L o cstile itaJianp,. nel diritto è stato semptc caraUerizzato dal convincimento, diffuso da tempo immemorabile ed inculcato in tutti i giuristi sin dal momento della loro formazione come tali, che il cdiritto,. è una disciplina autonoma da tutte le altre, che può essere compresa o perfezionata per me120 di uno studio sistematico. Nell'ambito di questa concezione, l'opera degli studiosi del diritto è assimilata a quella di tutti gli altri scienziati (non solo csociali,. ): essa non si interessa tanto della soluzione dei problemi pratici quanto della ricerca della verità cscientifica,., dei principi ultimi o fondamentali, non si occupa dei casi individuali, ma pressocché esclusivamente dei problemi generali, in una parola cnon è tecnica, ma scienza pura»i. L'applicazione del diritto al caso concreto si muove in piena coerenza con questo presupposto. AI giudice viene fornito un insieme di c·principi• di ricerca metodologici i quali, applicati agli articoli di legge, non possono non consentirgli di trovare la cesatta• soluzione del problema concreto portato al suo esame, senza grandi difficoltà e senza troppi patemi d'animo. All'interno di questa visione del mondo, la vivente complessità del sociale sulla quale il giudice è chiamato ad intervenire, è totalmente messa in parentesi e questa cepochè> è addirittura considerata come una operazione indispensabile per una corretta amministrazione della giustizia. Si badi: non è che lo cstile italiano,. neghi l'esistenza di dati sociali irriducibili alla norma o di giudizi di valore. Se lo facesse si coprirebbe di ridicolo, posto che gli uni e gli altri esistono o non sono in alcun modo negabili. Questo cstile» ne riconosce invece la esistenza ed anche l'importanza, ma nel contempo li espelle totalmente dal mondo «incantato• del diritto, oggetto dei suoi studi. Questo o sarà un mondo di pure forme o non sarà. 1 conflitti, sui quali il giudice interviene, sono, per il giurista italian style, conflitti giuridici, non conflitti sociali. Le norme sono per lui la materia prima, i fenomeni che egli studia; esse costituiscono per lui degli autentici cfatti». S ul finire degli anni sessanta· questa struttura, immobile e consolidata da tempo, viene messa in discussione, non tanto nel csilenzio• delle riviste giuridiche e delle discussioni accademiche, ma sulle prime pagine dei giornali. Una parte, indubbiamente piccola, ma assai combattiva, del corpo giudiziario contesta pubblicamente il modello tradizionale di diritto che esso è chiamato ad applicare, dichiarando a chiare lettere che le norme giuridiche non sono neutrali, ma hanno un inc. dubbio carattere di classe, che il giudice no~ è un interprete neutro delle norme, ma un elemento di una struttura, in una parola che la forma giuridica tradizionale nasconde una sostanza innegabile di cpoteri• di classe. La rivolta contro il formalismo giuridico non si presenta inoltre come una protesta di giudici singoli, ma viene organizzata da una struttura stabile, Magistratura Democratica, sorta all'origine per gestire in modo «moderno• il formalismo tradizionale, ma alla fine approdata dopo varie traversie alla negazione stessa di quel formalismo. Il centro dell'attenzione nell'ambito del diritto si sposta cosl dalle «fonti• (e dalla teoria giuridica) all'operare concreto dei giudici, il quale per la prima volta <prevale• suglialtri due momenti. Non è qui il caso di fare la storia di Magistratura Democratica e delle sue vicende, abbastanza note nelle loro linee generali, non fosse altro per le campagne di stampa svolte all'inizio degli anni settanta contro di essa, vista come la portatrice di un disegno ceversivo• del funzionamento della istituzione giudiziaria. Quello che va, invece, sottolineato è che nella ideologia di Magistratura Democratica di allora convivevano una accentuata tendenza populistica ed una altrettanto accentuata «volontà di potenza». Sotto il primo aspetto si verificò una andata verso il «popolo» la quale non aveva avuto l'eguale in precedenza; per anni non vi fu meeting di protesta o sfilata o tavola rotonda nelle quali i giudici democratici non fossero presenti ed attivi ispiratori. Il populismo del resto, sebbene sia stato per anni considerato in modo negativo dalla cultura marxiana ufficiale (che poi, sul piano della pratica politica, questa facesse del populismo assai scadente è un altro discorso) costituisce un momento da non disprezzare in nessuna cultura, tanto meno in una cultura come quella giuridica per la quale non il «popolo», ma gli stessi rapporti sociali ai quali si applicano le sue elaborazioni, sono stati sempre esorcizzati come fuorvianti e messi in parentesi. Dopo tutto. è un fatto positivo che sia pure in modo «non scientifico» (!) si metta l'accento sul fatto che, nell'ambito di una stessa società, vi sono persone proprietarie e persone senza proprietà, soggetti detentori di potere e soggetti senza alcun potere, in una parola che la società non è affatto di liberi e di eguali, come la ideologia dominante proclama da tutti i pulpiti. Dall'altro lato, si riscontra nei giudici democratici di quegli anni una innegabile ricerca di potere, nell'ambito di una società in profonda crisi e, come tale, incapace di conservare tutto il potere ai ceti suoi tradizionali detentori. Senza dubbio, la volontà di potere dei giudici democratici all'inizio degli anni settanta fu