Una città - anno IV - n. 31 - aprile 1994

di viaggi DA UN SECOLO IN RISERVA Un milione e mezzo di indiani poverissimi che, a differenza dei neri, non sono neanche un problema metropolitano. I disperati tentativi di salvare, soprattutto attraverso la lingua, la tradizione. Lo scontro fra tradizionalisti e integrazionisti. Intervista a Sandro Onofri. Sandro Onofri, giornalista de "L'Unità" e scrittore, ha recentemente pubblicato "Vite di Riserva", un reportage sugli indiani d'America. Andando nelle riserve degli indiani americani ti sei in qualche modo rapportato con quello che per noi europei è "l'altro" più altro ... C'è da dire innanzitutto che gli indiani sono una parte della popolazione povera degli Stati Uniti, ma non è giusto dire che sono degli americani perché non si sentono assolutamente tali. Vivono in situazioni tremende e il dilemma da cui non escono è che sono spaccati in due tronconi uno dei quali, a sua volta, è spaccato in due. Ci sono i tradizionalisti e gli "integrati" e ogni tanto si legge sui giornali di questa specie di guerra, che nella riserva degli Irochesi a volte è una guerra civile vera e propria. La spaccatura è su questioni molto pesanti: c'è chi vuole introdurre le case da gioco nelle riserve, che non pagano tasse agli USA, perché almeno sono soldi, posti di lavoro e quindi non si muore più di fame, di alcool o di droga, e chi invece vuole mantenere a tutti i costi un' identità indiana e quindi rifiuta ogni tipo di rapporto con la modernità occidentale. Ali' interno del "blocco" più portato al confronto col mondo dei bianchi e al rischio della propria identità culturale ci sono poi due "partiti": quelli che decisamente vanno all'integrazione -e sono quelli che stanno nelle grandi città, che vivono da bianchi e che, nei casi più degradanti, entrano nel giro delle case da gioco e della malavita, tant'è che ad Atlantic City c'è una mafia indiana abbastanza forte- e quelli che fanno il discorso, secondo me più intelligente e realistico, di entrare nella logica della società di mercato americana, quindi di guadagnare soldi e competenze, per portare tutto quel che se ne ricava nelle riserve. In un secolo è avvenuto uno snaturamento radicale della cultura indiana, pensiamo, per esempio, alla medicina tradizionale: pochissimi sono in grado di gestirla, e comunque non sarebbe più adatta perché gli indiani di oggi non sono più un popolo nomade, e quindi gli indiani, anche i tradizionalisti, gli anziani, cioè quelli che non parlano inglese, devono andare a curarsi negli ospeda- " li delle riserve. Ma questi, che da sempre sono gestiti dai bianchi, vengono affidati a neolaureati che cambiano ogni tre anni e questo ha comportato casi di dolo gravissimi: donne a cui sono state distrutte le tube, neonati rapiti, eccetera. L'idea di quelli che vogliono rapportarsi con la società americana è di tornare nelle riserve con le competenze e con i soldi per gestirle da soli perché l'intento è quello di arrivare all'indipendenza delle riserve stesse: indipendenza economica, della gestione, della nonnale amministrazione. Per fare questo, però, bisogna crearsi una base economica e culturale e per farlo devono entrare in contatto con la società bianca. All'interno di questo tipo di problematica chiaramente è difficile prendere una posizione, poi noi, ovviamente, prendiamo sempre contatto con quelli più disposti a un confronto, i quali proprio per questo sono, tra una quindicina di virgolette, "meno indiani" degli altri -loro di<:onoche non è così, dicono "Noi sill!Tioindiani, crediamo nella cultura tribale che è il fondamento della vita indiana ..."- e non entriamo in contatto con i tradizionalisti, che sono ancora molti, sono i più irriducibili e, soprattutto se anziani, non parlano l'inglese. Quando sono stato nelle riserve sono stato affascinato da quelli che mi odiavano, da quelli più antipatici, che mi rifiutavano, che non mi davano le indicazioni o, se me le davano, me le davano sbagliate (anche se spesso me ne sono accorto perché impari subito ad essere abbastanza smaliziato). . sono proprio i più tradizionalisti a essere perdenti Ho subito meno, invece, il fascino di quelli che mi si sono dimostrati più amici, quelli con cui ancora adesso sono in corrispondenza.C'è una famiglia, che vive nello Stato di Washington, che mi scrive ed è molto disponibile, ma sono Testimoni di Geova e i loro miti potrebbero essere quelli di mio padre: i figli che devono studiare, che si devono sistemare; di "indianità" in loro c'è rimasto ben poco, c'è rimasto ben poco di quel senso di coinvolgimento che nasce dal vedere un popolo che sta lottando per la propria indipendenza e la propria identità. Però