Una città - anno V - n. 39 - marzo 1995

• storie PEZZETTO UTURO Guardare la sofferenza significa fare qualcosa. Un'abitudine alla condivisione che s'è persa. La capacità di attenzione in una città come Perugia. Associare le famiglie per costruire un futuro, non solo per mettere toppe al presente. Un centro diventato punto di ritrovo per i giovani. Intervista a Clara Sereni. Il libro è nato dall'idea di Rosetta Flaiano di fare un libro di interviste alle madri. Mi spaventava la difficoltà di rendere in un'intervista, scrilla soprallulto, la ricchezza e la vivezza di un incontro. Poi, continuando a parlarne abbiamo scoperto di conoscere tanta gente famosa con storie di questo tipo in famiglia e ci è sembrato che chiedere ad alcune di queste persone di raccontare la propria esperienza potesse essere un modo per buttar giù il muro di silenzio che circonda il problema. Finora c'è stato per questo libro un ascolto che difficilmente ci sarebbe stato in altre situazioni, un ascolto certamente dovuto al fatto che la maggior parte degli autori di questo libro sono letterati di una certa notorietà e poi anche alla loro capacità di coinvolgere attraverso la scrittura. Siamo ancora ai primi passi e le difficoltà sono grosse, nel senso che mentre la stampa, anche quella da cui rpi aspettavo il peggio, ha recepito l'impostazione del libro e non è andata particolarmente a scandagliare fra le pieghe del dolore di queste esperienze, negli incontri pubblici viene fuori un meccanismo del genere: "fateci vedere quanto state male voi, così noi ci sentiamo meglio". L'ultimo incontro è stato particolarmente violento, con l'intervento di un luminare della neuropsichiatria infantile venuto a raccontarci i suoi sensi di colpa, parlando del caso della figlia di Flaiano: che sarebbe stato meglio lasciare morire, così poi non ci sarebbero stati gli infarti del padre e la letteratura italiana ne avrebbe beneficiato. Credo sia anche legittimo che chi fa queste professioni abbia una propria sofferenza e anche il diritto di esprimerla in certi luoghi, ma non dovrebbe venire a raccontarla a noi che già ne abbiamo abbastanza. Che cosa significa guardare la sofferenza? L'atteggiamento "poverina come soffri" che è di non condivisione, di esclusione, perché sottintende anche "meno male che è toccato a te, così sto meglio io", è abbastanza trasversale, non è questione di destra o sinistra, è molto diffuso, anche molto umano, tutti noi, in qualche modo, ci rassicuriamo misurandoci, però è un confronto che rischia di essere molto feroce. Quello che allora mi sembra di avere capito è che se qualcuno viene a dirmi "come ti sono vicino, come mi sento toccato da questo discorso" io gli devo rispondere: "benissimo, allora ci sono moltissime cose da fare, proprio concretamente". Hai un figlio a scuola? Comincia a verificare cosa succede agli handicappati nella sua scuola, qual è il loro livello di integrazione. Insomma, credo che per chiunque ci sia una cosa da fare, persino una vendita di beneficenza, che fra tutte le cose è quella che mi piace di meno ... Credo che sia l'unico modo per non limitarsi a questo atteggiamento un po' vampiresco che spesso sento e che, ovviamente, mi infastidisce molto, un atteggiamento che, d'altra parte, dipende anche dal fatto-e mi rivolgo soprattutto a sinistra- che in realtà una cultura della solidarietà si è persa. Alle origini c'erano, ad esempio, le società di mutuo soccorso, dopodiché è stato un terreno delegato soprattutto ai cattolici e, salvo la mobilitazione in caso di catastrofi, si è proprio persa l'abitudine alla condivisione. E' completamente sparita l'attenzione al problema del vicino di pianerottolo. Anche da parte di chi ha buona volontà non si sa più cosa fare. Ma la solidarietà attiva è anche quella che consente di agire il proprio disagio. Il rapporto di ognuno di noi con un disagio, quale che sia, è difficile, perché ti mette in gioco. Il rapporto col matto è il rapporto con la parte matta di noi, che tutti abbiamo e che in genere preferiamo mettere da parte, che ci serve mettere da parte sennò diventiamo malli. Se si ha un filtro "attivo" per potersi confrontare con questa difficoltà oggettiva è un discorso, ma se tutto quello che si riesce a