Una città - anno IV - n. 30 - marzo 1994

gente, che è diventata vera e propria devozione quando ho dato a intendere che il mio proposito era quello di dimostrare con i miei (inesistenti) articoli che il loro figlio non era un criminale (cosa, per altro, di cui sono assolutamente convinto). Siamo diventati, per così dire, amici veri. In questi ultimi quallro anni mi sono recato da loro almeno una volta a sellimana. abbiamo passato insieme delle giornate intere, li ho perfino aiutati a riparare il tello rollo della casa. lo e James abbiamo lavorato gomito a gomito, sollo il sole, a torso nudo, passandoci la stessa bolliglia di birra. Giornate faticose ma intense, loro alleggeriti dal1'illusione, e io soddisfallo della sollile tortura cui li solloponevo. Non mi bastava, ovviamente, ma dava senso a quel lungo periodo di allesa che sapevo doveva passare fra il momento della sentenza e il giorno dell'esecuzione. Sono riuscito a fare in modo che quei lunghi, vili mesi che servono soltanto a far contenti i tanti pupazzi ipocriti e slombati che purtroppo riempiono la nostra nazione, non fossero soltanto un amorfo intervallo. Io mi sono infilato fra le maglie del tempo, le ho allargate e lacerate, e ho ucciso i miei antagonisti, tulli, piano piano, versando ogni volta nel bicchiere della loro credulità le gocce di una fiducia cieca, che come un veleno lento ma potente farà sentire i suoi effetti solo col tempo. Per quanro anni ho frequentato quella casa, fino a ieri mattina, Presidente, quando ci siamo salutati abbracciandoci, ormai miserabilmente ollimisti, loro, per le buone false notizie che io portavo ogni volta. Ah!, doveva vederli quel giorno, non più di un anno fa, quando mi hanno riferito del colloquio che avevano avuto con Arthur, in carcere, in cui gli avevano riferito di quel giornalista (io, ero io!) che andava a casa loro ogni sellimana e gli parlava di iniziative di intellelluali, appelli e proteste per ollenere la grazia (tutti insipienti mezzucci in parte veri, di cui venivo a conoscenza, ma che io ingigantivo apposta e presentavo ai loro occhi come gloriosi tasselli della loro vittoria finale). Lei non può immaginare con quale ansia, e insieme esaltazione, ho seguito il resoconto di James che si sforzava di parlarmi in inglese, faticava e sudava pur di avere un contallo dirello con me. Mi era grato, signor Presidente, e la sua gratitudine di vittima era già una graffiante mercede per la mia rabbia nascosta. Fu in quel periodo che rilasciai, tramite i miei avvocati, quelle dichiarazioni ambigue di cui la stampa ha tanto parlato. Mezze frasi, a leggerle bene, in cui dicevo e non dicevo. Ma tanto bastò perché qualche giornalista più zelante le riportasse come segnali di una mia nuova propensione al perdono. Quegli stessi giornali li ho portati subito, il giorno dopo, ai due vecchi. Come se se lo sentissero, li trovai arrivando che aspettavano davanti alla porta della loro casa. James, appena mi vide, si alzò dolorante e mi venne incontro. Parlammo lì, nel vento bollente che sembrava uscire dalla bocca di una fornace. Aprii i quotidiani sul cofano della macchina, li mantenni aperti posandoci quattro pietre sopra, e lessi gli articoli. Io leggevo e Yiolet traduceva al marito nella sua lingua. Quando finii e alzai lo sguardo, vidi il volto del vecchio, tondo e rugoso che sembrava un ananas, collo dagli anni e dal sole, con la sua ridicola treccia che gli pendeva da un lato, pieno di lacrime. Piangeva di gioia. Poi mi mise una mano sulla spalla e mi invitò ad entrare in casa. Gioivamo insieme, ma per motivi opposti, è ovvio. Lui per la sua immotivata fiducia in me, io per la mia esaltante rivincita. Lei capirà adesso, signor Presidente, che non è assolutamente possibile, né ammissibile, un atto di grazia da parte mia. Questi lunghi dieci anni hanno legato tutte queste persone alla mia vita in modo indissolubile, con esperienze che non possono essere vanificate da un banale gesto di clemenza. La mia vendetta non sta nella morte di Arthur, ma in quell'eccesso di vita, di terrore e di follia continuamente rinfocolato dalla speranza incurabile. La condanna vera sta nel costringere un uomo a conoscere, ad avvicinarsi in modo terrificante a quel mistero divino che non è la morte, fenomeno naturale, ma il dare e il ricevere la morte. 11 PERDONO di Claudio Piersanti Stava per ricevere un assegno. Lo aspettava da giorni, ma sapeva che sarebbe arrivato. Portava sempre nel portafogli un foglietto con su scritto il numero della raccomandata che conteneva il suo assegno non trasferibile. Era tranquillo, per l'assegno; anzi, in un certo senso era contento di non averlo ancora. Due milioni per un mese di lavoro, una bella cosa. Raccoglierebbe frutta per sei mesi all'anno se fosse possibile. Ora della fatica fatta non c'era più traccia, i soldi invece stavano per arrivare, e anche quella notte fredda gli parve addolcirsi. Le bollicine d'acqua allorno ai lampioni e il fresco sulla faccia gli piacevano. Era una bella nolle d'inverno. Da Rita erano ancora svegli. Aveva appena rimesso i denti, Rita, e per pagare il dentista faceva le pulizie in cinque appartamenti privati, che il destino aveva distribuito nelle quattro direzioni cardinali della città. In