Una città - anno V - n. 39 - marzo 1995

che i bambini possono avere, che noi adulti possiamo avere. E qui forse va detto qualcosa su come funziona la scuola; la scuola è terribile perché impone tempi del tutto innaturali ai bambini e ai ragazzi, invece nella mia esperienza tutte le volte che veramente si è andati a fondo in una ricerca è perché abbiamo sostato a lungo. Io penso che la superficialità. l'apparenza, la velocità siano i nemici di qualsiasi atto educativo, e forse non solo dell'educazione, ma sicuramente sono nemici dell'educazione. Allora mi fa rabbia quando ci sono insegnanti che dicono che i bambini un po' si annoiano, che si distraggono facilmente ... non è vero, siamo noi insegnanti, noi adulli che ci distraiamo facilmente, i bambini se entrano dentro un argomento, una ricerca, qualcosa che in qualche modo li appassiona sono capaci di sostare ore, anni attorno a quel contesto, a quell'argomento. E' passato un anno praticamente di convivenza con i maya e non c'era assolutamente né stanchezza né noia. Hai parlato di un ruolo decisivo dell'arte, puoi fare un esempio? Penso che nell'incontro delle culture ci voglia molto teatro, molto più teatro che cinema e televisione, perché il teatro è faticoso, richiede un'attenzione molto particolare, prevede un lavoro sul corpo, un lavoro di immedesimazione, non è solo un lavoro mentale, insomma tutti elementi che in qualche modo mettono in gioco la possibilità di un uomo di incarnare un'altra storia. In fondo avvicinare un'altra cultura è il tentativo di entrare nel sogno di un altro, il tentativo di entrare in un modo di camminare, di lavorare, di pensare diverso. La mia scommessa è che tutto questo si può fare nella scuola elementare, che noi possiamo fare delle nostre scuole luoghi di ospitalità. Non si capisce perché non possiamo fare entrare nelle nostre scuole persone di altre culture che vivono qui da noi. Può essere un bellissimo tramite anche perché si smetta di dire "il marocchino" ma si dica "Mohamed io l'ho incontrato, aveva quella faccia, aveva quel sorriso, mi ha raccontato quella storia". il punctum ti ferisce e non lo domini Sono certo che il bambino che l'ha conosciuto a fondo, quando guarderà per strada gli altri neri penserà per differenza a quello che ha veramente conosciuto, e questo è importantissimo, dare nomi, dare storie. Io sento che quello che manca tantissimo nella nostra cultura è che non sappiamo più le storie di chi ci circonda, non ce ne curiamo, tutto ci sembra uguale. Un villaggio globale di estranei? E' che la televisione è veramente una macchina delle illusioni nel senso che apparentemente noi conosciamo tutto il mondo, i bambini ormai sanno perfettamente che cos'è l'Amazzonia, come è fatta l'Africa, però tutto, comprese le scene di incredibile violenza, diventa come un rumore di fondo da cui non emerge la possibilità di fare esperienza di ciò che si osserva. C'è una bellissima distinzione che fa Roland Barthes tra lo "studium" che è l'interesse generale che si può avere verso un argomento e invece il "punctum" che è qualcosa che ti colpisce, che ti ferisce, qualcosa che parte dalla scena e opera una piccola puntura dentro di te, e non sei tu che domini. Ecco io penso che nel rapporto con le altre culture si possono fare veramente dei piccoli passi per costruire questa nuova cultura, e devono passare per queste piccole ferite, devono passare per momenti in cui è la scena che ci colpisce e noi accettiamo che ci colpisca, che non è tutto sotto il nostro controllo, il nostro dominio. La scuola da questo punto di vista dà pessimi esempi perché tende a programmare tutto, a razionalizzare tutto, a voler prevedere tulio, mentre nell'incontro tra diversi bisogna ascoltare il caso, bisogna ascoltare veramente la diversità. B lioeca VIAGGIO A TUZIA Le riflessioni e il diario di tre sudtirolesi/ altoatesini nella città di Tuzia, una delle città della ex Jugoslavia che ha tentato di resistere alla devastazione monoculturale. Un convegno per raccogliere le forze democratiche della Bosnia e per ricostruire, partendo dal basso, condizioni di convivenza. "In una Bosnia arcipelago di lingue, c'è una città a maggioranza mussulmana, con un quartiere serbo, al cui interno c'è una via abitata da croati, con una casa di turchi, con un appartamento occupato da italiani che ospitano una giovane coppia con un bambino. Il marito ha un padre serbo ed una madre macedone. La moglie una