Una città - anno IV - n. 30 - marzo 1994

contro la pena di 111orte Nessuno tocchi Caino è il nome della campagna che i cittadini e i parlamentari di ogni continente hanno deciso di promuovere per abolire la pena di morte in tutto il mondo entro il 2000. Nel dicembre scorso -grazie all'aiuto del gruppo verde e del partito radicale transnazionale- duecento tra deputati, giuristi, rappresentanti di istituzioni elettive e di organizzazioni internazionali di 36 paesi, hanno dato vita al primo congresso di Nessuno tocchi Caino nella sede dei Parlamento europeo, a Bruxelles. Come per la schiavitù, come per la tortura, l'obiettivo è che si affermi un nuovo diritto: la vita umana non è disponibile allo stato. 111993si è chiuso nel modo peggiore. Negli Stati Uniti, dei 2. 700 detenuti in attesa di esecuzione, 38 sono stati giustiziati. In Cina, le esecuzioni delle quali si è avuta notizia sono state 1.249. Ai 105 paesi nei quali si pratica lapena capitale, si sono aggiunte le Filippine, che l'hanno ripristinata dopo l'abolizione successiva alla cacciata di Marcos. E, sempre nello stesso mese, sono riprese le esecuzioni in Giappone, dove erano state sospese per lungo tempo. Tuttavia, non mancano segnali di speranza. In una sua risoluzione, il Parlamento europeo ha decretato infatti l'indisponibilità allo stato della vita dei cittadini, mentre le Nazioni Unite nell'istituire il Tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia hanno escluso, in ogni caso, la pena di morte. Seppure a fatica e in modo contraddittorio, un nuovo diritto si sta lentamente affermando. Ed è per dar tempo a questo diritto di consolidarsi e di imporsi, che verrà richiesta una moratoria internazionale delle esecuzioni. Al Papa, con una lettera pubblica e con una manifestazione, si chiederà di prestare la propria voce a questa richiesta nel giorno di Pasqua. Nel ricordo di quella croce, oggi simbolo di pace amore e fratellanza per milioni di persone, "ieri emblema atroce del supplizio capitale. · Un gruppo di scrittori italiani ha deciso di aderire alla campagna Nessuno tocchi Caino. Lo ha fatto, naturalmente, anche con lapenna. Ne è nata una interessante raccolta di racconti che presto verrà pubblicata in volume. In attesa del libro, ne anticipiamo alcuni. Per chi è interessato a Nessuno tocchi Caino, la sua sede italiana è ospite del Partito radicale, in via di Torre Argentina, 76 cap. 00186 Roma. Il numero telefonico è lo 06689791; il riferimento Sergio D'Elia. 1A PROVA GENERALE di Giorgio Van Straten Fu risvegliato dal rumore ripetuto dei manganelli che battevano sulle sbarre delle celle. Lo conosceva bene quel rumore, avrebbt:! potuto riconoscerlo anche da un solo frammento, da un singolo battito. Dalla finestra, alta e piccola, filtrava appena una luce quasi notturna. Era l'inizio dell'alba. L'uomo sentiva il sudore che lo bagnava, le ciocche di capelli appiccicati sulla fronte, il vuoto della stanza, ma non voleva muoversi. Era come una speranza di non farsi notare, la stessa ottusa convinzione che non sia tu ad essere interrogato solo perché tieni gli occhi bassi e non guardi verso l'insegnante. Eppure sapeva che le regole erano ferree, indipendenti dagli uomini, indiscutibili. E sentiva anche che arrivava il suo turno, che fra poco l'avrebbero preso. I passi nel corridoio e ancora i manganelli sopra le sbarre. Non voltarti, non guardarli. Poi i passi si fermano. La chiave gira nella serratura . "In piedi" Solo questo: né il nome, né altro. Solo un richiamo, un ordine. Tocca a lui. Questa era la situazione: l'uomo in piedi, in mezzo alla stanza, sudato, gli occhi che cercavano di riabituarsi alla luce. " Solo un momento". Era un suo diritto lavarsi, gli venne concesso. L'acqua scorreva nel lavandino, perdendosi dove lui non avrebbe potuto calarsi. Nuoterebbe nelle fogne, se servisse a salvarsi. Ma solo l'acqua e la schiuma del sapone possono scorrere giù per il tubo, in fondo, libere. Lo sollecitarono a muoversi. Lui si passò il pettine nei capelli, utilizzando il sudore come brillantina per schiacciarli ali' indietro, da attore del muto. Poi seguì le guardie fuori dalla cella. Guardò la finestra, in alto. Di lì, dal corridoio si vedeva un pezzo di cielo, appena meno che scuro, verdastro, lontano, in un altro mondo, cresceva il sole. Scesero le scale e lui improvvisamente capì tutto quello che