Alfabeta - anno III - n. 31 - dicembre 1981

"" ..... " Agli amici del 7 aprile/21 dicembre e a chi li va a trovare. R orna, Piazzale C/odio, sabato 17 ottobre, ore 11.40. Dopo gli inutili tentativi dei giorni precedenti, sono finalmente riuscito ad ottenere un permesso straordinario, firmato dal Presidente della Prima Corte d'Assise del Tribunale di Roma, che mi consente di visitare un amico detenuto a Rebibbia. Apprendo cheper andare a Rebibbia dovrei cambiare tremezzi; scoraggiato, mi rassegno a prendere un taxi. Dopo circa mezz'ora vedo il carcere: abituato all'impatto di San Vittore, 110nne ricavo impressioni particolarmente vive; un lunghissimo muro che ad un certo punto si interrompe per lasciareilposto a/l'edificio in cui si trova la porta di accesso. Quest'ultima, ampia per gli automezzi, con gabbiotto e sbarra, piccola per le persone, ricorda l'ingresso di certe fabbriche. Appena dentro mi ritrovo in un posto che ha tutta l'aria di una stazione per corriere. Ci sono tresportelli con relative code inunastani.achecomunicacon un ambiente più ampio che sembra una sala d'aspetto. Mi metto in coda evitando accuratamente uno dei tre sportelli che porta la scritta «cassa» (verrò poi a sapere che si tratta di depositare i soldi per i detenuti, ma non riuscirò a togliermi /'impressio11eche alla fine di quella coda ci si possa sentir offrire un biglietto per lidi inquietanti). Quando è il mio wrno, consegno il permesso all'impiegato-guardia, il quale, compiuta una serie di misteriosi adempimenti burocratici, mi invita ad accomodarmi in quella che si conferma essere una sala d'aspetto e ad attendere che mi chiamino. A intervalli irregolari - fra i quindici e i venticinqueminuti circa - vieneuna guardia che apostrofa i visitatori invitandoli a non sostare nella «biglietteria», fa rientraretutti in sala d'aspetto e chiama lagente a gruppi di una quindicina di persone. Resto in questo limbo per un'ora abbo11dantef,ino alle 13.30; quanto basta per registraredelle strane differe11zedi destino: alcuni vengono chiamati al primo colpo, altri hanno l'aria di stazionare lf da una vita. Piano piano mi rendo conto che ciò non sembra dipendere (o almeno non dipende solo) da qualche criterio imperscrutabile, ma da pura. casualità ed insipienza. A vòlte l'addetto alle chiamate non riescead interpretare i nomi e li storpia al punto che gli interessatinon vengono nemme110 colti dal sospeuo che possa trattarsi di loro; a volte, i chiamati non rispo11dono ali'appello perché sono andati ad un cesso che, essendo inoltre dotato di alcu11emacchine distributrici di bevande, è meta di frequenti pellegrinaggi. In quest'ultimo caso non solo si perde il turno, ma si base di una società o l'esito del funzionamento delle istituzioni. Come rendere plausibile la storia, senza disporre di una filosofia della storia? La rinuncia a una metafisica dello sviluppo implica la rinuncia alla giustificazione di scelte e preferenze? Ho spesso osservato nei miei ultimi lavori come si possa rispondere negativamente a ques.ta domanda. E ho appunto proposto che si prenda sul serio l'etica. Un'alternativa razionale .!:, ~ all'esistente deve incorporare un in- <> sieme di giustificazioni. Stame reclama che· un progetto emancipatorio presenti le credenziali della sua ragione. Per la sinistra è, come dire, un problema di identità. Ho l'impressione che la costruzione di identità sia la posta in gioco cruciale. Per più di un motivo. Ralph Dahrendorf ha osservato nel suo agile pamph- ~ /et, La libertà che cambia, che vi sono ~ alcuni termini base del patto sociale si che risultano quasi degli invarianti del VisitateRebibbia rischia a11chedi non esserepiù chiamati. È quanto succede ad una vecchia ragazza, il corpo ancora snello inguainato in una gonna corta e stretta, con pretese smentite dal volto raggrinzito e da un malloppo di sacchetti di plastica pieni di cartacce, continuamente spostato da una sedia all'altra se11zacostrutto né motivo apparenti. Vie11eavvisata da una conoscente, ma non si sog11a nemme110 di protestare, bestemmia e parla da sola, rassegnata. Una rassegnazio11eche, co11scarse eccezio11i, è atteggiamento comune alla maggior parte dei presenti, per lo più don11edi età ed estrazione sociale diverse e qualche «coatto». Paul Delvaux, «Lo specchio», 1936 Ogni tanto scoppia un «caso» più promettente: una famiglia - vengono apposta da molto lontano - si incazza coralmente e furiosamente perché, superando il numero consentito di visitatori per una unità, viene invitata asce• gliere chi deve restare fuori; una vecchia proveniente