è anche vero, e qui sta il dramma, che quelli che lottano duramente sono perdenti: se oggi i tradizionalisti dovessero essere in maggioranza si potrebbe scommettere che tra vent'anni le riserve indiane non esisterebbero più perché loro non hanno gli strumenti, né economici né materiali, per gestirle. Gli Stati Uniti hanno fatto terra bruciata attorno alle riserve; il capolavoro della società americana è stato in questo. Quando c'era l' American Indian Movementc'era un coordinamento fortissimo, gli scontri del '73 a Wounded Knee ne sono stati la prova, ma I' American Indian Movement è stato demolito e così oggi gli indiani dello stato di Washington ignorano completamente la situazione degli indiani di Fargo, che sta a 500 miglia di distanza, come dire che a Palenno non si sa quello che succede a Milano ... Il rapporto con !"'altro" perciò risente di un senso di mortuaria Tutta la scelkl chevuoi Bi rassegnazione nel vedere l'irriducibilità e un senso di ottimismo nel vedere qualche cosa che, invece, è già crollato. E' una contraddizione enorme. Ci sono però delle tribù, gli Hopi per esempio, che conservano una forte identità, che non sono stati distrutti dal rapporto col mondo bianco ... Gli Hopi sono il popolo indiano più chiuso, quindi più sicuro di sé. Ho avuto i primi contatti con loro dopo una settimana che ero nella loro riserva e per tutta la settimana, pur trovandomi anche in situazioni critiche, non c'è stato nessuno che mi abbia aiutato o mi abbia voluto parlare. Sicuramente è stata la fase del viaggio in cui ho trovato più ostilità, ma, dopo che mi hanno rivolto la parola, gli Hopi sono stati probabilmente quelli che più di tutti mi hanno dimostrato amicizia. L'Hopi ti parla perché è sicuro di sé, è sicuro che nessuno lo tocca, ha ancora le kiva (sorta di tempio sotterraneo rigorosamente riservato ai soli membri di un determinato clan e di un determinato sesso, in genere quello maschile, ndr) in cui non si entra; non c'è nulla di contaminato nella cultura Hopi. E' vero che esistono Hopi che emigrano, devono sopravvivere e quindi nella loro riserva ci sono molti emigranti e molti pendolari, ma è verissimo che la loro cultura e la loro organizzazione tribale non sono state contaminate quasi per niente. Sono contadini e sono di una povertà neanche paragonabile a quella della Basilicata degli anni '30: nei campi di mais c'è una pianla ogni tre metri, usano ancora gli aratri di legno, le loro case sono veramente misere, però la forza della tribù è veramente grande. E poi la loro religione non è stata assolutamente cambiata dal contatto con le nostre religioni. C'è una forma di sincretismo, ma è un sincretismo che, miracolosamente, ha rafforzato la loro religione. Così per loro c'è l'inferno, ma uno ci va se tradisce la tradizione: hanno accettato certe simbologie del cristianesimo che, però, sono state cambiate nella funzione. i giovani hopi, figli di contadini, parlano hopi E mentre capita normalmente di conoscere un indiano Lakota di 18 anni che non parla la lingua Lakota -e infatti la lingua Lakota si insegna, con grandi difficoltà, nelle scuole delle loro riserve- tu non incontrerai mai un ragazzo Hopi che non parli la lingua tribale; la lingua Hopi è parlata da tutti. Ho partecipato alla Butterfly Dance e i ragazzi erano quelli più coinvolti di tutti, con quelle forme di fanatismo tipicamente giovanile che c'è in tutte le civiltà, come la rivalità perii costume più bello o per essere il più bravo nel partecipare alla cerimonia. Questo è un sintomo del fatto che si riconoscono nella loro cultura e questo non succede, con tanta forza, in nessuna delle altre riserve che ho visitato: la conoscono bene, sono contenti di parteciparvi. C'è una compattezza e una serenità incredibile nella riserva Hopi: il Lakotache si apre ali' occidentale lo fa perché non ce la fa più, mentre l'Hopi che si apre all'occidentale lo fa perché gli va di farlo, perché ha una tranquillità culturale. Anche la loro convivenza con i Navajo, che a noi sembra così problematica perché la riserva Hopi sta dentro la riserva Navajo, in realtà è pacifica e perfetta: ci sono matrimoni misti, si aiutano molto. I Navajo sono più integrati degli Hopi, forse anche perché hanno la parte esterna della riserva, quindi entrano più in contatto con il turismo, con gli americani, eccetera. Secondo te da cosa dipende questa tenuta della cultura Hopi? Anche loro hanno perso delle guerre, sono in contatto coi bianchi da molto più tempo di altre tribù che, tuttavia, sono molto più distrutte di loro ... Credo dipenda dal fatto che gli Hopi sono un popolo contadino e tutti i popoli contadini sono chiusi e compatti. L'arte dei Lakota e dei