fare è stare lì a rimirarla, è finita. Mi sembra quindi molto importante trovare dei canali di solidarietà alliva che possano spostare il modo di essere di tutti. Se pensiamo ad una società partendo dagli ultimi, si fa una società migliore per tutti. In una città con le barriere architettoniche non può girare l'invalido in carrozzella, ma trova difficoltà anche una mamma col passeggino o un anziano. Un handicappato psichico non lo si può mettere ad una catena di montaggio, ma a chi fa bene una catena di montaggio? La ghettizzazione, il "meno ti vedo e meglio sto", la richiesta di scomparire è prevalente. Ma già in una città come Perugia, sicuramente meno nevrotica di Roma, dove la solidarietà è impossibile proprio per il modo di vivere assurdo, le persone hanno anche meno difficoltà pratiche a dare il loro tempo, la loro disponibilità, ti accolgono di più, sono meno incarognite nelle proprie difficoltà, per cui si accorgono di quello che vedono. Ecco, la capacità di vedere è stata proprio la cosa che mi ha colpito quando mi sono trasferita qui. Mentre a Roma, nella casa dove ho abitato per tredici anni, nessuno si è mai accorto di mio figlio, qui, dopo una sellimana, sentivo che la gente ci vedeva, non in B mrlra or,iut:re~to ~a tf 5ad ace - gersi degli altri. In una città come questa, poi, si sente anche che un certo lavoro è stato fallo, anche se ci sono residui manicomiali, sono anni che si lavora su queste cose e questo è entrato nella cultura della città. Nel tentativo di molti di intrecciare un rapporto con Malleo, non c'è soltanto la generica "tolleranza", parola che non mi piace perché esprime l'atteggiamento di chi sta bene e "tollera" chi sta male. basta che non esageri.C'è un piccolo episodio, significativo del rapporto con il "diverso". Ad una Festa dell'Unità di quartiere, Matteo si è avvicinato al banco della birra alla spina e ha toccato una manopola facendone sprecare un po'. Gli ho fatto una scenataccia e gli ho imposto di pagare coi suoi soldi. L'addello voleva lasciar perdere, al che gli ho fatto capire, con uno sguardo, che, proprio per un fallo educativo, non era il caso. Allora lui ha dello a Malleo: "vabbè, per questa volta i tuoi soldi non li voglio, perché sono pochi, ma se lo fai ancora guarda che ti faccio pagare!". E' stato un modo delicato, di mettersi in contatto con Matteo, non il semplice facilitarlo rimanendo estraneo. Se uno ha l'imbarazzo, lo tiri fuori, anche perché loro hanno una sensibilità ai confini con la telepatia. Ci studiano, ci mettono alla prova proprio per vedere le nostre reazioni, per vedere se abbiamo paura di loro. Spesso esprimono anche una richiesta: "se io non ce la faccio da solo, tu ce la fai a tenermi?", salvo poi scoprire che, se una volta dimostri che non ce la fai, lui ti dimostra che ce la fa. Per anni ho avuto il terrore pensando che se non reggevo io, lui andava a pezzi. Invece la prima volta che sono andata a pezzi davvero, lui se l'è cavata da solo. Questo è uno degli elastici terribili: da un lato il bisogno di una protezione molto maggiore di quella che di solito si dà ad un figlio, dall'altra la necessità anche di rischiare per sapere quali sono le reali capacità di autonomia. Equesto è un altro di quei punti interrogativi enormi per chiunque abbia a che fare con i disagi psichici, molto meno per gli altri tipi di handicap. Ciascuno poi deve trovare delle proprie modalità per rapportarsi con queste persone; non solo sulla base della cortesia, ma come normalmente avviene nella realtà di tulli i giorni. Per dare un seguito all'esperienza del libro ora abbiamo un'idea, molto ambiziosa, difficile: raccontare esperienze positive di integrazione, quelle cose di cui non si vuole sentire mai parlare. Lo schizofrenico che ammazza la madre ha diritto alle prime pagine dei giornali, ma se si vuole raccontare un'esperienza positiva si incontrano molte difficoltà a farsi ascoltare. Ci sarebbe poi da fare anche un discorso rivolto ai giovani, che non è vero che non ne vogliono sapere. Come associazione di familiari (Aurap, Associazione umbra ricerca e assistenza soggetti psicotici) abbiamo preso uno spazio che paghiamo noi, in una zona difficile di Perugia, dove non c'era nessuna struttura per