Una città - anno V - n. 39 - marzo 1995

fa,niglia e aids Una malattia tradita dalla borghesia e dalla cultura. Il rischio terribile di creare ghetti per moribondi. Le dev di prevenzione dall'immagine dell'ammalato di Aids come poveretto, come appestato. La paura della paura di e famiglie. La figura della "madre addolorata" che è quella che solo interessa alla tv. L'errore di considerare catti1 con un ammalato. li rischio di un volontariato gigantesco che perda di vista il piccolo territorio e la rete di amicizie che riproducono inefficienza e burocrazia tipiche dello Stato. L'Aids era una grande occasione civile che s Ulla Barzaghi, casalinga, è impegnata dall'BB nel'Asa, Associazione Solidarietà Aids. A quella data, fine '86, avevamo già fatto il nostro bravo percorso attraverso i nostri pregiudizi, avevamo imparato a vivere serenamente accanto a un figlio omosessuale, io avevo assorbito anche lo shock, non tanto di saperlo omosessuale, quanto di pensarlo in pericolo. "Oddio, gli altri gli faranno del male?" è la domanda che tormenta una mamma. A quella data Enrico si è scoperto sieropositivo. Mio figlio non pensava di essere un soggetto a rischio perché aveva un partner fisso che frequentava regolarmente la nostra famigli!t, però questo non bastava, anche il suo p,artner avrebbe dovuto fare il bravo e invece era un po' birbante. E non lo dico per i:ècriminare, ma per spiegare come mai mio figlio avesse fatto il test soltanto in quella data. Non si sentiva bene, i linfonodi erano ingrossati e infatti il suo periodo di sieropositività è stato molto breve: un anno. In quell'anno avevo davanti un figlio che stava ammalandosi, me ne rendevo conto, ma gestivamo tutto da soli ed è stato un anno davvero spaventoso, il più spaventoso della mia vita. Un anno passato sopportando in silenzio, senza confrontarmi, senza parlare con nessuno, un anno che ho pagato molto anche fisicamente. Avevo grossi disturbi alla gola, il solito nodo in gola che non andava né su né giù, avevo incubi notturni in cui Io vedevo assalito dagli altri, ferito per terra, col sangue che scorreva e tutti che scappavano, mi svegliavo tutte le notti in un bagno di sudore. Noi naturalmente avevamo deciso di stargli accanto e di proteggerlo con il nostro silenzio. Avevo paura della paura degli altri: avrebbero leso la dignità di mio figlio? Non avrebbe più potuto condurre una vita normale uscendo di casa, incontrando lo sguardo terrorizzato del vicino? Poi c'era la mia ignoranza sul tema, su tutto l'argomento. Ricordo molto bene che le prime informazioni le avemmo dall'Espresso, in un allegato scientifico particolare. Appresi da quel giornale quali sono le malattie che si prendono quando diminuisce la difesa ed era buono in tante cose, ma poi c'era come un casellario in cui ad ogni malattia corrispondeva il tempo presunto di sopravvivenza. Ora, quando uno ha un tumore i giornali non ti elencano tutto quello che potrebbe capitarti. Quanto può vivere ancora tuo figlio era un'informazione scientifica necessaria? Perché entrare in quei particolari? Sono cose semmai da rivista specializzata, ma in un giornale di informazione politica e cultura diventano una cattiveria gratuita, che fece male a tanta gente. Ancora tempo dopo, quando già ero impegnata, i telefoni squillavano continuamente: "ha avuto la macchia, significa che ha solo 4 mesi da vivere?". La verità è che c'è un modo irrispettoso di trattare l'argomento Aids, come se chi ne è colpito non abbia paura della morte o, peggio, sia già sepolto. Ricordo una trasmissione al la Rai con la telecamera che viaggiava fra i malati e la colonna sonora era il requiem di Mozart. Ma il requiem si suona quando le persone sono morte non quando sono in una corsia di ospedale. O sbaglio? Poi, nell'estate dell'87, qualcosa ha cambiato la nostra vita. Avevamo regalato un biglietto per l'America al figlio, col resto della famiglia eravamo stati in Puglia dove abbiamo un trullo e poi mio marito mi aveva anche invitata a fare un viaggio in Spagna: insomma, tra una cosa e l'altra, erano tre mesi che non vedevo mio figlio. Tornando dalla Spagna, alla frontiera mio marito mi dice: "guarda, Ulla, che a Chicco è stato diagnosticato I' Aids. Aveva una macchia sul viso -il solito sarcoma di Karposi, un tumore della pelle- però volevamo regalarti ancora un'estate serena e quindi abbiamo tenuto questo