tire sovente in uno sterile esercizio di nomenclatura ideologica contenuti assai più ricchi e differenziati. T ra le opere che si sono aggiunte di recente in Polonia al filone memorialistico o diaristico di quella letteratura. Conversazioni con il boia - portata anche sulle scene teatrali dal r~gista Andrzej Wajda occupa indubbiamente un posto di rilievo. Essa è il risultato della permanenza. di 225 giorni (per l'esattezza dal 2 marzo al1'll novembre 1949) nella stessa cella di una prigione di Varsavia di Kazimierz Moczarski. giornalista e avvocato. membro di rilievo della resistenza polacca («Armia Krajowa»). il generale delle SS Jiirgen Stroop. uomo di fiducia di Himmler e responsabile della «~rossaktion in Warshau» (la liquidazione finale del ghetto. costata circa 60.000 morti). e il sottufficiale della polizia criminale tedesca Gustaw Schielke. durante la guerra cSS-Unter.;turmfiihrer» addetto all'archivio del Servizio di Sicurezza (BdS) a Cracovia. Dalla comune sorte di carcerati in attesa di giudizio. grazie anche alla ristrettezza dello spazio fisico e psicologico rappresentato dai pochi metri quadrati di cella. nasce. se non un impossibile dialogo fra interlocutori divisi da una contrapposizione insuperabile di valori. una sorta di colloquio. che il giornalista polacco utilizza come possibilità irripetibile di ricostruire dall'interno la biografia di uno degli esecutori di primo piano dell'hitlerismo. Per suo mezzo Moczarski si propone infatti di trovare risposta alla domanda su «quale meccanismo storico. psicologico. sociologico abbia condotto una parte dei tedeschi a trasformarsi in una serie di genocidi che dirigevano il Reich e tentavano di imporre il proprio Ordnung nell'Europa e nel mondo» (p. 23). L'opera. a cui non è facile dare una precisa catalogazione di genere (intervista? diario? biografia romanzata?). non delude rispetto alle sue ambizioni e porta un contributo a quanto la letteratura mondiale ha prodotto nell'analisi del fascismo hitleriano. Sforzandosi di ridurre al minimo la propria ingerenza. le valutazioni e i commenti. lo scrittore polacco dispone con mano sapiente quanto di sé palesa senza reticenze eccessive Jiirgen Stroop. «che amava avere if suo pubblico» (p. 21). Passo dopo passo. il racconto segue dall'infanzia e adolescenza nella piccola cittadina natia di Detmold. attraverso tutti i gradini gerarchici. la carriera di quello che viene considerato uno dei massimi criminali di guerra nazisti: Germania. Polonia. Cecoslovacchia. Ucraina. Caucaso .... fino all'assunzione nei vertici delle SS. la direzione delle operazioni di liquidazione del ghetto di Varsavia. le ultime fasi della guerra e il patibolo nella capitale polacca il 6 marzo 1952. La conclusione a cui conduce la lettura del libro. appassionante nelle pagine. scandite da una mentalità di meticolosa contabilità militare. sulla tragica resistenza del ghetto e il suo sistematico annientamento. è che la personalità di Jiirgen Stroop. «SS-Brigadefiihrer», è il prodotto perfetto e ultimo di un sistema sociale e politico retto dai valori dell'ordine e della forza («Ordnung muss sei!». «Befehl ist Befehl!». «Mein Ehre heist Treui• ). Come scrive il prefattore Franciszech Ryszka. «quelli che diedero l'ordine di distruggere il ghetto e di massacrare gli ultimi suoi abitanti. gli autori e gli esecutori del piano "Grossaktion Warshau". non erano le rotelle di una grande macchinazione. Erano uomini vivi. formati dalla propria cultura e dal proprio ambiente. abituati gradualmente. ma senza freni. al crimine» (p. 11). Nell'opera quindi. che potrebbe anche intitolarsi Anatomia di un nazista, trova conferma quanto affermato più in generale da J. P. Sartre nelle sue Réftexions sur la question juive: «L'antisémitisme est [...] une attitude globale que l'on adopte non seulement vis-à-vis des Juifs. mais vis-à-vis des hommes en géneral. de l'histoire et de la societé; c'est à la fois une passion et une conception du monde» (Parigi. Gallimard. 1954. p. 19). Certo. il prefattore polacco scivola fin troppo disinvoltamente sulle circostanze che resero possibile la nascita di Conversazioni con il boia. limitandosi a dire. con imbarazzata circospezione. che «la sorte gettò Stroop nella stessa cella di prigione con Kazimierz Moczarski» (p. 6). Non tanto la sorte. quanto la politica adottata negli anni dello stalinismo dalle autorità polacche nei confronti dei membri del1'«Armia Krajowa» (Esercito nazionale) come Moczarski. ossia della resistenza non comunista che. pur rappresentando la parte più consistente dell'opposizione armata all'hitlerismo in Polonia. fu a lungo considerata strumento della reazione e delle forze imperialiste. Quella politica significò concretamente per Moczarski undici anni di prigione. innumerevoli torture fisiche. la condanna a morte poi commutata in prigione a vita. fino alla riabilitazione. avvenuta nel dicembre del 1956 dopo i cambiamenti verificatisi anche in Polonia in seguito al rapporto Kncleev al XX congresso del PCUS (la vicenda di Moczarski è documentata da Aniela Steinbergowa nel volume Visto dal banco della difesa. pubblicato a Parigi nel 1977 dalle edizioni di «Kultura» ). Il processo storico di riabilitazione di quella resistenza è stato lungo e contrastato in Polonia. e solo oggi sembra - la pubblicazione seppure tardiva di Conversazioni con il boia