giovani se non i classici muretti, abbiamo trovato un operatore e abbiamo provato ad organizzare un po' di attività. Ebbene, quello spazio dove i nostri ragazzi vanno con delle modalità preordinate, preorganizzate, perché loro poi hanno bisogno di questa programmazione, è diventato un punto di aggregazione per tutti i giovani della zona. E il fatto curioso è che i ragazzi più inguaiati sono poi alla fine anche i più attenti verso i nostri. Una volta Matteo è arrivato a casa con una svastica disegnata sulla sua amatissima racchetta da ping-pong e non ne voleva sapere di toglierla. Dopo alcune indagini ho saputo che quello che gliela aveva disegnata è un ragazzo che lui ama come la luce dei suoi occhi, un ragazzo che ha un po' di problemi. che va in curva, che ovviamente non aveva la minima idea di che cosa volesse dire quella svastica, come accade poi nella maggioranza dei casi, checché ne pensiamo noi, anche se certamente dietro questi ragazzi c'è qualcuno che invece sa benissimo cosa significhino le svastiche. Ma non quel ragazzo, che non solo era in prima fila alla manifestazione contro il razzismo, ma che è uno dei più attenti ai bisogni dei diversi. Spesso le coppie si sfasciano e succede anche che il marito scappi. E' difficile che regga una famiglia strettamente mononucleare. Per quanto ci riguarda, francamente non so se avremmo retto, anche fisicamente, senza i miei suoceri. E comunque dopo e' è una radicalizzazione dei ruoli, l'ho visto anche su di me. lo ho fatto la madre, la moglie, o meglio la casalinga, in una misura molto maggiore di quella che avrei pensato o voluto fare. Gli uomini si prendono prevalentemente l'aspetto sociale: vanno a I itigare col sindaco, rappresentano il problema verso l'esterno, ma la gestione più diretta, più quotidiana, è delle madri in una misura enorme. La mia è una situazione particolare, di cui non mi lamento troppo, e che viene dopo molte contrattazioni, però se la devo fotografare c'è sicuramente il prevalere di una funzione materna, legata anche al fatto che c'è una quantità di accudimenti in più. Le d ee1anere, non ricoprono mai un ruolo solo, quanto meno hanno degli altri pezzetti, da cui sono in un certo senso distratte, però alla fine sono più ricche. Spesso sono le donne ad avere deliri di onnipotenza, comunque alla fine ne escono meglio, anche se in genere più drammaticamente. E in genere sono loro ad intraprendere vie di sostegno psicologico o anche di psicoterapia. Gli uomini sono tanto bravi nell'introspezione che poi hanno la presunzione di essere autosufficienti, anche laddove dovresti proprio dichiarare la tua insufficienza. Gli strumenti culturali possono essere anche un freno, non è detto che se uno ha degli strumenti raffinati sia facilitato. Da un lato io non credo che nei casi gravi basti il buon cuore o, peggio ancora, il buon senso, però se cerco una persona che stia con Matteo, non cerco un raffinato intellettuale, ma una persona abbastanza tranquilla di suo, abbastanza serena, abbastanza in grado di gestirsi il suo mondo interiore e la rete dei rapporti. Una famiglia allargata è sicuramente più in grado di reggere una botta di questo genere che non una famiglia mononucleare. Io venivo da una storia di militanza nei gruppi politici degli anni '70, con una idealità forte, anche con forti legami personali, ma direi che il contributo venuto da quell'ambito è stato praticamente nullo, e lo dico con molta amarezza. Questo si riallaccia al discorso della mancanza di impegno individuale nella sinistra. Poi, quando mi sento dire come sono brava, quando me lo sento ripetere, mi irrita proprio, perché significa: "tu sei capace, io no, e siccome sei forte gliela puoi fare all'infinito, non hai bisogno di me". Penso che fare i conti con queste cose sia molto difficile, ma è davvero un bene per tutti. Evitare i confronti vuol dire, per i genitori che hanno il problema e si chiudono e per gli altri che non vogliono vedere, evitare le proprie paure. In più di un caso ho visto, al momento della nascita di un bimbo nuovo, reazioni che non avevano niente di razionale, come di contagiosità, o meglio, di paura di trovare delle somiglianze qualsiasi. Se si ha una storia così, si acquisisce inevitabilmente una