Una città - anno V - n. 39 - marzo 1995

·astazioni prodotte nelle famiglie e nell'opera !gli altri e l'isolamento in cui vivono ammalati vo chi chiede se è pericoloso stare in ascensore i per trasformarsi in baracconi autoreferenziali tiamo perdendo. Intervista a Ulla Barzaghi. .f genitori? Ma che mondo è questo? lo, ali' età di 55 anni, vado nelle scuole, non mi sarei mai sognata di farlo in vita mia e non sono neanche preparata, ma mi chiedo se sia giusto mandarci, a fare informazione scientifica, questi medici appena laureati. Il più delle volte, buttati in certe classi di periferia dove i ragazzini ti fanno a fette e ci vorrebbe un coraggio da leoni nell'affrontarli e costretti a spiegare cose che i ragazzi sanno molto meglio di loro, ripiegano sul linguaggio accademico, si rifugiano nelle diapositive che poi sono le stesse per il liceo Einstein e per una scuola di odontotecnici di periferia dove metà dei ragazzi son dei balordi. E allora che fine fa la famosa elasticità, la fantasia, l'intraprendenza del volontariato? Anche qui si rischia la burocrazia tipica di un baraccone statale e francamente si potrebbero risparmiare soldi e energie. Fra un po' il volontariato diventerà un ufficio di collocamento. Questi ragazzi han bisogno di ben altre informazioni, di un'informazione adattata alle diverse esigenze e situazioni. E se l'intervento è buono, non noioso, non accademico, i ragazzi reagiscono benissimo. Quando capita il medico che riesce a stabilire un dialogo comprensibile con gli studenti, diventa molto bello fare queste due ore perché i ragazzi fanno domande intelligenti, animate dalla curiosità verso chi vive la malattia sulla propria pelle e verso la società in generale. Ci si trova di nuovo tra esseri umani che parlano. •·•• < ., -~- , La gente è così, ha voglia, ha bisogno di parlare, non viviamo in mezzo ai mostri. Questo mondo resta pieno di gente meravigliosa. Proprio in quei giorni di attesa, dopo che la signora aveva smesso di salutare mio figlio, una mia amica che sapeva tutto mi disse: "Guarda che oggi mi hanno chiesto se è pericoloso salire in ascensore con Chicco". E' lì, di fronte a domande del genere, che noi rischiamo di fare lo sbaglio di reagire male. Quando io racconto questo fatto, la prima cosa che la gente dice è: "che cattiveria!". Ma perché cattiveria? Non è una cattiveria domandare se è pericoloso. Perché dev'essere una cosa discriminatoria una domanda così? Diamogli una risposta: non è pericoloso. E' lì che si apre un varco, perché è anche naturale che immediatamente la gente si chiuda a riccio. E se la situazione è così, la colpa è anche dei malati di Aids e delle loro famiglie. Non è impressionante che la mia famiglia sia ancora l'unica che fa un discorso pubblico, che va alla Rai, che parla del problema? Vedere I' Aids come una malattia della povera gente o di gente che ha una vita sessuale molto irrequieta è un gravissimo errore anche dal punto di vista della prevenzione. Andando nelle scuole mi sono accorta che i ragazzi sono convinti ancora oggi che l'Aids non li riguardi, che riguardi solo tossicodipendenti e omosessuali. Però le statistiche più recenti dicono che si sta diffondendo tra i giovanissimi, tra i 14 e i .. ..... ,_., ,.? .... ,. . ..... . ... . .A. ·;_,,,,,,.. ~-.;., # ,.. . . . . . . ,". ~· . };~._:.t.:::.. '." :{i.,~: 22. .t·,?7 "•/ ,; :,·. · '.. "'\. : ... : ' .. 18 anni, come in nessun altro paese in Europa in proporzione al numero dei contagi. Perché dobbiamo far correre dei rischi ai nostri giovani? Per superficialità? E poi è pericolosissimo per le donne lasciare questo spauracchio in mano ai benpensanti, alla destra fascista o al mondo cattolico integralista. Si vedono segni di integralismo dappertutto, in America si cominciano ad ammazzare gli abortisti. li peccato e la vergogna stanno diventando di nuovo un punto sul quale premere, sul quale acquisire potere. Bisogna fare molta attenzione. Anche in Tv, ultimamente, ho grosse difficoltà. Non ho più accettato niente, perché devo andare lì a fare la "mamma addolorata". Il pianto, il lamento in televisione fa anche bene perché c'è tanta gente che ha ragione di piangere, però ogni lacrima deve anche dare un messaggio e invece queste lacrime rischiano di diventare