunas progetta delle composizioni musicali per labbra, fango, violino, scale, e un concerto per sei cappelli a bombetta e ombrello «in memoriam» di Adriano Olivetti. Nel '63 - ma pensata molto prima - viene pubblicata, per le cure di La Monte Young e il progetto grafico dello stesso Maciunas - designer delle prime pubblicazioni del gruppo - An Anthology, sorta di inventario militante. Vi collaborarono: George Brecht, Claus Bremer, Earle Brown, Joseph Byrd, John Cage, David Degener, Walter De Maria, Hanry Flynt, Yoko Ono, Dick Higgins, Toshi lchinayagi, Terry Jennings Dennis, Ray Johnson, Jackson Mac Low, Richard Maxfield, Malka Safro, Simone Forti, Nam June Paik, Terry Riley, Diter Rot, James Waring, Emmet Williams, Christian Woff e, naturalmente, Maciunas e La Monte Young. Nel suo presentarsi informale, come informale vuole essere Fluxus, il libro ne pave~ta le generalità sia operative che anagrafiche. Richard Maxfield vi parla di musica con l'orecchio teso alle arti visive; Jackson Mac Lowsidilunga col Bardo Todol e si incanta sullo zen espatriato di Suzuki; altri beatificano la danza, qualcuno preventiva l'uso distonico delle poste. Nel ruolo che dividerà (almeno inizialmente) soprattutto con Henry Jean-Jacques Lebel, «Hey YosieJ,., 1960 Flynt, quello di ideologo, Maciunas definisce Fluxus come tendente al «non strutturale, non teatrale, non barocco», a «qualità impersonali di un semplice naturale evento, oggetto, gioco, puzzle o gag• (cfr. Carlo RoCarlo Romano mano/Gianni Emilio Simonetti: «IntroduziPne a una fenomenologia rozza del gruppo Fluxus», su Le Arti n. 4, Milano 1976). Allora: Si può dire che in un certo qual modo tutti i gruppi dell'avanguardia artistica si somigliano. Essere invitati a un'esposizione surrealista come essere invitali a quelle che Fluxus chiama feste è lo stesso che prendere la tessera d'un circolo. In Fluxus, quantunque si favoleggi d'una lista nera, non c'è però un Breton che lega o disfa. L'ideale centralità non si fonda sulla passione ma è presa dall'effimero. Condizionante è l'ascendenza, comqne a molta della cultura americana dell'epoca, del buddismo e dello zen, i quali spingono a misurare il peso delle emozioni, a vantare l'indifferenza. Si badi però: non si tratta per Fluxus, come era per i parnassiani dell'ottocento, di stabilire una distanza fra sé e gli avvenimenti, di attraversarli piuttosto in una sorta di deriva indolore (a tanto, probabilmente, invece che a Deleuze, va ricondotto Achille Bonito Oliva, un critico interessatosi al gruppo con certa assiduità, quando teorizza il «nomadismo» nell'arte). Le definizioni di Maciunas parlano chiaro. E Cage, frequentatore certosino di eremi giapponesi oltreché padrino del gruppo, elucubrando di «intenzionale non intenzionalità» la dice lunga sulla questione. Non ci si scordi poi d'una corposa componente formata da orientali con la plica mongolica. Uno di questi, il coreano Paik, arrivò, fra l'altro, a fondare qualcosa come «l'università dell'avanguardia induista». E quanto la sonorità delle latitudini interessate vi sia influente lo dimostrano i lavori di La Monte Young e di Terry Riley. In tale scenario, il fatto che Flynt, ventunenne nel '61, si presentasse come attivista comunista non comportava equilibrismi particolari. Innanzi- •tutto i suoi interventi non sono ascrivibili a ciò che in quegli anni poteva essere la politica culturale dei gruppi e dei partiti americani che si rifacevano al marxismo. Inoltre i suoi progetti di ridicolizzazione e contro «la seriosità della cultura» sono ben funzionali al discorso zen di trovare ovunque la stessa qualità: ogni cosa è mandalica, tutto è disponibile alla meditazione («destare la mente senza fissarla in alcun luogo» si dice sia la frase del sutra del Diamame ascoltando la quale Huineng avrebbe realizzato la verità dello zen). E ancora: è un buon tramite alle più sanguigne manifestazioni del manipolo europeo, tutto sommato più dottrinario sul filone dell'avanguardia artistica e meno aeropatico di mentalità, per quanto Beuys, legato a Fluxus dal '63, abbia fatto l'aviatore, con le ben note conseguenze alla scatola cranica. Dunque Fluxus come società fredda, nel significato attribuito da Levi Strauss a certi tribalismi cui i contrasti avrebbero poco a palesarsi. Fluxus idea d'un gruppo più che gruppo vero proprio. The New Bohemia, come veniva titolato un libro che nel '66 ripassava sulla stagione dove Fluxus fu protagonista. L a Bohéme intellettuale americana si era sperticata in quegli anni nell'applicazione all'estetica del viaggio di costumi aleggianti il momento europeo dell'esistenzialismo giovanile, spartendosi equamente fra chilometraggio e good vibrations, fra viaggio estensivo e viaggio intensivo. Nell'apolidismo si sciacquarono sia Fluxus che l'ondata artistica a lui coeva, quella degli happenings e della pop r
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