ne è una conferma - avviato a risoluzione. Q ueste puntualizzazioni naturalmente. se fanno una luce più completa sulla vicenda. non tolgono nulla al valore dell'opera. che sollecita qualche riflessione sulla politica adottata dal nazismo verso gli ebrei. Diretta. in progressione crescente. a una loro completa eliminazione fisica - realizzata poi ad Auschwitz (O~wiecim). Treblinka. Majdanek ... - essa appare come lo sbocco coerente di una dottrina. condivisa da una parte dell'Europa. che già prima aveva dichiarato rotto ogni legame di solidarietà dei «giudei» con gli altri uomini. li aveva privati della dignità fondamentale che ciascuno acquista per nascita. li aveva esclusi come «altri». come «non-uomini» dalla comunità umana. «Gli Ebrei - afferma categoricamente Stroop. e questa convinzione fa parte integrante della sua visione del mondo. ciò che lo fa essere in pace con se stesso - non sono a dire il vero uomini nella nostra accezione. Lo dirò in altro modo: gli Ehrei. gli Zingari e i vari Mongoli sono ~ccondo una scienza corretta quasi ·animali o uomini incompleti. Eppure alle scimmie spariamo e delle loro pelli si fanno pellicce per le donne più belle» (pp. 279-80). Fino a qual punto gli ebrei avessero consapevolezza di tale esclusione ci è detto da Arri11areprima di Dio. della giornalista Hanna Krall. Lunga conversazione-monologo con Marek Edelman. unico sopravvissuto (oggi medico) fra i giovanissimi membri dello «stato maggiore» dell'Organizzazione ebraica di combattime'iito (2.08) del ghetto di Varsavia. l'esile volumetto non ha intenti diaristici o cronachistici. Nulla aggiunge a quanto ci aveva fatto conoscere la letteratura esistente sulle condizioni di vita nel ghetto. sulla lenta agonia di migliaia di uomini ridotti a larve umane. che si volevano spogliati perfino del loro unico bene. l'innocenza della vittima. prima di avviarli ai campi di sterminio: «Murati dentro i vivi morivano / mosche nere deponevano le uova/ nella carne umana / Giorno per giorno di teste enfiate si lastricavano le strade» (T. Rbzewicz. I vivi morivano, in Inquietudine. 1947). N o. tutto è già stato detto su quell'orrore. anche se chi ancora ingenuamente talvolta si chiede il perché di tanta passività nel subire può meditare sulle parole di Edelman: «Lo sai cos'era allora il pane nel ghetto? Perché se non lo sai. allora non capirai mai perché migliaia di uomini potessero presentarsi spontaneamente ed andare col pane a Treblinka» (p. 10). Brandelli di ricordi. frammenti di immagini da cui è assente ogni pathos. ogni enfasi. dove anche il gesto eroico si ricompone in una dimensione di normalità. di pudore quasi. che a tutti riconosce dignità. rivoltosi ed inerti. Ma quei relitti della memoria all'apparenza dispersi confluiscono gradualmente in unità psicologica che spiega e chiarisce i fondamenti stessi. le molle della rivolta. Ciò che le poche centinaia di combattenti cercano di affermare con la lotta non è un'impossibile speranza di sopravvivenza («era sempre ingioco la morte. mai la vita». p. 9). bensì lavolontà di essere reintegrati nella dignità umana che viene negata loro pure nella morte: «Ma che forse l'Ebreo muore? ... L'Ebreo non muore. l'Ebreo crepa» (B. Wojdowski. /1 pane gettato ai morti. p. 272). Perché la richiesta sia avvertita. la morte deve allora da privata farsi atto pubblico. così come pubblica e collettiva è la quotidiana degradazione a «non-uomini»: «Noi sapevamo che bisognava morire pubblicamente. davanti agli occhi del mondo» (p. 12). Lo stesso bisogno spinge anche Eli ben Zacharian ibn Gajet ad abbandonare la quieta Narbona per una cittadina spagnola. nell'intento di uccidere l'inquisitore della regina Isabella che semina terrore e sospetto fra i suoi fratelli ebrei. Un'idea anima il protagonista dell'ultimo romanzo di Julian Stryjkowski. -L'uomo di Narbona. ambientato negli anni che precedono la cacciata degli ebrei dalla Spagna e dedicato agli insorti del ghetto di Varsavia: «Che ciascuno scelga la sua morte. Non c'è altra via. Muoriamo dunque lottando». La constatazione che scaturisce da queste opere è che il problema delle responsabilità nel genocidio degli ebrei è strato troppo spesso mal posto. La tendenza dei mass-media e della pubblicistica a convogliare l'attenzione - giocando anche su facili fattori emotivi - sugli aspetti più aberranti e mostruosi del fenomeno (camere a gas. forni). di cui i più in effetti non erano a conoscenza. maschera il tentativo inconscio(?) di farci dimenticare da un lato che l'antisemitismo hitleriano affonda le sue radici lontano nella storia d'Europa. dall'altro che i campi di sterminio rappresentarono la razionalizzazione. la sistematizzazione e l'esito di discriminazioni. persecuzioni e massacri non meno disumani. come la creazione e l'annientamento del ghetto di Varsavia appunto. protrattisi p_eranni (o secoli) alla luce del sole. L'aver fatto discendere quegli eventi dalla dimensione «eccezionale» dell'orrore riportandoli alla loro ugualmente macabra «quotidianità». che vanifica di fatto il falso dilemma sapere/non sapere. può essere considerato l'elemento unificante. proposto come chiave di lettura di questi tre libri. a ciascuno utili per non dimenticare. come scrive ancora Sartre. «que le destin des Juifs est son destin» (Réftexions .... p. 189).
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