sterili. Io sono anche una donna che ha un'esperienza come volontaria, che ha un'idea, che vorrebbe raccontare ciò che sto raccontando a lei, ma non gliene frega niente a nessuno, il problema dell' Aids non interessa molto, perché tutti si credono al riparo, è una cosa che riguarda altri. Io devo far piangere la nazione, perché sono brava. Hanno osato addirittura chiamarmi una "madre coraggio". Mi sono detta che doveva essere caduta ben in basso la reputazione della madre se si crede che ci voglia coraggio per fare una cosa normalissima e mi sono vergognata di essere paragonata alle donne che testimoniano contro la mafia. l'intervista bocciata perché troppo positiva L'ultima trasmissione a cui ho partecipato è stata Dove sono i Pirenei, il tema era "Aids e famiglia", avevo visto la trasmissione, mi sembrava simpatica, erq contentissima e così mi sono trascinata dietro anche un'altra mamma, la mamma di Adelaide, una ragazza deliziosa che è morta l'anno scorso. Ci siamo dette: "finalmente abbiamo uno spazio per parlare". Quando siamo entrate hanno voluto che ci mettessimo addosso le coperte commemorative. La Maria mi ha guardato e quasi le veniva da piangere. Poi siamo state sistemate fra iI pubblico, io ho potuto solo dire cosa significa questa coperta. Di nuovo la mamma, la mamma col suo straccetto di lutto! L'intervento, poi, è stato quello di una prostituta in condizioni disperate, trascinata davanti alle telecamere con la sedia a rotelle. Io sono uscita gridando, la Cancellieri è scappata. Ho cercato di parlare con il regista, ma non stanno ad ascoltare, sanno già tutto, loro sanno tutto. Mi ha fatto proprio molta rabbia. Ci si meraviglia poi che le persone si chiudano nel loro lutto? Una donna che mi vide alla televisione e mi telefonò, da tre anni viene a trovarmi col suo marito. Sono una coppia anziana e ancora mi raccontano del loro figlio morto in un incidente automobilistico. Per puro caso l'anno scorso ho saputo che il figlio era morto di Aids. Ecco perché questa donna mi cerca, perché vuole capire come si può affrontare il dolore, come posso essere così serena, così attiva, mentre lei non riesce più a vivere, piange sempre. Sono tanti i lutti non elaborati, come dicono gli psicologi, perché le persone hanno sopportato tutto in silenzio, senza scambiarsi con nessuno, col terrore di venire discriminate, col terrore di essere identificate con quell'immagine che si vede correntemente. Noi eravamo il I O dicembre in piazza della Scala, con questi tappeti stesi sperando che la gente si fermasse in modo da poter parlare, informare, sdemonizzare. Ebbene l'Espresso esce con una copertina intitolata Corsie pericolose, dove un'infermiera è vestita come se dovesse affrontare una guerra batteriologia ... Noi combattiamo, la gente vive una tragica solitudine e questi giornali devono uscire con questa roba qui? E sono tutti così. Quando nell'89, partendo da casa nostra, sentendoci quasi dei clandestini, abbiamo cominciato la nostra guerra in tutta l'Italia, un giornalista che si chiama Luciano Del Sette, è venuto a farci un'intervista per il Manifesto. Credo fosse un free/ance. Noi ci tenevamo moltissimo a questa intervista, col nome e cognome, con il padre architetto e la normalità, tutto visibile, e spingevamo avanti tutto, pensando che se in quel momento noi eravamo gli unici, dopo una settimana o dopo due mesi, saremmo stati cento. Ebbene, dopo qualche giorno Del Sette mi ha telefonato e mi ha detto che l'intervista era stata respinta perché era "troppo positiva". O io vado a stri Ilare in piazza come malato, come famiglia con I' Aids, casomai con una bandiera rossa o questi giornali battaglieri non sono interessati. Troppo positivo! Crederanno che mi abbia fatto piacere andare in Tv a dire che mio figlio era omosessuale e malato di Aids. La prima volta, dal momento della decisione al momento della ripresa, dimagrii di sette chili per paura di quello che mi apprestavo a fare. Quanto avrei preferito andare a dire qualcosa di più positivo! Impegnandomi con I' Asa, che fa un buon lavoro, ho imparato tante cose. Sono cambiata. Soprattutto ho lasciato perdere tante formalità alle quali ero stata educata. Mi sono accorta di essere nata e cresciuta nella bambagia. Mi vien da ridere