madre croata ed un padre mussulmano". Esiste la possibilità di uno stato monoculturale? Il sole ègià alto quando con il nostro piccolo furgone ci incolonniamo alla dogana di Split. Le pratiche sono lente. L'attesa è lunga. Gettiamo un'occhiata negli automezzi che ci precedono. Maglie, calze, camiciole e pantaloni. Vestiti dalle forti tinte, inusuali e fuori mercato in Italia. Comprati all'ingrosso e rivenduti al dettaglio in Croazia. "Non ci lascianopassare" dice unbolognese stancamente appoggiato al cofano di un Transit, più o meno 50 anni, abbronzato, giubbotto da pescatore. "Più di 50 cartucce non ce le fanno portare. Ne abbiamo 5 volte tante, ci servono per la caccia". "Sono diversi anni che abbiamo affittato in gruppo una tenuta vicino a Mostar; cerchiamo di venirci spesso a cacciare, ultimamente è più difficile ma ora va meglio, almeno speriamo". Vengono a cacciare nellaMostar bombardata ed assediata dai croati dell'Herceg-Bosna. Così si fanno chiamare i nazionalisti filo croati. Solo pochi mesi fa i mussulmani di quella zona sono fuggiti come selvaggina terrorizzata: simile a quella inseguita dai cacciatori bolognesi, alla ricerca di aria buona ed emozioni forti. "L'ultima volta che siamo venuti -aggiunge- un bosniaco ci ha indicato alcune grotte che usavamo come rifugio. Erano tutte murate. Dentro è pieno di cadaveri. A pochi chilometri di distanza c'era un villaggio di 200 abitanti mussulmani. Sono arrivati in otto all'alba, se ne sono andati dopo alcune ore in sei. Dei 200 abitanti del villaggio nessuno sa più nulla". Il 1°novembre di Split si sta spegnendo mentre si accendono sulle finestre delle vecchie case i lumini per la giornata dei morti. Il tremolio della loro luce impedisce alla notte di impossessarsi dell'intero spazio. Domani all'alba partiremo per Tuzia. E' possibile un'Europa che non sia multiculturale? Intorno a questa domanda si sono ritrovati per tre giorni a Tuzia, dal 3 al 5 novembre scorso, una sessantina di rappresentanti di istituzioni pubbliche, di organizzazioni culturali e politiche, di 15 paesi d'Europa, Nordamerica e Sudamerica. Tra questi diversi esponenti democratici della Croazia, della Serbia, del Montenegro e soprattutto della coalizione di partiti antinazionalisti che sotto la guida del sindaco Selim Belasgic governano la città, fortemente impegnati a mantene la c0me roccaforte del1 n Q anco l'identità bosniaca multietnica. E c'eravamo anche noi, tre altoatesini/sudtirolesi, provenienti da una regione che, negli anni 60, aveva vissuto una lunga stagione di conflitti etnici e di atti terroristici. Superati attraverso la progettazione di un'avanzata autonomia piuttosto che una nuova modifica di confini. C'è un posto di frontiera lungo la Neretva poco prima di Mostar. Cerchiamo di tenere il furgone ben vicino all'autobus della linea Zagabria/Tuzia su cui viaggiano i partecipanti al convegno. Né la presenza di una scorta dell'Unprofor né quella più rassicurante dei tre abilissimi autisti bosniaci, ci accelera il disbrigo delle pratiche. In realtà i croati che presidiano la frontiera fasulla dell'Herceg-Bosna non amano gli aiuti umanitari, né i giornalisti, né una così composita rappresentanza di forze e movimenti democratici provenienti dalle regioni dell'ex-Jugoslavia. "Materiale strategico", così definiscono il nostro carico. Pretendono che al termine del convegno sia riportato indietro tutto. Naturalmente giuriamo che sarà così e finalmente si parte. La strada verso Mostar è un tratto particolarmente pericoloso per gli aiuti umanitari. Bande di irregolari fermano e sequestrano carichi e persone per giorni interi. Chiedono una tangente. Da qualsiasi parte ci giriamo si possono vedere i segni della distruzione, villaggio per villaggio, casa per casa. Sterpaglie annerite dalle esplosioni, alberi divelti dalle granate, migliaia di fori nei muri diroccati. A Mostar lunghe file di croci annunciano la città. Arriviamo a Tuzia, la città del sale. Così -da tz, sale- l'hanno battezzata i turchi nel '400. Duecentomila metri quadrati di città stanno sprofondando nei giacimenti salini sottostanti. 