Domenico Ferla La casa di Arimane Milano. L'erba voglio. 1979 pp. 95. lire 3.000 Enrico Palandri Boccalone Milano. L'erba voglio. 1979 pp. 192. lire 4.000 Paul Radin. Cari Gustav Jung. Kart Kerényi n briccone divino Milano. Bompiani. 1965-1979 pp. 237. lire 4.000 Q uarantenne. aiuto-bibliotecario nella biblioteca di matematica dell'università di Torino. Domenico Ferla (nei versi si anagramma in Nicomede Folar) arrischia il suo primo libro di poesie su una professione di fede manichea. Può sembrare una stortura (ed è questo il primo scandalo di efficacia indubbia) che già esista il discorso che egli deve parlare; e che. anzi. si vede come obbligato a difendere fin dalla prima lauda Stelle erranti. particolarmente petrosa: «[...] ovunque domina l'ottimismo militante. il pessimismo anarchico o il dualismo gnostico / ovvero la dialettica / negativa sarebbe impopolare». Chiedersi dove mai sia oggi l'ottimismo militante in grado di far fronte al «pessimismo anarchico». che rischia di sommergerci fino al collo (magari con in sottofondo il solito galoppo di cui 'già scrisse' san Giovanni). significherebbe cadere nella rete delle opposizioni preconcette. Infatti si ha l'impressione che il 'senso' fortemente enfatizzato. a cui queste poesie polemicamente si ancorano. non sia che il versante fantasmatico e ideologico di un sentimento soggettivo che abbia attratto a sé una cattiva metafisica e convincimenti totalizzanti. Altro che morire di fame! Il Gran Discorso Escatologico si nutre di un malessere diffuso e. con i suoi dogmi. è pronto a rimpinzarci di senso fino alla nausea. Ma come tutte le trappole anche questa ha il suo fascino. tanto più eccitante in quanto essa sembra caricata ad arte ed è effettivamente funzionante. Può capitare. a un certo punto. che essa scatti: e allora ci troviamo come sbalzati fuori dai canoni letterari. Chissà se basterà dire. per tranquillizzarci. che la casa di Arimane è solo un libro. e non invece il mondo: proprio la trappola dove siamo tutti. tutto il tempo. D'altra parte. ci si può chiedere come parlare. in poesia. della Grande Immagine che ancora ci contiene. se non per distorsioni: effetti di un percorso tanto più inquietante in quanto autenticamente vissuto. In altre parole: da dove dovrebbe parlare un poeta «dopo la caduta» se non dalla Nebulosa? Nicomede Folar è andato «là», in quelle z.onestraordinariamente intense e feroci dove freme il punto estremo della vita. E si ricorda, perché è già stato scritto da qualche parte, ma vagamente, in maniera frammentaria. che qualcosa non ha funzionato nello stesso cosmo: in una Materia incapace di trovarsi Il e che si contorce e si trasforma avviandosi a un nuovo «buco nero» o ad una Salvezza che non possiamo neanche immaginare. Il parlante della Casa di Arimane non sembra il solito cazzaro che fa esperienze che Barilli chiamerebbe intraverbali, vale a dire piroette senza corda: egli è andato «là» e rischia di essere impiccato come eretico, cataro redivivo, strega. forse poeta, insomma come qualsiasi altro estatico, mago o lupo mannaro capace di attingere la propria sostanza dalla Visione (e in sogno - tra illuminazione e abbaglio - s'incontrano talvolta vere corde, veri nodi; anche storici, oltre che metafisici, si capisce). Della Nebulosa (che è 'anche' «una specie di forma globale. di fantasma di discorso da riconoscere e rendere visibile via via», come nota Giuliano Gramigna recensendo il libro per il n. 1 di Alfabeta) egli ci dà notizia in una lingua maccheronica ed aurorale, tragicomica nei toni predicatori. E sono litanie. farneticazioni di catari e bambinidellaFAOe comunistie democristiani e improvvisi sprofondamenti della terra come durante un'esecuzione capitale o per un «cancaro che ti magna»; e così s'inciampa fra i patiboli. o in chissà quale altro rottame celeste ... comunque opere del Male. Allora può succedere che si alzi un vento fortissimo: il soffio della poesia o forse quello - altrettanto terribile - che il popolo cristiano vide soffiare nella testa dell'eretico penzolante dalla forca. Rottamcielesti • Gianni De Martino Forse la poesia è la scoperta che il corpo può sognare, perire o salvarsi nella propria immaginazione: come il viaggiare tra il medievale o l'odierno nel nome • dei propri anacronistici «commilitoni» che nella loro passione per l'assoluto incapparono in una