a ricordare la prima lettera che mi fu pubblicata. Ero orgogliosa perché, dopo una vita di casalinga, era la prima volta che pubblicavo qualcosa su un giornale. Ma Babilonia (giornale dei gay milanesi. Ndr.)non l'avevo mai vista. Era la lettera di una madre che invitava altre madri a rimanere madri perché i figli rimangono figli anche quando sono malati, anche quando sono omosessuali. Le invitavo, invece di cacciare fuori i figli, a invitare il partner del figlio a cena. I redattori, infatti, avevano intitolato la lettera Venga a mangiare il brasato stasera. Quando, però, dopo un po' di tempo, mio figlio è venuto a casa col giornale e l'ho sfogliato, ho capito subito che non l'avrebbero certo letto le mamme. Per di più in mezzo alla lettera cosa avevano messo quei birbanti di Babilonia? Un primo piano grande così di un particolare di nudo maschile. Io che l'avevo già detto a mia sorella in Germania, ho dovuto tagliare la foto e spedire l'articolo col buco. Infatti lei mi scrisse: "che cosa c'era lì in mezzo?". Ricorderò sempre Franco, il primo ragazzo che mi fu affidato. Era un tipo simpaticissimo, ma tremendo, che fin da piccolo aveva fatto la vita di strada, era un travestito e si prostituiva, quindi era anche di una volgarità inaudita. Qualche volta lo accompagnavo in tram e all'inizio mi metteva molto in imbarazzo andare in giro con lui perché si faceva notare proprio dappertutto. Ricordo che regolarmente, indicando me, diceva alla gente seduta: "ma come, non si alza, non vede che è una persona anziana?". Così ho imparato piano piano a non far caso a queste cose, a lasciar perdere, a uscire un po' dal mio formalismo ed è stato molto importante per me, per capire e anche perché rischiavo di diventare una dama di san Vincenzo. Al Iora stava parecchio male, scappava dal1' ospedale ma siccome, come mio figlio, era uno di quei pazienti sperimentali per il Ministero della Sanità, che si erano, cioè, dichiarati disposti a prendere certi farmaci, alla sera lo andavamo a cercare. E dove? Alla stazione o qui al parco dove batteva. E mio marito diceva: "ma pensa se passa qualcuno e ci vede qui ...". Quel compito me l'aveva dato mio figlio, che in quel tempo era ricoverato, sono scesa e c'erano queste "fanciulle" che mi guardavano con sospetto. Ma non ho potuto fare niente perché non conoscevo il nome d'arte di Franco, che poi era semplicissimo, Franca, ma non mi è venuto in mente. Vedevo mio marito che si abbassava dietro il volante e mi veniva da ridere ... Il sogno di Franco era una casa che non aveva mai avuto. E quando gli è stata assegnata dal Comune, grazie all'interessamento dei volontari dell' Asa che furono bravissimi, siamo partiti con un camion di un prete per raccogli ere mobi Ii dappertutto e lui era felice. Volevo tanto bene a quel ragazzo, era un ragazzo meraviglioso, era bello vivere con lui. Lui faceva di tutto per non fare soffrire la sua mamma, io ero sempre lì a spiare lui, e mio marito sempre a spiare me che non crollassi: era tutto un lavoro a catena. senza la speranza • rimanevano solo le speranze Ricordo che una volta sono passata davanti al bagno: lui era lì, nudo, col suo bel corpo che cominciava già a dimagrire, che già era aggredito da tutte le parti da questo schifoso mostro, ma era allegro, cantava, e vederlo in quel momento così indifeso, mentre si frizionava i capelli per un ennesimo malanno, un ennesimo acciacco, senza dir niente, senza farlo pesare, mi ha fatto correre in camera da letto e mettere la testa sotto iIcuscino perché avevo un bisogno di urlare, avevo bisogno di fare qualcosa di molto forte. Tante volte mi pesava, mi dava fastidio questo se/fcontrol. Bisognerebbe poter urlare quando uno ha voglia di farlo, almeno qualche volta. Ricorderò sempre quando a mio figlio han detto che avevano individuato una macchia sul polmone. Era la condanna definitiva. Mio figlio era un tipo sveglio, conosceva bene il suo corpo e la malattia. Così alla sera quando tornavo dall'ospedale, dall'ora di visita, ripensando alla sua stanza fredda, con quel letto d'acciaio, senza telefono, senza tv, mi chiedevo perché mai arredo, bellezza e igiene non possono stare insieme. Ma chi l'ha detto? E' perché non Io vogliono. Il malato deve fare il malato, il paziente e