15.000 persone hanno dovuto abbandonare le case pericolanti. Sono quasi ferme, ma intatte e ben difese, la grande centrale elettrica e le industrie chimiche, farmaceutiche ed alimentari che ne avevano fatto un grande centro industriale e minerario. L'Hotel Tuzia ci accoglie nel pieno della notte, dopo 15 ore di viaggio, come un faro nella nebbia. La sacca di Tuzia è circondata da tre lati da forze serbe. L'inverno dell'anno scorso èstato pesantissimo, senza aiuti e con i pochi generi di prima necessità alle stelle. Ora i mercati sono ben forniti ma, con uno stipendio simbolico mensile di 1 marco circa, pochi possono permettersi il lusso di acquistarli. Serbi, Bosniaci, Croati sono tutti accomunati nella grande area del marco. La principale àncora di salvezza sono le rimesse di parenti ed amici emigrati che i pochi fortunati ridistribuiscono con sagacia e generosità. Su suggerimento degli organizzatori del convegno abbiamo portato in dono al sindaco della città un furgone Volkswagen contenente un ufficio mobile (computer, stampante, incisore, ciclostile, fax) ed una buona quantità di carta. Tra le persone e ditte donatrici abbiamo raccolto qualche perplessità. Per quel che ne sapevano in Bosnia c'era bisogno di alimenti e di armi. Alimenti per le donne e armi per gli uomini -aggiungevano alcuni. Portare strumenti per far circolare parole è sembrato ai più un lusso o uno spreco. Anche i soldati schierati dall'Onu appaiono un lusso a molti dei nostri interlocutori bosniaci. Soldati inglesi ci accompagnano discretamente durante le 15ore di viaggio. Soldati pakistani ci ospitano con grande cordialità per un breve rinfresco in un campo tra Sarajevo e Tuzia. Colonne di camion con aiuti umanitari vengono scortati lungo l'unica strada sottratta alla guerra. Ci chiediamo se potrebbero essere dawero questi i soldati protagonisti di una pace imposta con la forza. Che ne sanno di queste montagne inaccessibili, di queste abilità guerriere e di questi odii dissotterrati dalla memoria? Eche ne sa l'Onu di soluzioni di conflitti etnici senza che si alzino nuovi muri e confini. Poteva essere un modello l'autonomia altoatesina/sudtirolese se a 20 anni di distanza dall'accordo, le forze politiche di maggioranza non continuassero a considerarlo come un momento di passaggio verso un di più indefinito. O l'accordo israelo/ palestinese se le bombe non lo faranno indietreggiare. Forse davvero una guerra deve finire, anche attraverso una brutta e dolorosa accettazione dei rapporti di forza, per consentire una lunga pausa ed un riemergere lento del desiderio di vita. Per ora però la speranza di vittoria militare, anche se accompagnata da molteplici iniziative diplomatiche, sembra essere molto forte. In albergo si potevano ricevere solo due reti televisive: quella di Tuzia, con ampi resoconti ed interviste ai partecipanti del convegno; quella da Bihac che trasmetteva in continuazione parate ed annunci di improbabili successi militari. Quando il sole rispunta si intrawedono i cavalli di frisia e i posti di blocco a difesa della città, sottoposta al coprifuoco dalle 22 alle 5 di mattina. Ci sono molte persone che di buona lena camminano per sentieri tracciati di fresco sui grandi prati destinati ad un'espansione edilizia che si è fermata. Tutti si danno da fare. Cercano di rimediare notizie, un po' di cibo, piccoli lavori, qualche pezzo di legna da accatastare sui balconi per l'inverno da poco iniziato. La vita continua, nonostante tutto. Il mercato è il naturale crocevia: anziani, donne, giovani ancora troppo acerbi per la guerra, naturalmente molti bambini. I soldati, sacca sulle spalle, giungono alla città dai fronti, forse in licenza. Cittàcome Bihac, Sarajevo, Mostar, Gorazde scrivono la storia e la tragedia di questa guerra. Tuzia rimane un luogo di riposo, uno spazio libero. Attiriamo l'attenzione di tre militari di • ronda che si fermano a parlare con noi. Vedono la targhetta del convegno scritta anche in bosniaco. Sorridono e affermano convinti: "multiculturali? noi siamo multiculturali, siamo un serbo, un croato, un mussulmano e combattiamo fianco a fianco". Tutti al mercato lo dicono esplicitamente: basta guerra, noi vogliamo vivere insieme, basta stupri, basta odio razziale. In occasione del censimento del '91, già fortemente influenzato da forti spinte alla differenziazione etnica, i 130000 abitanti di Tuzia si erano dichiarati per il 48% mussulmani, per il 16% croati, per il 15% serbi. Ben il 21% (contro il 7,7 nell'intera Bosnia-Herzegovina) si era però collocato nella casella degli "altri" che comprendeva un ironico mosaico di appartenenze un po' reali ed un po' inventate: Jugoslavi, Bosniaci, Turchi, Roma, Eskimos, Giraffes, Lampshades, ecc. Ora, con 20000 persone emigrate e con 