-- . Nessunpq~toè gratis Michele Salvati «Presente e futuro: un prJgramma critico•, in Quaderni Piacentini, nuova serie, 1981, 1, pp. 5-28, lire 5.000 Federico Stame I luoghi della restaurazione ibidem, pp. 29-42 Mario Tronti «Sinistra•, in Laboratorio politico 1981, 3 Peter L. Berger Le piramidi del sacrificio Torino, Einaudi, 198I pp. 282, lire 8.000 Lester C. Thurow La società a somma zero Bologna, il Mulino, 1981 pp. 296, lire 6.500 Ralph Dahrendorf La libertà che cambia Bari, Laterza, 1981 pp. 232, lire 6.000 V estivamo alla marinara. Michele Salvati ha aperto la nuova serie dei Quaderni Piacentini con un «come eravamo», in cui molti possono riconoscersi senza fatica e diffidenza. Salvati coniuga ragionevolezza e utopia; tensione etica e principio di realtà. Non è cosa da poco, di questi tempi. Il doppio bilancio sul piano teorico (il marxismo) e su quello storico (l'esperienza e la realtà dei sistemi socialisti) è deludente. Il marxismo si mostra per quello che è: una grande metafisica da diciannovesimo secolo, una visione finalistica e una filosofia della storia incorporate che, nelle fasi della prima industrializzazione, hanno tenuto assieme teoria e pratica, analisi e programma di emancipazione. Dal canto suo il socialismo, realizzato in gran parte del mondo in questo secolo, risulta un modello di società, di organizzazione economica e politica, non propriamente desiderabile, né in fondo plausibile. Salvati non dice proprio cosl; è più tenero di me con la nostra tradizione. Anche perché sa quanto essa pesi e quanto leggero, esile sia l'altro piatto della bilancia. Ma, in sostanza, questo è il succo del discorso. Il collasso di una filosofia della storia, le fallacie analitiche del programma di Marx, gli effetti perversi della grande speranza emancipatoria, il circolo vizioso tra eguaglianza e efficienza, i difficili e complicatissimi rapporti tra libertà e eguaglianza, ecc. sono di fronte agli occhi di tutti. Non si tratta solo di dispute accademiche, di questioni filologiche o di parrocchia. Salvati insiste giustamente sull'enorme importanza che ha il collasso del modello, del mito del socialismo reale. Esso non è un 'alternativa plausibile, credibile, desiderabile. Questo modello, d'altro canto, ha funzionato indubbiamente da collante per l'identificazione di buona parte, quando non di tutta la sinistra. Soprattutto perché ha lavorato da controparte (certo criticabile, ma corposa) all'esistente. La critica dello stato di cose, il mutamento e la trasformazione «progressiva• della società capitalistica si alimentavano, in modi diversi e flessibili, della consistenza reale di una società alternativa. Il nesso tra presente e futuro, il ponte tra realtà e possibilità, tra i due assetti e disegni della società, delle sue istituzioni e dei suoi valori, era coerentemente cementato. Una filosofia della storia, come del resto una teodicea, serve bene a qualcosa; e vale bene qualche scomunica o un'enciclica. Ora che succede, se si rinuncia a una filosofia della storia? E, d'altra parte, che cosa vuol dire «sinistra», se viene meno l'ancoraggio alle condizioni oggettive del progresso, alla latenza del nuovo nel grembo dell'esistente? Se revochiamo la nostra fiducia, per dir cosi, in un'etica del «parto»? Domanda inquietante, soprattutto se si •riflette sul fatto paradossale che al giro di boa degli anni '80, sul fosco sfondo delle relazioni internazionali, gli unici programmi di mutamento (cui è in genere associata l'idea stessa e coMarce/ Mariiin, «L'incantesimo», 1978 , munque l'identità della sinistra) sono venuti da «destra» e; in ogni caso, dai conservatori. Per le sinistre (socialdemocratiche, euro e non eurocomuniste che siano) l'imperativo è divenuto in ogni caso la difesa di conquiste sociali dei movimenti del lavoratori, di assetti consolidati nei paesi a patto socialdemocratico.e, al massimo, ove ciò non è avvenuto come in Francia, il precetto resta: «Full Employment and John Stuart Mili too». L'Italia è sempre un po' «diversa», ahimé: la sinistra è divisa tra il suo maggior partito, il