da «dentro» implora le guardie di convincere il figlio che rifiuta di vederla. Coloro che regnano su questo microcosmo ascoltano e decidono, benevolmente sprezzanti con chi implora, seccamente autoritari con chi protesta. Mi richiamano alla memoria immagini del servizio militare: hanno la stescontratto di società (gli articoli di un trattato di pace per entrare in società, per dirla con Hobbes). Altri termini del patto, invece, hanno carattere più mobile e variabile storicamente. Si potrebbe rilleggere, alla luce di questa indicazione, la complicata vicenda dello stato moderno; i noti, grandi passaggi dallo stato minimo allo stato redistributivo, dallo stato di diritto allo stato sociale. Oppure, come suggerisce Dahrendorf, ricostruire razionalmente l'espansione del sistema aperto dei diritti. Al centro si pone, nella rottura delle modernizzazioni, il problema. dell'identità. Le diverse versioni del patto sociale rispondono a una serie di slittamenti nelle condizioni necessarie per la formazione di identità. Si potrebbe pensare a un processo a mano invisibile di questo tipo: la costruzione, via patto, delle condizioni di formazione di identità (individuale e collettiva) consente l'emergenza di nuove domande Carlo Formenti sa aria degli imboscati in fureria, sornionamente indolenti, stupidamente beati del privilegio nei confronti dei loro colleghi, pigramente accoccolati all'ombra di una miriade di regolamenti demenziali. Messico e nuvole, canterebbe Jannacci; la noia e la fame crescente spengono og11icuriosità e invitano a/l'abbandono. Finalmente vengo chiamato. Si attraversa un cortile affiancato da edifici probabilmente riservati agli alloggi per le guardie o adibiti a servizi vari, e si entra in un nuovo ufficio dove si lasciano i documenti in cambio delle chiavi di un armadietto (continuano le analogie con una stazione, sembrano certi depositi bagagli) in cui vanno depositati borse e oggetti metallici di ogni tipo, assieme a tutto che è «superfluo». Dopo un breve girotondo nel metal detector, cui spetta di controllare che nessuno abbia fatto il furbo (io vengo momentaneamente incriminato dalla fibbia della mia cintura), ci si ritrova assiepati davanti ad unaporta blindata, in attesa che la comitiva sia completa e che il Cerbero di turno possa aprire. Sono il primo; finalmente dentro penso. Macché: completamente disorientato, mi ritrovo «fuori», nel senso che mi trovo in un nuovo cortile. Seguo una ragazza che, ironica e divertita per il di identità. Questo surplus di domande non può ovviamente essere soddisfatto entro le regole del gioco date. La tensione o, se si vuole, il potenziale di conflitto e mutamento prende corpo in questo squilibrio (qui fa capolino il vecchio Marx: nel senso che le «contraddizioni» sono in qualche modo associate a incompatibilità di sistema, certo su una serie di ambiti molto più ampi di quelli identificati nella prima rivoluzione industriale e nelle modernizzazioni europee). Una società migliore vuol dire, allora, una società il cui di- . segno consenta di generare il più ampio pacchetto di condizioni per il maggior numero di identità. Queste osserv~zioni sono naturalmente molto vaghe. Fanno parte di una ricerca in corso. Ma si pensi alla nozione (anch'essa non molto precisa) di chances di vita proposta da Dahrendorf. Salvati dice che alla gente non interessa granché del socialismo, mio stupore da novellino, mi indica senza aprir bocca una seconda porta blindata nell'edificio di fronte a quello da cui siamo appena usciti. Mi attende una nuova prova iniziatica che affronto brillantemente: dopo la visione della laida calvizie del primo Cerbero, nemmeno quella degli immondi baffi del suo nuovo collega mi fa indietreggiare. Ma poi cado in preda all'illusione che il viaggiosia veramente finito, rallegrandomi troppo presto di alcuni favorevoli indizi: il passaggio dal romanesco degli imboscati alleparlate del profondo Sud delle «vere» guardie e l'apparizione di un lungo corridoio costellato di porte chiuse che intravedo dietro ad una inferriata presidiata da un terza Cerbero. Con mia totale disperazione non ci dirigiamo all'inferriata, ma veniamo deviati sulla sinistra, ritrovandoci in una nuova sala d'aspetto, dove vedo le stesse facce che avevo visto allontanarsi dalla prima con grande invidia più di un'ora prima. Sprofondo nella depressione; anche perché il nuovo ambiente è veramente agghiacciante: uno stanzone ampio, senza aperture sull'esterno ad eccezione di lunghe feritoie con inferriata appena sotto i soffitti molto alti, «arredato» da alcune decine