60000 rifugiati, arrivati dai dintorni, prevalentemente mussulmani, la tendenza all'omologazione etnica e dei linguaggi si fa di giorno in giorno più forte. Incontriamo Jakov Mott (Motta) e Reljic Drago, rappresentanti dell'Associazione dei cittadini d'origine italiana e degli amici di Tuzia che ci consegnano un appello da consegnare alle autorità della nostra Regioné. Sono figli e nipoti di operai e r11inat0ri arrivati lì alla fine del secolo scorso. Ci raccontano come in pochissimi mesi si sono riuniti in una specie di società di mutuo soccorso circa 1000 persone che si sono ora dichiarate appartenenti ad una minoranza italiana. Pochissimi parlano l'italiano, ma sentono quest'identità sovrafamiliare come un mezzo di autodifesa e come linea di fuga da una terra che rende sempre più difficile la presenza di una molteplicità di appartenenze naturali. "La società -ci dicono- si sta lentamente islamizzando. Chi ha potuto ha mandato i figli da parenti ed amici in Italia. Sono disertori di una guerra che non sentono propria". Di fronte all'albergo una scuola con i muri spruzzati di fori di proiettili. Non una finestra è intatta. Pezzi di plastica targati Unhcr sostituiscono i vetri. Decine di ragazzini rumorosi ecolorati entrano nelle classi come, nelle stesse ore, in ogni parte del mondo. Altre scuole di Tuzia sono state adibite a rifugio per i numerosi profughi dei dintorni. All'imbrunire ci hanno condotto in una di queste ex-scuole. Con noi avevamo da distribuire ben poche cose: un po' di cibo, carta, colori e pennarelli per i bambini. Solo qualche candela è accesa. Le aule sono adattate a camerate dove convivono 7, B famiglie. Tende improwisate tentano di ricostruire un'intimità che la guerra ha distrutto. Per i bambini la nostra visita è naturalmente un'occasione di festa. Per noi di tristezza. Dobbiamo prowedere direttamente alla distribuzione perché la responsabile del campo teme che nascano incomprensioni. Abbiamo quasi terminato l'ennesima fila quando un anziano, senza intonazione d'odio, racconta un tragico ricordo che gli è improvvisamente riaffiorato nella mente "è una fila come quella che eravamo obbligati a fare nel campo di concentramento nazista". In un attimo ci troviamo, silenziosi, nel furgone che ci porta al rifugio dorato dell'Hotel Tuzia. La sala che ospita il convegno è tappezzata di grandi scritte che richiamano le stelle e i colori d'Europa. Rada Gavrilovic, coordinatrice da Bruxelles del Verona Forum, ritorna a casa sua, per la prima volta dall'inizio della guerra, e porta un carico di speranze targate "Europa". Non quella dei governi però. C'è il sostegno del presidente del parlamento europeo che segnala un'accresciuta sensibilità e distinzione di quell'assemblea dagli orientamenti governativi e dalle politiche concrete delle Nazioni Unite. C'è la parlamentare verde austriaca Marijana Grandits, di origine croata, che assieme ad Alexander Langer ha promosso il Verona Forum come tavolo di conciliazione e ricostruzione di rapporti dal basso. C'è soprattutto l'anima nobile dell'Europa, con la rete vasta di gemellaggi tra città, di scambi con associazioni, istituzioni, gruppi di amicizia privati, che contribuiscono a tenere acceso un lume di speranza. "Siamo venuti a Tuzia -dice la risoluzione finale- con l'intento di sostenere le forze democratiche in Bosnia-Herzegovina, che hanno mostrato proprio qui che è possibile preservare lo spirito di tolleranza e convivenza persino in condizioni di guerra. Condanniamo l'aggressione contro la repubblica sovrana ed internazionalmente riconosciuta di Bosnia-Herzegovina, l'epurazione etnica ed altre forme di genocidio cui le sue popolazioni sono sottoposte, come anche i tentativi di creare degli stati mono-etnici sul suo territorio". La porta scivola dalle nostre mani e si chiude con forza. Le note di Sunday Bloody Sunday degli U2 ci introducono in un locale fumoso ed affollato. Al centro del locale una vecchia stufa a legna riscalda l'ambiente. Giovani che ridono, che parlano, che ricordano. Nella semioscurità non possiamo nascondere il nostro provenire da quella comunità internazionale che ben poco ha fatto per fermare l'aggressione dei cetnici serbi. "Sono venuti -ci sembrano dire dietro la gentilezza e la cordialità dei modi- per cibarsi della nostra disperazione e del nostro dolore". Hubert Gasser, Enzo Nicolodi, Edi Rabini UNA CITTA' 1

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