segreto per noi. Adesso però lui torna dall'America, tu tomi a Milano, te lo dovevo dire". In quel - anziano di me e ha la pressione alta, mio figlio è malato e devono avere paura di dire le cose a me? Allora che ruolo ho in questa famiglia? Il ruolo della mamma addolorata? Di quella protetta dalla censura perché impreparata a condividere con gli altri? E' proprio successo tutto in cinque minuti e ho detto: mai più che le persone a me care debbano essere costrette al silenzio dal mio dolore. Beh, quel giorno è cominciato il nostro percorso di stare qualitativamente bene accanto a nostro figlio. Senza fare gli eroi, senza far finta di niente, ma offrendogli quella normalità che a lui piaceva tanto. A lui come a tutti noi piaceva stare insieme in famiglia e noi potevamo offrire solo questo, nient'altro, non avevamo altre possibilità per fare di più. Poi è cominciato il calvario: dentro l' ospe- . dal e, fuori dall'ospedale, le macchie che si ingrandivano e cominciavano a vedersi. Lui ormai portava a spasso la malattia, si vedeva. Ma i vicini di casa non se ne rendevano conto ancora. Perché? Perché l'immagine del malato di Aids era stata stigmatizzata in quella di un povero disgraziato, di uno che non si fa vedere, che viene buttato fuori di casa, di un appestato, insomma. Un individuo normale che cerca di tirare avanti il più possibile e con dignità non era preso in considerazione. Quindi mio figlio non poteva avere I' Aids, credevano alla storia del tumore della pelle. Invece poi la notizia è scappata perché qualcuno dell'ospedale ha chiacchierato con una vicina di casa. entro 24 ore tutti sono venuti a trovare mio figlio Un giorno mio figlio, tornando a casa, mi ha detto che una signora che sta di fronte a noi, al suo saluto, aveva voltato bruscamente la testa dall'altra parte. Gli dissi: "tesoro, qui ci siamo. Però aspettiamo, vediamo un po', non è detto che lo dica in giro". Invece, caro mio, dopo due o tre giorni ... Queste cose si percepiscono, si riconoscono quegli sguardi confusi fra pietà e paura. Ma devo dire che, per quanto avessi le orecchie tese come una belva pronta a colpire chi avesse osato offendere mio figlio, non ho sentito segni di ostilità, solo quella confusione di gente che è impressionata. Allora, in famiglia, ci siamo riuniti tutti in una specie di consiglio di guerra e abbiamo deciso di raccontarlo a tutti, tentando, visto che ormai lo sapevano, di trasformare quella loro paura, quel pettegolezzo, il loro non sapere, in conoscenza. E anche di chiedere il loro aiuto. Naturalmente ho scelto bene la mia prima vittima: una signora frequentatrice della parrocchia, madre di tre figli come me, con cui avevo buoni rapporti, che aveva un suo ruolo nel vicinato. Le ho detto tutto: che mio figlio aveva I' Aids, che era omosessuale, che ero disperata, che vivevo nel terrore che la gente potesse isolarlo e chiedevo il suo aiuto e il suo impegno nel vicinato e con le altre persone. Beh, è stata la decisione vincente. Nelle 24 ore successive sono venuti tutti a trovare mio figlio, alcuni si sono impegnati pubblicamente, in seguito insieme a me hanno fatto addirittura le prime interviste alla televisione. E da lì è iniziato l'impegno mio, di mio figlio e di tutta la mia famiglia. Anche farci vedere in Tv non fu una decisione facile da prendere perché mio marito lavorava come architetto in un ufficio con altre trecento persone e il suo è l'unico introito che abbiamo in casa, quindi non si poteva giocare con questo. Invece poi è andato tutto bene. E' molto importante come uno si porge alle persone. Mio figlio poi ha cominciato ad immedesimarsi bene in questo ruolo, è diventato un po' il protagonista della sua malattia, e noi l'abbiamo favorito perché avevamo visto che questa era una cosa importante che gli riempiva la vita, lo conservava come persona integra, non come malato professio- B mo~ri,to ho pensato: mio ~o è più 8 UNA ClffA' ~Q nista. Mio figlio ha vissuto con grande serenità fino alla fine. Ho sempre inteso il volontariato in modo un po' particolare. Ho assistito dei malati, ma perché erano diventati miei amici. Non ero la volontaria che andava, ero l'amica che andava. Un'amicizia anche concreta, certo: andiamo a pulire la casa, andiamo a far compagnia ai malati, ma non mi piace l'idea del malato povero disgraziato, senza famiglia, perché non è vero. Entrando nelle