sorta di terzo occhio sui figli altrui: i problemi di Matteo sono i problemi di tutti, più uno, che fa la patologia grave. Ma il colore, l'odore, il sapore di quei problemi è quello di tutti. Da una parte c'è la patologia e dall'altra c'è una cosa che si può chiamare normalità, ma che non è mai esente da problemi. Se hai la capacità di vedere i problemi di un Matteo, avrai anche la capacità di cogliere le difficoltà di crescita di qualunque ragazzino. Io ormai lo so che sui figli degli altri devo stare zitta, salvo essere richiesta, perché scalla la paura: ''me lo vuoi fare essere malato come il tuo". E da parte mia, invece, scatta il pensiero "basterebbe così poco, perché non lo fai?", anche se poi, magari, non è vero che basterebbe poco. Insomma, tutto questo alla fine ti mette in un mondo un po' separato, diventi la cartina di tornasole di tante cose. Mi sento una privilegiata, è vero, anche se li pago i miei privilegi. Decidere di darsi un proprio spazio che venga confermato dall'esterno è stato estremamente duro, ma ti aiuta molto. Adesso, rispetto a prima, la gestione del nostro problema è meno complicata: prima spendevamo cifre enormi, e soprattutto tante energie, per mettere solo delle toppe, avendone assoluta consapevolezza e con la certezza che se una si staccava, era un disastro. Adesso costa meno soldi, forse più fatica, però lavoriamo insieme ad altri per costruire anche un pezzetto di futuro e viviamo un presente non solo di toppe. L'importante è costruire una prospetti va perché l'incubo di tutti è: dopo di noi? Ti senti in corsa contro il tempo e certo la società non è atta a tranquillizzarti. Adesso c'è una struttura che abbiamo aperto come associazione, che ha ospitato una decina di ragazzini di Chernobyl, una struttura di ospitalità, agrituristica, dove lavoreranno, con altri, dei ragazzi psicotici e già questo è un primo punto fermo. Farla funzionare comporta un sacco di problemi, però è un pezzetto di futuro vero e anche se non riguarda direttamente Matteo, perché non è lui che ci va a lavorare, prefigura una situazione in cui io mi occupo del figlio di altri e qualcuno poi si occuperà del mio. E via via che i ragazzi crescono sarà sempre più importante che ci siano progetti e che ad occuparsene non siano solo i genitori, perché i problemi sessuali di Matteo, ad esempio, non li dovrò affrontare io e neanche suo padre. Quella è sempre la cosa più dirompente, ma tutti i problemi dell'autonomia diventano meno difficili se ad affrontarli è qualcuno esterno che non ci mette il surplus di ansie di cui è carico un genitore con qualunque figlio, figurarsi con questi. E' importante che le famiglie siano dentro questo tipo di progetto, ma non troppo, e che non si limitino a piangere e a rivendicare, cosa spesso sacrosanta, ma, insomma, che diventino anche propositivi. Noi, ad esempio, non ci siamo limitati a lagnarci perché ci prendessero i nostri figli in qualche centro d'aggregazione che non esisteva. Ne abbiamo fatto uno. E in parte abbiamo fatto così anche per i centri estivi: li abbiamo organizzati noi, con caratteristiche tali per cui i nostri ragazzini ci possono stare senza problemi. Questo ovviamente comporta sforzi, lavoro, fatica, però diventa anche un modello, a quel punto puoi convincere gli altri a fare qualcosa di analogo, dimostri che si può. E' molto importante l'associarsi delle famiglie, perché il confronto, il sostegno, il lavorare insieme ad altri in una direzione comune, per un progetto comune, ti cambia proprio la vita. Purtroppo questo succede ancora troppo poco, per varie ragioni: un meccanismo di vergogna, o di non accettazione del problema, del tipo "mio figlio non sta male come il tuo, il mio problema si risolverà". Questi sono casi in cui chi è malato, ad eccezione del Down, non ha le "stimmate" e in moltissimi casi passa del tempo prima di accettare fino in fondo quello che ti sta succedendo. E comunque fino in fondo forse non te lo dici mai, non lo accetti mai. • •. V- . , .... . ,t '• .... ...... ...,,;. r" • I • ,, ,/ . .,;"K , :~-♦ ;.:.., .. f: . .. ,...... . .. . 1. . Y.·. r . ,·. .. .,· ·~ ,.,, ·" .,,. ·,. .. ,, ... . ... '• ' ·: -~-"!:_ ' .·.., ,·..

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