basta. L'individuo, la persona sono dimenticate. Mio figlio era abituato a una vita attiva, aveva amici, gli piaceva la musica, gli piaceva il teatro, viaggiava, la nostra casa era movimentatissima, e pensarlo là, dopo aver ricevuto quella notizia improvvisa così brutta, così fatale, in quel1'ambiente, senza nessuna distrazione, insomma, ricordo di essere scoppiata a piangere e di aver continuato per tutto il viaggio. Non riuscivo a frenarmi. In mezzo a quell'autobus pigiato, la gente era carina, guardava, vedevo la pietà negli occhi, ma non potevo fermarmi, non me ne fregava niente, non riuscivo a staccare il pensiero da come doveva vivere quella notizia là dentro, con il vicino di letto che stava per morire e l'altro che piangeva perché la famiglia non lo voleva. Perché sono tutti della stessa malattia, fanno tutti lo stesso percorso. Questo è abbastanza crudele. C'è questa impotenza, niente, non si può far niente, tremendo. Vedere il figlio che cade a pezzi e non poter far niente. Erano lontani i tempi quando, sempre piena di speranza, aprivo continuamente i giornali, sempre a leggere. "Inventeranno qualcosa?". Poi, quando ho approfondito l'argomento ho visto che la speranza andava spezzata, fatta in piccoli pezzi da adattare ai piccoli momenti, agli attimi della vita che rimanevano. Sì, la speranza andava spezzata per puntare solo sulle speranze. Mio figlio è morto il 15 gennaio 1990. Lui ha vissuto molto bene la sua malattia, ci ha convissuto bene. Ci ha un po' estromesso dalla gestione medica, farmacologica. Verso la fine io gli facevo le punture, tremando come una foglia, però non chiedevo cosa c'era dentro, me le preparava lui. Anche il suo rapporto con i medici era buono. Tre mesi, circa, prima della sua morte ha deciso di farsi battezzare. Neanche per me era privo di importanza quel gesto, ma per mio marito, convinto non credente, fu un colpo. Per la prima volta ho visto mio marito piangere. Mi disse: "vivi accanto ai figli, li educhi, cerchi di dare l'esempio, poi ...". Ma pur essendo molto colpito non )'ha fatto pesare al figlio, è rimasto con lui tutto il giorno, solo alla cerimonia verso sera non ha partecipato. La mia prima reazione invece era stata: "oddio, ha paura". Ho pensato tante volte a quella scelta, ho pensato che le persone care che gli sono state molto vicine concretamente sono state una suora e il prete dell'ospedale e mi sono convinta che, più che un gesto di fede, sia stato un gesto d'amore. un volontariato piccolo che funzioni a macchia d'olio Se fosse stato un gesto di fede, mio figlio çhè mi amava molto, avrebbe fatto un çiiscorso con me, avrebbe in qualche modo cercato di convincermi, di portarmi sulla strada, non l'ha fatto. A differenza di mio marito, io sono stata educata in modo religioso, non lo so se sono credente, non ho il coraggio di dire che non lo sono. Non ho risposte, ma forse non ho nemmeno la voglia di darmele. E' chiaro che il mio rapporto con la chiesa e le istituzioni cattoliche è estremamente conflittuale. Arrivo a considerarle proprio nemiche per il motivo dell'omosessualità, non posso restare neutrale su questo. Ora mi sembra di poter dividere la mia vita in un prima e un dopo. Sono uscita da questa esperienza molto diversa. Ero la madre, la casalinga professionista che aveva sì gli amici, però i grandi problemi li guardava con distacco dallo schermo, dal giornale. Invece adesso non aspetto, voglio capirli e mi fido molto più di me per cercare di capirli. Il volontariato a me piace in un territorio piccolo, intorno a sé. Quando entro in una famiglia e riesco a convincere una mamma che suo figlio non è una cosa schifosa, di cui vergognarsi, solo perché è omosessuale, quando riesce di nuovo ad avvicinarsi a lui con affetto, a me sembra di aver fatto un lavoro molto utile alla società, perché avrà dei riflessi positivi sul mondo che la circonda. La mia filosofia è quella della macchia d'olio. Credo che funzioni bene, ho paura, invece, che quando le cose cominciano a cadere dall'alto diventino formali e si svuotino dentro. L' Aids era un'occasione, una grande occasione, per incidere positivamente in questa società e ce la stiamo giocando . La stiamo perdendo. - UNA CITTA'

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