famiglie, nel caso che la persona sia sieropositiva o malata e anche omosessuale, cerco almeno di demolire quell'ansia che è in più. E siccome non sono un camice bianco o una della Usi, ma una madre di fronte a una madre, ho buone chances di essere ascoltata. Credo di avere fatto tanti buoni lavori, ne vado orgogliosa. Uno dei miei compiti è anche quello di insegnare alle persone a essere autosufficienti il più possibile, a rivolgersi al volontariato ma per fare un percorso insieme. E poi cerco di aiutare la mamma a non essere la mamma addolorata accanto al figlio, ma a mettersi di fronte a suo figlio come individuo, come persona. Sono inciampata tante volte nella situazione in cui il malato diventa la malattia, una cosa quasi secondaria, mentre il primo posto lo prende il dolore della mamma. Situazioni in cui tutti, anche il malato che magari sta morendo, stanno zitti perché la mamma soffre, come se la mamma avesse una specie di immunità diplomatica, come se la mamma andasse risparmiata. So di parlare crudamente, ma bisogna stare insieme come persone, invece tanti tirano avanti creandosi dei ruoli che si induriscono e che isolano. Naturalmente ci vuole tempo a capire e finché uno non ha capito non può essere utile. Perché andare lì a compiangere lo possono fare tutti, è facile, ma anche andare lì a fare la brava fata, e magari renderli dipendenti da te, è un errore gravissimo. Entrare in una famiglia, cercare di capire dov'è la grinta, come posso aiutare a tirarla fuori, a reagire, a crescere, è questo che ho sempre cercato di fare: usare il dolore come fattore di crescita. Ora però ho una posizione un po' critica su I volontariato. Mi ero lanciata con un entusiasmo grandissimo, anche eccessivo, con grande fiducia in me stessa: "cambio il mondo". Il volontariato allora stava esplodendo e che nel tempo libero, invece di sbattersi in qualche stupidata, ci si dedicasse al proprio prossimo, non con pietà ma per aiutarsi a crescere insieme, la ritenevo una cosa molto bella di questa società. Una cosa che, oltre a far bene a se stessi, fa bene alla società in quanto aiuta a prendere coscienza, a formare una coscienza civica. l'Aids è diventata la pattumiera di tutte le disgrazie Ma di come viene organizzato adesso sono delusa, perché il volontariato viene inquadrato in grandi baracconi, la cui gestione rischia poi di mangiarsi tutti i fondi che vengono raccolti. Mi chiedo, per fare un esempio banale, se nella sede di un'associazione di volontariato, che è al secondo piano di un palazzo con scale dai gradini alti così, arriverà mai un malato di Aids. Si stabilisce così un contatto umano con le persone? Dall'altra parte sembra che, a volte, si usi il volontariato per fare politica: abbiamo visto associazioni schierarsi alle elezioni, andare ai comizi politici e, francamente, con tutte le ragioni, mi sembra che ci si allontani dal proprio compito. Temo che ne vedremo tanti, di questi benefattori, in carriera politica. A me sarebbe piaciuto offrire un volontariato un po' senza colore, da mettere accanto ai cattolici che fanno i lavori migliori, ma che intervengono più sugli effetti, mai sul la causa. E questo è l'aspetto che più mi interessa perché sembra che la dignità del malato non venga in mente a nessuno. In certi casi sono le stesse comunità dove vengono parcheggiati i malati a sfasciare le famiglie. Perché un malato deve essere tolto dall'ambiente in cui si era svolta la sua vita? Perché deve andare in un ambiente estraneo dove si raccolgono i moribondi, per di più tutti della stessa malattia? Se uno ha la fortuna di sopravvivere sei, sette, otto mesi sa quanti ne vede morire? No, il mio obolo non lo do per questo, per offrire questa fine della vita alle persone. Sono andata in una comunità tenuta da persone molto in gamba, dove la maggioranza delle persone ricoverate non hanno famiglia, sono da sole, e per loro ben vengano le case di accoglienza, però c'era anche un ragazzo che riceveva regolarmente la visita della mamma e della sorella che erano persone normali, senza, credo, grossi problemi in famiglia. Allora come mai anche lui era parcheggiato lì? In quei casi il volontariato dovrebbe spingere a non lasciare l'ambiente familiare perché quel ragazzo non poteva essere contento in quella situazione, e se l'accettava era certo perché nella sua condizione non si hanno molte possibilità di