ingigantita dai media a fini tutt'altro che disinteressati (dispiaceva non tanto la ricerca del potere, quanto il suo uso contro i ceti dominanti). Ciò non toglie che i.Ifenomeno ebbe realmente a verificarsi. In una società in cui il potere da sempre è stato ricercato al fine di favorire (spesso patrimonialmente) se stessi o il proprio clan,la ricerca di potere da parte dei giudici di MD ebbe questo di differente: il potere venne perseguito al fine di riequilibrare, nei limiti (non grandi) delle possibilità dei giudici, un mondo sentito come profondamente diseguale ed ingiusto. La prassi qui si congiungeva al populismo della ideologia, e cercava di realizzarne gli imperativi. Se ha senso parlare di una ricerca «disinteressata• del potere, la ricerca da parte dei giudici democratici nella prima parte degli anni settanta indubbiamente lo fu. Il populismo e la volontà di potenza dei giudici, in quella che si può considerare la fase ascendente del movimento, erano inoltre restati quasi sempre saldamente all'interno della logica giuridica tradizionale. Non vennero mai formulate teorie giuridiche alternative a quella tradizionale, in particolare nessuno, neppure l'ala radicale del movimento, ebbe mai a negare la tradizionale soggezione del giudice alla legge o ebbe a farsi promotore di teorie del tipo «diritto libero», «diritto creato dai giudici» ecc. In particolare furono sempre saldamente mantenuti alcuni principi fondamentali in materia di diritto penale, quello ad psempio secondo cui si può essere puniti soltanto per fatti criminosi bene individuati sulla cui commissione da parte dell'imputato esistano prove inconfutabili. Non venne mai meno, allora, la convinzione che il diritto penale è uno strumento assai pericoloso perché si possa utilizzarlo discostandosi dai principi tradizionali in materia di reato e delle sue prove e che proprio attraverso questi due principi si era passati dal medioevo del diritto al diritto penale delle società liberali. La natura del dissenso giudiziario nei primi anni settanta nel complesso fu-pertanto sana: mise in crisi il formalismo tradizionale, senza mettere io discussione principi che, anche se coinvolti nel formalismo generale, costituivano conquiste autentiche del pensiero giuridico moderno e garanzie insopprimibili delle libertà dei cittadini. Quello che non si è verificato in quella fase, mostra invece una pericolosa tendenza a verificarsi ora. Venuta meno, alla prova dei fatti, la fiducia in una «rivoluzione» imminente che modificasse la società in misura proporzionale alle speranze di allora, man mano si è attenuata anche quella ideologia populista che aveva costituito l'humus sul quale si era mosso il movimento dei giudici democratici di allora. Anche se essa non è venuta meno del tutto, è restata più come espressione di uno stanco rituale che come un principio ispiratore di autentico e fervoroso operare per una reale riforma del diritto e della società, come era stato in precedenza. D'altro canto, se questa componente si è attenuata fino quasi a sparire, la volontà di potenza si è rivelata assai più dura a morire. Il che è abbastanza comprensibile: che di «rivoluzione» o di riforma radicale della società non sia più il caso di parlare appare a tutti evidente; al contrario la società italiana attuale, pur avendo riequilibrato, in favore delle classi al suo interno dominanti, la situazione degli anni passati, continua a restare una società a governo e a gerarchie di comando deboli, situazione non sfavorevole per chi detenga un potere, come quello giudiziario, di una certa consistenza e del tutto sottratto a responsabilità. È nell'ambito di questa nuova situazione che proprio all'interno di Magistratura Democratica si è manifestata per la prima volta una tendenza la quale, se non seriamente contrastata, è suscettibile di arrecare più di un danno alle pubbliche libertà. L a più nota uscita dagli schemi tradizionali del processo penale è quella realizzata dal sostituto procuratore di Padova Calogero (anche lui di Magistratura Democratica) con l'inchiesta del 7 aprile 1979. Il modello di indagine penale seguito da questo giudice è a grandi linee il seguente: in primo luogo si deve accertare la qualità di «sovversivo» nell'imputato (o negli imputati). A tal fine sono sufficienti, ovviamente, gli scritti teorici e le dichiarazioni politiche degli inquisiti. Sulla base di questi dati, ad esempio, nessuno potrà negare che un imputato come Negri sia un «sovversivo• nel senso che a) si è più volte pronunciato con decisione contro il sistema dei rapporti sociali esistenti, b) si è più volte espresso in favore di un suo radicale mutamento, c) non ha escluso che questo mutamento potesse richiedere anche prassi violente. Una volta costruita, in modo fin qui credibile, la figura del «sovversivo», come tipo sociale (anche se non può non rilevarsi fin da ora che non è compito del giudice quello di costruire «tipi» sociali), a questo punto il passo successivo è rappresentato dall'arresto del sovversivo in questione, in quanto appunto «sovversivo» e quindi teoricamente capace di commettere atti di «sovversione». A questo punto la rottura con il pensiero e la prassi giuridica tradizionale è totale: gli inquisiti vengono arrestati non per le azioni da loro compiute (verso la prova delle quali l'inquirente
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