popoli delle pianure, che erano nomadi, era l'arte di camminare e cacciare ed è in questo che sono stati distrutti, mentre gli Hopi sono un popolo contadino, quindi seAlimentazione Naturale Yoga Shiatsu via G. Regnali, 63 Forlì tel. 0543 34777 dentario. e questa vita, nonostante le mine che vengono loro messe sotto i piedi, continua. Gli indiani delle pianure sono sopravvissuti - inmaniera tragica, quotidianamente drammatica- per un secolo, ma le loro condizioni si sono aggravate e la loro cultura ha ricevuto un colpo tremendo da quando nel sud Dakota sono stati scoperti i giacimenti di uranio. E' da lì che è partita l'ultima offensiva, quella che dagli anni '60 in qua li ha messi a terra. Gli Hopi vivono invece nelle mesas di una zona semidesertica e, nonostante ci siano giacimenti di gas che forniscono l'energia elettrica a una grossa parte del!' Arizona mentre ad essere senza elettricità sono proprio i villaggi Hopi, la loro vita non è cambiata molto da un secolo in qua: sono un popolo che vive in una terra che è sempre stata loro, con cui hanno un rapporto fortissimo, e questa chiusura, questo rifiuto del diverso, fa parte della loro identità culturale. Questo li ha preservati molto e, anche nei rapporti fra le varie tribù, essere un Hopi è un segno di assoluta incontaminatezza. A me è stato dato un nome Hopi e quando io mi presento, è successo anche un mese fa, ad un indiano col mio nome italiano non gli frega niente, mentre invece, se mi presento col nome Hopi, mi si aprono tutte le porte della fiducia:_ questo succede perché l'Hopi è considerato il tutore della tradizione, perché si è mantenuto compatto al l'interno della propria sol idari età tribale. Come ho detto, credo che questa saldezza degli Hopi dipenda dal fatto che sono un popolo contadino: tutti i popoli contadini sono così, in tutto il mondo, anche in Italia i popoli contadini sono più chiusi di quelli marinari. Non è paradossale che i popoli tradizionalmente più guerrieri siano quelli il cui modo di essere è più visibilmente decaduto, mentre quelli più pacifici hanno mantenuto meglio la loro identità? E" anche vero che i popoli delle pianure, proprio perché erano guerrieri nomadi, non erano abituati a vivere nella segregazione delle riserve, poi sono stati sterminati, distrutti, e cinquemila anni di storia e di tradizione che si tramandano per via orale non si possono reinventare nel giro di un secolo. Gli indiani delle pianure, per esempio, non sanno assolutamente vivere dentro le case: entrare nella casa di un indiano Lakota è una cosa traumatizzante, per noi occidentali non c'è nulla che sia al posto suo, i bicchieri, per esempio, non stanno nella credenza, stanno sul letto. Questo disordine mi ricordava certe scene del "disordine" di Roma negli anni '50, quando ero piccolo. Una Roma ancora povera, con la gente che veni va dalla campagna e campava di lavori saltuari e aveva lo stesso tipo di rifiuto verso la modernità che hanno oggi gli indiani. I miei zii, i miei nonni, rifiutavano qualsiasi contatto con persone che fossero vestite in un certo modo, che parlassero l'italiano corretto: parlare in italiano era considerata una forma di disonestà, il codice era il dialetto romano e, nel passaggio dalle baracche alle prime case popolari, dentro la casa popolare si portava lo stesso disordine che c'era nella baracca, non c'era la cultura della casa e c'era quasi una specie di ostentazione del rifiuto di quel tipo di organizzazione. Ora, so perfettamente che le cose e i mondi sono estremamente lontani e forse anche fare un confronto è ridicolo, ma dentro di me questo confronto l'ho fatto e uno dei motivi del libro è stato proprio andare a vedere come muore una cultura. entrare in una casa lakota è traumatizzante Gli indiani erano un popolo con tradizioni vecchie cinquemila anni, un secolo è niente in confronto a cinquemila anni di storia, e questa gente, chiusa nelle riserve, senza un lavoro, oggi comincia ad organizzarsi, almeno a mio modo di vedere. Io ho parlato con degli anziani che sono andati a lavorare, ma non si adattavano al fatto di lavorare chiusi in una fabbrica e quindi hanno lavorato pochissimo, se ne sono andati. lo non credo sia una bestemmia fare un confronto con i nostri contadini meridionali che, nel momento in cui sono stati portati a Torino, non ce l'hanno fatta ad adattarsi. Quelle degli indiani di oggi sono SOFTWARE - SYSTEM HOUSE CENTRO ELABORAZIONE DATI CONSULENZE INFORMATICHE CONSULENZE DI ORGANIZZAZIONE . . - - CEW CORSI DI FORMAZIONE Soc. Coop. a r.l. Via A. Meucci, 17 - 47100 FORLI' Tel. (0543) 727011 Fax (0543) 727401 Partita IVA 00353560402

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==