fino ad allora era stata solo una voce, il racconto impossibile di chi non era tornato. Non era fuori che li portavano, non davano quella soddisfazione. Non c'era luce, né il rumore di colpi di fucile, né l'aria avidamente respirata prima e dopo un grido. Non l'avrebbe ascoltato nessuno, nessun sole avrebbe disegnato la sua ombra contro il muro di cinta. Sarebbero scesi giù, nel profondo, sempre più in basso, senza finestre. In fondo, sotto la prigione e gli uomini. Scesero scale, e ancora scale, e altre scale. Gradini dopo gradini, senza possibilità di contarli per ricordare. E perché poi. per chi? In fondo c'era il corridoio, quello che già conosceva, che si aspettava. Le uardie si r r . fermarono alle sue spa11e.Il corridoio davanti a lui si perdeva, quasi senza fine, nell'umidità della terra. Sui lati una serie di porte di metallo chiuse e silenziose. C'era una luce giallastra e fioca che pioveva dal soffitto, granulosa per l'umido, e che proiettava ombre vaghe sulle soglie. "Forza, cammina" gli dissero. Lui pensò cosa sarebbe potuto accadergli di peggio se non avesse obbedito all'ordine, quante possibilità gli sarebbero toccate se si fosse messo a correre. Ma già le mani dei carcerieri lo spingevano avanti. La sua condanna era lì, nella piega di un muro, oltre una porta apparentemente chiusa. Non aveva alternative, c'era una sola direzione possibile. Iniziò a percorrerla. Sentiva già il punto della sua schiena dove sarebbe penetrata la lama. Alt' altezza delle reni, appena alla sinistra della spina dorsale. Una lama lunga, profonda e fredda. Gli sembrava di sentirla già lacerare la pelle e i muscoli, entrare dentro di lui, senza alcuna pietà. Qualcuno stava per scivolargli alle spalle, uscendo dal vuoto e dal buio, nel silenzio, nell'umido di quel corridoio infinito, il coltello nella mano pronto a colpirlo. I muscoli dell'uomo si contrassero, quasi potessero ritrarsi, allontanarsi il più possibile dalla lama che li avrebbe lacerati. Ma non era possibile: il coltello sarebbe arrivato, la sua vita finiva in quella profondità dalla consistenza di un acquario. Accelerò i passi in mezzo alla paura irrefrenabile, al battito rapido del cuore, alI' attesa impossibile. Ora, ora. Arriva. Si svegliò di colpo. Le gambe contratte, il cuscino bagnato di sudore, il terrore che ancora l'avvolgeva, lasciandolo incerto se fosse stato davvero solo un incubo. Non voleva muoversi, se non dopo aver recuperato, poco a poco, la cognizione della realtà, se non dopo aver sentito i muscoli rilassarsi: solo allora avrebbe cercato nei movimenti la conferma che il suo era un mondo diverso dall'altro. Teneva il volto schiacciato sul cuscino, senza guardarsi intorno, senza cercare la luce. Tentò di controllare il respiro, di riprendere un ritmo normale. C'era una stanza intorno a lui che presto avrebbe ripreso i contorni abituali. Ma qual era la stanza? Allora ricordò, ma non si mosse lo stesso. Rimase fermo, in attesa. Finché non udì il rumore dello sportello aprirsi e una voce nota chiamarlo. "Sveglia" gli disse. Lui si voltò e guardò gli occhi dell'altro attraverso la feritoia. "Lo sai?" disse la guardia, con cattiveria, "mancano solo dodici giorni alla tua ese- • BOIA di Sandro Onofri Gentile signor Presidente, Le dico subito che non ho alcuna esitazione nel rifiutare un mio parere favorevole alla domanda di grazia presentata da Arthur Reynolds. Non ho mai avuto, né ho adesso, il minimo dubbio che l'assassino di mio figlio debba morire, secondo la pena e nei modi previsti dalla legislazione di questo stato per delitti come quello commesso da Arthur. So benissimo che questa mia decisione non sarà accolta bene da molta parte dell'opinione pubblica, disorientata da certi miei atteggiamenti che solo ad occhi estranei, e non troppo superficiali, possono apparire contraddittori. Io so benissimo che la morte di quest'uomo non mi ridarà il mio unico figlio, né potrà mai lenire neppure per un po' il dolore lacerante che ancora oggi, a ormai quasi dieci anni di distanza, mi causa quella perdita irragionevole. Ma questi, signor Presidente, sono discorsi che si possono fare nei bar, discorsi basati sul niente. Sono le prime parole che salgono alle labbra e che possono sembrare convincenti solo a chi è lontano da quel sottile sentimento di solidarietà che dà il vivere insieme una morte. A me, che sono ormai