Pci, che fa sempre meno politica - un po' premoderna - e il Psi che ne fa troppa - postmoderna -. Ciò è fonte di grattacapi, imbarazzo e disagio, nonché senso di frustrazione, per individui ragionevoli e sinceramente leali verso le ragioni del progresso e della giustizia sociale. S i·osservano e segnalano qua e là, anche per questo, indizi di discreta confusione. Alcuni filosofi postmarxisti, come li chiama Federico Stame in un articolo dello stesso numero di Q.P., assumono che il venir meno di una filosofia della storia coincida con il venir meno di qualsiasi giustificazione o razionalità delle nostre scelte, e quindi anche di quelle della sinistra. Il «come eravamo» finisce in questi casi in un delirio retorico da crepuscolo degli dèi, piuttosto confuso e spesso incomprensibile. Sostengo che questo esito non sia necessario e non sia l'unico possibile. In due parole: non serve a niente. D'accordo con Salvati e Stame: dobbiamo ragionare intorno alla nozione di «società migliore». Confrontare le idee, le preferenze, argomentare intorno alle opzioni, senza dimenticare il precetto weberiano sul calcolo costi-benefici. La sinistra ha bisogno di concettualizzare un'alternativa razionale, dotata di dignità teorica, praticabilità e plausibilità politica. Non ha bisogno di nuove retoriche. Ne ha talmente tante, nella sua tradizione. Un esempio tra i molti: la desolante povertà argomentativa di un articolo come quello di Mario Tronti sulla parola chiave «sinistra» nel n. 3 di Laboratorio politico. Tronti è certo appassionato e generoso. Ma sfido chiunque a riassumere in una cartella di trenta righe a sessanta battute che cosa vuole letteralmente dire un sermone esortativo sulla sinistra, nel 1981, che parte dall'Ecclesiaste e da Matteo, passa per la Camera dei comuni e l'assemblea dell'89, attraversa un secolo di storia sociale, di movimenti collettivi e conflitti, per arrivare infine a concludere che il «termine 'sinistra' è tutto da criticare teo- • se non citare la storiella dello sceicco che Peter Berger racconta in un capitolo di Le piramidi del sacrificio. Colpito dall'improvvisa ricchezza derivante dal petrolio, uno sceicco decide di dedicarsi allo sviluppo del suo depressissimo paese. Pagandoli profumatamente, convoca dieci tra i più grandi scienziati sociali del mondo e dà loro il compito di spiegargli in dieci cartelle i segreti della crescita economica. Gli esperti lavorano sodo nell'aria condizionata dei grand hotel nel deserto. Alla fine, arrivano le dieci cartelle. Lo sceicco legge con cupidigia, ma non è soddisfatto. Deluso, chiede una versione più stringata, che vada all'osso: una carte!- Enrù:o Ba;, «L'uomo, la donna e i vestili», /966 ricamente per insufficienza, ambiguità, storicità. È tutto da tenere politicamente». La sinistra per Tronti è un'«idea senza teoria». Del resto non sembra che secondo Tronti vi sia bisogno di teoria. Si tratta infatti di una «partita di abilità e di forza». Ma perché, se uno la pensa cosi e ha naturalmente l'inviolabile diritto di farlo, si scrivono articoli e non si fa piuttosto ginnastica o un po' di jogging? Tra il karaté e la pratica ecclesiale sembra, per nostra fortuna, esista una discreta gamma di alternative. Ragionare su una società migliore e desiderabile implica l'esercizio di un pensiero critico. Quest'ultimo deve incorporare il principio decisivo del calcolo costibenefici. Noi possiamo confrontare razionalmente linee di azione alternative e assetti istituzionali. Dobbiamo per questo identificare criteri alla luce dei quali giustificare o meno un certo assetto della società. È questo uno dei principali compiti di una filosofia politica che sia adeguata alla sfida e alla crisi attuale. Insisterei sul principio dei costi. Non trovo in proposito modo migliore la. Gli esperti affrontano la nuova sfida e arrivano a fatica a una forte concisione. Ma allo sceicco non basta. La richiesta è ora la più audace: condensare tutto in una frase. Lo sforzo dei nostri esperti è terrificante, ma al termine viene consegnato all'esigente sceicco un foglio con una sola battuta: «non ci sono pasti gratuiti». Che tutto nella storia della società, come nella biografia di ciascuno di noi, abbia un prezzo è un fatto. Un'alternativa razionale all'esistente deve tener conto dei costi comparati dei diversi assetti della società. Confrontando al meglio, non al peggio, i modelli in competizione. Libertà, eguaglianza e fraternità non sono cosi facili da tenere assieme. Vogliamo ragionare seriamente, con l'idea che non ci sono pasti gratuiti, su che cosa vuol dire «società migliore», «società più libera, più democratica, più eguale»? A bbiamo spesso ragionato intorno a questa famiglia di idee, con un'as~unzione tacita su un modello a «manna dal cielo» o a torta crescente. L'insistenza sui costi è tanto più opportuna oggi, quanto più la carta di una società migliore ha da essere redatta in una costellazione che vede alcune società capitalistiche in stallo. Dopo la lunga onda dello sviluppo e della crescita continua del secondo dopoguerra le società indusÌriali affrontano da qualche tempo una fase di ristagno o di crisi. La torta non cresce. Ora, come osserva l'economista del MIT Lester Thurow nel suo fortunato libretto La società a somma zero, una fase di crescita costante tende a rimuovere il problema, controverso e conflittuale, di una distribuzione equa delle risorse. Un conto è allocare benefici. La storia è un'altra, se si tratta di allocare perdite o costi. Ma questo sembra essere esattamente il Problema. Thurow sostiene che le nostre società hanno raggiunto uno stadio in cui devono cominciare a p,endere decisioni esplicitamente eque se vogliono uscire dalla crisi. Quali sono le regole di un gioco economico «giusto»? Conservatori e marxisti non si pongono il problema. In modi molto diversi,·entrambe queste tradizioni inducono a ritenere che l'eliminazione della scarsità renda irrilevante il problema della equità (o giustizia distributiva). Quando tutti hanno tutto, non c'è più spazio per problemi di equità. Sfortunatamente le cose non stanno cosi. Decisioni esplicitamente eque, nell'allocazione delle perdite, devono andare insieme a un programma che privilegi il lungo periodo sul breve. Se si preferisce il breve, si contengono gli effetti distruttivi delle tensioni sociali; ma sul lungo, come diceva John M. Keynes, siamo tutti morti. Tuttavia, un programma di distribuzione equa delle risorse deve privilegiare il lungo periodo. Questo richiede l'identificazione di un assetto o di un disegno di società, capace di generare un consenso ingrado di produrre stabilità,durata (le questioni «istituzionali» sorgono esattamente a partire da questa esigenza). Equità nella distribuzione dei costi e dei benefici della cooperazione tra classi e gruppi sociali: ciò suggerisce che la notizia di società migliore sia raggiungibile attraverso una teoria della giustizia. È opportuno ragionare intorno ai lineamenti di una società giusta, quando riconosciamo che il movimento e la dinamica sociali non incorporano, secondo un'etica del parto, alcun motivo di giustificazione, né possono valere come fatti da cui far discendere valori. Se questo ponte, come dice Salvati, è spezzato, se non leggiamo in trasparenza il futuro nel presente, non è inevitabile la rinuncia a ragionare intorno alla società migliore, plausibile, desiderabile. Dobbiamo in ogni caso disporre di un criterio, di un insieme di motivi su cui basare le nostre giustificazioni. Habermas ha identificato in una serie di slittamenti della giustificazione una sorta di logica di sviluppo, sino a definire - alla luce di un tipo particolare di giustificazione - le proprietà fondamentali dell'incompiuto progetto moderno. In un'altra tradizione, il grande rilancio della prospettiva del contrattualismo ha generato una suggestiva e influente, per quanto problematica, teoria della giustizia nella proposta di John Rawls. In entrambi questi casi, cosi diversi e non privi di intersezioni, il problema è qudlo di Kant: trovare una pietra di paragone alla luce della quale valutare razionalmente l'assetto
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