tragicomica morte, o, come dice il poeta americano Robert Duncan, il viaggiare nella tempesta che Shakespeare vide nella testa dell'idiota. E giù allora invettive furiose, cupi lamenti, riflessioni apocalittiche. Come se la vita - vista dall'altra parte, alla luce troppo cruda del raggio distruttivo della poesia - fosse un sogno già terminato: «La Vita era un ballo / che tutti i morti ballavano/ la Morte era un ballo che tutti i vivi ballavano. / Come una Massa colossale/ di Materia Vivente/ i moscerini danzavano / in un raggio di sole>. I modi verbali terroristici, repressivi, talvolta lamentosi ricordano (più che il cantore del «brutto I poter che ascoso a comun danno impera>, cioè il Leopardi al quale, in una nota dell'editore, vengono rimandati questi «poemi manichei>) quelli della propaganda ecclesiastica e, perché no?, certi sottofondi di pedale d'organo da controriforma, alla Testori; ma detumati e ingaglioffiti con effetti distorcenti da ventriloquo che, storto o morto, sembrano riprodurre fin nelle alterazioni grammaticali e sintattiche la mala specularità del Male. Nei momenti 'migliori' un grido o una metafora schiarisce quanto vi è di deprimente (e di artificioso) nel catechismo manicheo. e affiora un intenso sentimento tragico: quello delle evidenti imperfezioni dell'uomo, del carattere finito, limitato. frammentato, effimero della sua carne e dei suoi pensieri. Da qui, da questa specie di Medioevo dell'anima, la provocatoria virulenza dei toni, l'esibizione della malavita e la rivendicazione di un'esigenza di liberazione radicale. Il rigetto di ogni mediazione e la pretesa di detenere, in virtù di un sentimento soggettivo (evidentemente non verificabile da nessun criterio esteriore), la vera conoscenza dei misteri della vita e dell'universo già scandalizzò, all'inizio della nostra era, i contemporanei di questi inconsolabili che i cristiani chiamarono, per derisione, Gnostici. In effetti, ignari del paradosso, essi confondono le proprie motivazioni con quelle della storia dell'universo. Dal sentimento dell'evidenza del Male, l'insegnamento dei seguaci di Mani astrae una mitologia molto macchinosa per spiegarne l'origine riflettendo sulla Bibbia: questo mondo «infame», dicono, non può essere 1'-0pera del vero Dio, e quello creatore del Vecchio Testamento non è che un usurpatore, un buono a nulla che non ha saputo superare neanche l'esame di ammissione. L'impeto implosivo di questo libertario dell'assoluto rappresenta forse il rovescio di quel «fronte del desiderio» di cui oggi si celebra (fin troppo) il riflusso. La teologia manichea del Ferla sembra infatti come sospesa fuori dalla finzione letteraria. Giuliano Gramigna dice che essa «non è altro che il suo atto di fiducia preliminare. e dunque in certo senso mostruoso. che già esista il discorso che egli deve parlare». Non sono tanto sicuro che la Gnosi non sia altro che questo: certamente è 'anche' questo. Ma ad essa, a questo «atto di fiducia preliminare» sembra legarsi, oltre al discorso escatologico, anche un modo d'essere al mondo che ha una sua storia in gran parte come cancellata (1) e che, forse proprio per questo, non cessa d'interrogarci con le sue figure d'Apocalisse. Un modo d'essere al mondo che ha in sé la spiegazione del suo proprio sentimento e percezione del mondo. Insomma i fantasmi, ma anche come la traccia di un'alterità (non semplice alternativa) che persiste irriducibilmente nel corso della storia. Recentemente i mass-media ci hanno offerto illustrazioni particolarmente iperrealiste dell'applicazione pratica della «fiducia preliminare» nell'aldilà coltivata dal reverendo Jones e seguaci. Forse in ognuno giace oscuramente la convinzione che solo attraverso la morte si possa attuare una modifica integrale, una resurrezione. Ora, se l'immaginario, con Breton, è ciò che tende a diventare reale, forse vale perlomeno segnalare qui - dal momento che i poeti ce ne offrono la traccia - l'esistenza di una 'zona di poteri-immagini-reali' che potrebbero rivelare non poche sorprese, proprio a partire da un'indagine condotta nel campo letterario. Non si tratta di confondere arte e vita, ma di lavorare in quella vera e propria terra di nessuno che si estende fra le due: essa è il luogo del sogno. dove peraltro Freud scoprì la psicoanalisi. Un invito a gettare sguardi oltre questa idea freudiana di «fantasma». li «fantasma» non è un «botolo innocuo»(2): ma un luogo attivo, talvolta virulento, di desideri, di progetti. di ossessioni. Il lavoro poetico più recente raramente vi si arrischia. e forse non offre soluzioni soddisfacenti perché non getta sguardi oltre quest'idea di «fantasma». limitandosi al regime dell'immagine morta, del simulacro senza tensione interiore. È proprio il regime del simbolo svuotato, cioè del moderno. A questo regime, secondo me, rimanda quella poesia che Giuliano Gramigna chiama «endopolarizzata»: quella che si cala «nel tessuto stesso della parola per scioglierne i valori logici e fonici interni e liberarne una nuova combinatoria». Un lavoro che ci riserva molte sorprese, ma nel quale talvolta sembra celarsi come un orrore per l'esperienza vissuta e, in particolare, per il sentimento e la visione, i cui discorsi (quasi fossero radioattivi, portatori di contagio semi-magico) sono cosi condannati a quell'«estrema solitudine» di cui parlava Barthes nei suoi Fragments. Si corre ai ripari, certo: ma invocando un «ritorno al Privato» che si riduce a pubblico imbroglio, o aviolenza che finisce con l'esplodere sulla scena a corto circuito, con forti cariche simboliche. Una violenza non storica: implosiva, cristallizzante, cieca, cioè senza orizzonte, e per questo omologa in profondità di quel regime d~I simulacro che Baudrillard dice essere (insieme all'inerzia delle masse) caratteristica della modernità (3). In quello che ci cresce, e che non siamo preparati a comprendere, esorcizziamo la nostra stessa infanzia. D'altra parte, si tratta di esperienze e dimensioni che dovranno pur creare nuove forme per esprimersi, per non restare lettera morta, incubare in covi di energie inutilizzate. Forse tra gli esercizi intraverbali (che rischiano lo svuotamento del «linguaggio che dice il linguaggio» e, talvolta, il manierismo irrealizzante) e la proposta di poesia «esopolarizzata» del Ferla (che resta un tentativo originale) la poesia potrebbe rifiorire se potesse rendere conto del colloquio dell'individuo con se stesso riprendendo l'uso della parola quotidiana. Ma non partendo da zero, bensì facendo tesoro dell'eterogeneità e della trasversalità - rispetto al segno, alla sintassi e all'ordine strutturato - che ha distinto il lavoro poetico più recente. Insomma, per dirla brutalmente, auspicherei una vera svolta, in cui sia finalmente possibile scrivere senza paura poesie in cui poterci riconoscere tra queste nebulose particolarmente terroristiche, senza confonderci. Da qualche parte arriva, prima o poi, questa misteriosa autorizzazione a scrivere. li cardinale Richelieu (qui una specie di superio annidatosi come un vecchio spettro nell'interno del discorso) diceva: «Portatemi solo due righe scritte dal più onesto brav'uomo ed io vi troverò di che farlo impiccare». Ecco, scrivere senza paura forse sarà possibilequando ci saremo emancipati da certi vecchi spettri e tolta loro ogni «fiducia preliminare», per ricominciare daccapo. Come se fosse il primo giorno. Ma una tale apertura suppone, più in generale, un'idea di cultura che sia invenzione e non patrimonio. È ciò che accade in Boccalone di Enrico Palandri, una «storia vera piena di bugie» scritta da un giovane (nato a Venezia nel 1956) liber_odalle solite influenze che da qualche tempo bloccano i giovani spontanei. «Dopo questo libro- avverte il risvolto dell'editore - non si potrà più dire che i giovani non sanno scrivere». Lo sfondo del libro è la situazione esistenziale, emotiva e materiale della generazione del '77, a metà strada tra integrazione e ghetto, accettazione e rifiuto, amori, viaggi,sogni e dura realtà. Nel triste gregge di romanzi nuovi che, come ogni anno, scalpita alla soglia dei macelli, Boccalone brilla come una pecora nera. Questa bisogna salvarla. Niente a che fare che gli eccebombodellevarieoperazionieditoriali messe su a tambur battente sulla scia del polverone sollevato dall'effimero Porci con le ali. Enrico Palandri sembra nato apposta per scrivere, con la fluidità e la ricchezza d'invenzioni di chi, senza preoccuparsi di letteratura, si mette a scrivere lanciandosi (in pura perdita) nel mare scintillante della significazione, abolendo (ma non è un programma: è uno stato di grazia!) ciò che Kerouac definiva con sapiente
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