giunto all'ultimo gradino di una conoscenza straordinaria della natura umana, quelle povere tesi non possono apparire se non nella loro miserabile vacuità. Devo dire, per la verità, che non mi piacciono neanche molti dei discorsi che sento fare da chi di sicuro approverà la mia determinazione. La tesi di chi crede, mandando a morire un uomo, di dare un esempio ammonitorio che serva a evitare ulteriori crimini è, in base alla storia e ai dati statistici, semplicemente idiota. Né mi incantano i discorsi ipocriti di chi uccidendo il condannato sostiene di salvarlo dal grigiore di una vita in carcere: tanto vero questo discorso quando a farlo è l'interessato, quanto schifosamente vile è sulla bocca del cittadino libero. Per tutti questi dieci lunghi anni io ho vissuto solo per lui, per Arthur. Anche se non l'ho mai incontrato, ho stabilito con lui un rapporto strettissimo. E' stato un bisogno che mi è nato fortissimo fin dal primo momento. L'ho illuso. In tutti questi anni non ho fatto altro che studiare le mosse più efficaci (anche a insaputa dei miei legali) per far sì che si accendesse in lui, prima fiocamente poi sempre più vivo, il fuoco fatuo della speranza. Alimentare la sua speranza vana è stata la mia vera rivalsa. Lui è già morto, ha già toccato il punto più basso del la sua insipienza, ha già assaporato il miele velenoso della sua oca fiducia in un atto di clemenza da parte mia. Durante questo lungo periodo io l'ho posseduto, è stato la mia vittima, e certamente immagino che adesso stia aspettando con cieco ottimismo gli esiti della mia decisione. La delusione e la disperazione che già domani proverà, non appena gli sarà comunicato il contenuto di questa mia lettera (visto che, data l'efferatezza e la lucidità del suo crimine, non posso immaginare autonomi atti di clemenza da parte Sua, signor Presidente), gli renderà una consapevolezza che certamente lo accascerà, uomo finito e inutile, e insieme lo nobiliterà. La conoscenza dell'uomo e del mondo che riuscirà a raggiungere, essendosi trovato così a un passo dalla ripresa della vita e trovandosi improvvisamente di nuovo immerso nella morte, sarà una conoscenza del tutto inutile. La sua vera condanna. Deve sapere che quattro anni or sono ho conosciuto la famiglia di Arthur Reynolds. Non è stato difficile nascondere la mia vera identità, giacché solo pochissimi giornali hanno riportato la mia fotografia ai tempi del processo, e mi sono presentato come un giornalista. I genitori di Arthur, signor Presidente, vivono ai margini di una riserva indiana, poco lontano da Spokane. Una distesa di erbe piatte e polvere circondata dalle montagne nere. Si chiamano James e Yiolet, i due vecchi. e hanno la mia stessa età. Come avrà avuto senz'altro occasione di sapere, sono poverissimi. La loro casa è poco più di una baracca, una mobil-home mezza scrostata, il tetto squartato da una parte, senza il minimo riparo dal sole e dalle intemperie. Ci vivono in quattro: James. uomo saggio che parla solo la sua lingua e non capisce l'inglese; Violet, sua moglie, che insegna alla scuola del villaggio; poi ci sono Jacqueline, la moglie trentenne di Arthur, e il piccolo Peter, all'epoca dei fatti appena nato e oggi quasi undicenne. Mi sono presentato una mattina di sole, a piedi, arrancando su per la salita polverosa che porta alla loro bicocca. Quando sono arrivato, mi sentivo soffocare dal sudore che avevo buttato e dalla polvere che mi si era appiccicata addosso, fina come borotalco. Mi sono appoggiato a una vecchia jeep posteggiata fuori alla porta, per riprendere fiato. A perdita d'occhio non si vedevano che sterpi aridi, e solo in basso l'immensità del giallo era interrotta dai tetti roventi del villaggio, un micragnoso accumulo di case senza ordine, con le strade di fango screpolato. Yiolet è uscita per prima, chiedendomi se avevo bisogno di qualcosa. E poi è comparso J ames che, come le ho già detto, non parla inglese e dunque ha assistito alla conversazione fra me e la moglie senza capire niente, o capendo molto poco. La nostra amicizia, o meglio quel legame risultato dall'incontro fra la loro ridicola speranza e la mia finzione, è nata quel giorno, fra il ronzio delle mosche che invadevano la loro casa e il puzzo insopportabile di caffè. Non starò a dirle della generosità di quella

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