scegliere. Perché, in quei casi, non affiancare la famiglia, andandoci a casa, aiutandoli a fargli compagnia e se mai a fare anche le pulizie? Questo lo possiamo fare, abbiamo la gente, siamo tutti disposti a farlo. Le comunità sono indispensabili per tanti, ma non perché hanno I' Aids: perché hanno alle spalle una vita difficile che risale a prima della malattia. Poi non sopporto la concorrenza fra le associazioni. Sono stata chiamata a un convegno a Brescia indetto dall'Usi e delle comunità della zona non c'era nessuno perché, essendo dell' Asa, evidentemente appartenevo alla concorrenza. Uno si prende una giornata, si paga tutto da sola, poi non trova nessuno. Poi ho dei dubbi su un altro aspetto del volontariato: quello fatto dai medici, dai cosiddetti divi dell' Aids. Sono medici che sono negli ospedali, che spesso hanno un impegno clinico-universitario. E' giusto che mettano su un'associazione di volontariato, usando la loro immagine professionale, per offrire il servizio fuori dalle strutture pubbliche invece che all'interno, dove manca e dove loro sono responsabili? Ed è giusto costringere un malato a usufruire della beneficenza? Noi siamo al corrente di storie vergognose di comportamenti dei medici, ma non possiamo mai fare niente perché le vittime non parlano. Ed è giusto poi, che, anche tramite il volontariato, ci si rivolga al grande medico che chiede 500.000 lire per prescrivere una radiografia a un paziente che sta morendo? A un paziente che non ha bisogno di alcuna capacità diagnostica particolare perché per l' Aids le cure arrivano prefabbricate dal1'America? E' giusto sfruttare così dei genitori che per offrire di più al figlio che sta già morendo chiedono la clinica privata, il luminare? I genitori dopo aver seppellito il proprio figlio si troveranno 20, 30 milioni da pagare e andrà via tutto quello che hanno risparmiato in anni. Se vengono da noi vanno negli ospedali pubblici! In realtà l' Aids è diventato il concentrato, la pattumiera, di tutte le disgrazie, di tutti i dispiaceri, di tutti i problemi di questa società! E' una malattia che è stata tradita dalla borghesia, dal mondo della cultura. Dopo si possono dire tante cose, però la gente memorizza quello che vede, oggi l'informazione è molto visiva, e il fatto che non si veda mai un politico, quasi mai uno di "famiglia bene", che parli serenamente dell 'Aids, che si vedano sempre e solo i poveretti, ha effetti tremendi. Provate a entrare in una chiesa e a confrontare le immagini dei beati con quelle dei dannati e capi rete che effetto ha questo tipo di informazione che è anch'essa figurata. Le persone hanno bisogno di vedere il malato, hanno bisogno di parlare serenamente, non hanno bisogno sempre di piangere e di vedere persone che culturalmente hanno dei problemi. Diventa inutile che diciamo che l' Aids riguarda tutti. Perché su Moana Pozzi si specula che abbia avuto l' Aids quando invece non l'ha avuto? Perché? Perché si scelgono i personaggi come se fosse una malattia a luci rosse. Certo, viene trasmessa sessualmente, ma il sesso lo si fa in tutte le categorie. Se i sieropositivi sono 300.000 -e ovviamente sono molti di più perché tutta una fascia di eterosessuali non sa di esserlo300.000 hanno 600.000 genitori, fanno 900.000 persone. Aggiunga il partner o il coniuge e ci rendiamo conto di quanto grande sia il numero delle persone che vive nascosta, terrorizzata da drammi pazzeschi. Malgrado ciò si continuano a vedere solo poveri diavoli che non hanno niente da perdere. Io al telefono devo dire: "arriviamo di nascosto". Fra un po' non potrò più fare la volontaria perché nei condomini mi riconosceranno e, non so, anche i medici andranno mascherati, nella Milano bene. Questa società che si scandalizza per il calcio, che chiude giustamente gli zoo perché quei poveri animali non devono star chiusi là dentro, poi permette che migliaia di persone si autoconfinino nel silenzio, perché viene fatta un'informazione superficiale basata sul pietismo, sull'assistenzialismo. Ma la maggior parte dei malati di Aids è autosufficiente, avrebbe bisogno solo di poter parlare della propria malattia. Le sembra giusto che un omosessuale, già in fin di vita, si trascini finché non ce la fa più a stare in piedi, senza osare dirlo ai suoi ➔--. ,·.. :•'. ~:~N. t:_;1{?.-,:. i• '..rt-v•

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