di sedie di plastica che originariamente dovevano essere quanto piuttosto interessa sapere se farà più lavoro alienato o meno ( e se lo farà, naturalmente); se e come utilizzerà il tempo libero; su quali argomenti politici potrà influire; alla gente (al peuple de gauche) interessa la qualità delle proprie relazioni interpersonali; il rapporto con la natura e i beni realmente scarsi; le forme quotidiane di interazione, cooperazione, sovra e sub-ordinazione nel lavoro e negli ambiti vitali. Questo mostra che una società migliore è una nozione che ha a che vedere con i piani di vita degli individui. Ma, perché sia costruibile un piano di vita, è condizione necessaria che sia 'generata e garantita l'identità. Com'è noto, l'identità richiede il riconbsl:imento degli altri. E su questo si fonda in realtà gran parte di quella domanda di riconoscimento di dignità (che ha a che fare con una particolare versione dell'eguaglianza), implicita nei più forti movimenti collettivi degli ultimi venti anni, in società a scarsità allineate lungo le pareti, ma ora sono raggruppate vicino alla porta, laddove si riuniscono tutti in attesa delle chiamate, perché solo stando vicino e' è qualche speranza di capire i nomi faticosamente decifrati e articolati dalla guardia nelle sue rare apparizioni (naturalmente queste ultime avvengono in modo del tutto casuale come in precedenza). Mi rifugio nel gabinetto, sperando di trovare anche qui delle macchine distributrici di generi di conforto (si fa per dire), ma devo accontentarmi di acqua. Bevo più volte, tentando di ingannare lo stomaco (sono ormai le due passate e ho una fame feroce), finché alle 14.30 mi chiamano e finalmente «e11tro»davvero. La stanza dei colloqui è un-a·bolgia: grida, abbracci, pianti, urla, strepiti, scambi frenetici fra il dentro e il fuori che scarica110così la tensione accumulata nell'attesa del contatto il quale avviene attraverso una bassa transenna con tavolata e panche da una parte e dall'altra e sotto la sorveglianza di una guardia installata in un gabbiotto. Mi rendo immediatame11teco11toche no11 bisogna cadere nella trappola, tento di sourarmi all'emozione immaginandomi il colloquio come una singolarità spazio-temporale, una specie di Aleph in cui sia possibile concentrare a piacere tutti gli eventi possibili. Almeno un effetto lo ottengo: ho visto quel volto per l'ultima volta la sera del 20 dicembre 1979 - poche ore dopo sarebbe stato sequestrato - ma l'intervallo di quasi due anni che mi separa da quel momemo sembra ca11cellatod'un colpo, lo rivedo come se l'avessi lasciato la sera prima. Non so se riesco a comunicare questa sensazione a chi mi sta davanti, ma credo di sì, perché siamo in perfetta simonia nel rifiutare l'ansia della durata del colloquio (quaranta minuti dopo ore di attesa). È vero che parliamo male e di tutto, con frasi smozzicate, lasciati cadere comi11uamenteper passare ad altro prima di aver concluso, senza coerenza; ma non è per la fretta, bensì perché abbiamo capito che qui le parole non servono a comunicare ma a dividere: servono a reintrodurre lo spessoredel tempo normale nel nostro piccolo Aleph, a ridarci lapercezione della differenza delle due durate, dentro e fuori. Anche se parliamo ininterrottamente, i nostri quaranta minuti non son fatti di parole ma di due abbracci silenziosi separati da un unico lunghissimo sguardo. È li chepassa tutto, che scorre il paesaggio del mio lungo viaggio a Rebibbia. Uscendo, sono semisvenuto dalla fame ma soddisfatto, non mi hanno fregato, le loro tre ore di attesa non mi spaventano più. Rebibbia 17 ottobre 1981 ore 12.10-15.20 Visita ad Augusto Finzi moderata. La dignità, come sapeva il vecchio Kant, non ha prezzo, non è negoziabile né scambiabile. Essa è la condizione per negoziare e scambiare. Una società che consente a tutti (al maggior numero de-) gli individui e gruppi di ottenere il riconoscimento dell'identità è migliore di una società che non consenta ciò. Una società il cui output istituzionale generi un alto numero di chances di vita P!!rindividui è migliore di una società che ne genera un numero inferiore. Suggerisco che l'identità della sinistra, in società industriali moderne, abbia a che fare con questo centrale ordine di problemi. In questione, mi sembra, sono le ragioni di un nuovo contratto. Libertà, eguaglianza e fraternità sono ancora là, come i nostri principali problemi. Portare a termine il progetto moderno: è una buona parola d'ordine (come si diceva, se non sbaglio, un po' di tempo fa).

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