olio anni lui e Rita avevano speso più di cento milioni in eroina. Il conto lo avevano fallo per difello. Avrebbero potuto comprarci una casa. Per guardare le stelle ora doveva piegare indietro il capo. Nel centro storico le strade strette erano affollate d'automobili parcheggiate malamente. Automobili così grandi che Remo, appena in grado di guidare in autostrada, non avrebbe saputo come farle uscire dai loro parcheggi abusivi. Pensò che tulle quelle auto fossero state coinvolte in un gigantesco incidente e che adesso nessuno era più in grado di rimuoverle. Si fermò a guardare una grossa berlina grigia. Le ruote di sinistra erano sul marciapiede, quelle di destra sulla strada. Sembravano soffrire un peso eccessivo, quelle di de tra. Si avvicinò per guardare l'interno. I vetri erano appannati anche da dentro, ma il cofano era freddo. C'era una bella autoradio, infilata nella plancia. Difficile trovarne una così. Remo toccò ancora il cofano. Era freddo, freddissimo. L' auto era lì da ore. La strada era silenziosa e deserta. Solo automobili abbandonate. Avrebbe pagato il suo unico buco selli manale con quella autoradio quasi nuova. Eccola lì, cinquecento mila lire dimenticate sul cruscotto. Con un motore freddo che sembra morto. Si tolse la sciarpa e la avvolse allorno alla mano destra. li deflellore non oppose una grande resistenza. Lo sportello aveva bisogno di un po' d'olio, emise un grido che si ripercorse sul volto di Remo. Nessuno aprì la finestra. Dallo sportello uscì un odore di uomo, lo stesso odore che lo sconosciuto lasciava nel lello dove dormiva. Remo pensò che per la legge rubare nelle automobili era come scassinare una casa. Si infilò nell'abitacolo odoroso e cercò di estrarre l'autoradio, ma già sapeva che avrebbe dovuto usare il cacciaFece luce con l'accendino per un secondo, poi si mise a svitare. Le ultime mani di poker erano state divertenti. Poi avevano messo giù le carte e erano usciti come per fare uno scherzo. Andrea aveva preso il comando, del resto era sua l'idea del marchingegno. -E adesso gli spacchiamo il culo. -Magari è una figa. Che dici Andrea? E' possibile. -lo gli spacco il culo. Andrea si era messo i guanti. Nonostante fosse di altezza normale sembrava più grosso degli altri, due meccanici e un commerciante che si scaricava camion di frutta da sé. Forse la sua abitudine di scoprire gli avambracci lo caratterizzava subito come violento. Anche le maniche del soprabito, prima di salire in macchina con gli altri, se le spinse indietro. Le sue mani si trasformavano in pugni neri e sugli avambracci si sollevavano i tendini. Dido, che guidava, lo spiava con la coda dell'occhio e si divertiva. Guidava a luci spente. L'allarme era suonato da un paio di minuti e già stavano per piombare come falchi sutr auto di Andrea. A Andrea avevano rubato una moto e un'autoradio. Si voleva scaricare del rancore che provava. Stringeva i pugni senza accorgersene perché immaginava che avrebbe finalmente picchiato e i suoi conti sarebbero tornati in pareggio. Forse dopo si sarebbe pentito, ma il pentimento si sopporta meglio della rabbia. Come aveva calcolato, da una stradina oscura piombarono sulla sua Ford. Due a destra, due a sinistra. Doveva essere ancora lì, secondo i suoi calcoli. C'era. Remo non cercò di fuggire, anche se non gli sembravano poliziotti, quelli. Sapeva che le avrebbe prese. tenne gli occhi chiusi e non provò nemmeno a parlare. Il primo pugno gli tagliò la bocca come una lama affilata e pesante. Lo schiacciò contro il muro e sentì fitte alla nuca e alla schiena, causate dalle sporgenze del muro. Poi altri pugni, un calcio. Sentì il sapore del sangue e l'odore schifoso dell'automobile che gli stagnava dentro. Una voce che diceva "Basta". Una voce gentile. Ripeteva "Basta" con il tono del padre che si rivolge al bambino. Esio1Ycrn eca G i r· oite.SL!.5apriico"draiòsuisedili. Cosa c·era che non andava nella voce del padre? Perché non era felice? Se lo chiedeva da sempre nei momenti più difficili. Quando non ce la faceva a stare in piedi. Né a mangiare. E cadeva giù a sedere sul tappeto. In mezzo a quella nausea dolcissima si faceva le sue domande senza risposta. Anche ora, mentre il dolore dei lividi lo svegliava si chiese perché non aveva mai potuto sentirsi felice. Come il padre, con quel muso lungo e quella noia che lo divorava. Con quella gentilezza forzata ... Lo preferiva quando si lasciava andare uno schiaffo, quando mostrava quel che era davvero, che era almeno presente, lì, in quel luogo, in quella casa mediocre in proprietà dominata da una puzza sottile che i lavaggi non facevano mai sparire. Come se un piccolo animale si decomponesse in un angolo segreto, lentamente. Il fetore si faceva strada tra le ali corazzate, come una schiuma. Capì che lo avevano portato in una casa, o forse in un magazzino. Li sentì parlare; erano eccitati ma non litigavano. -Quello lì adesso è pieno di diritti. Più di noi -sentì dire. Gli altri lo ammisero con il silenzio. -Avrà perso un litro di sangue - aggiunse un altro- Ci si finisce in galera, l'hai sfigurato. -Quello era già sfigurato. - Quando uno c'ha le braccia come lui vuol dire che non gli frega niente di niente. -Che cicatrice, ragazzi. -Tutti i buchi che s'è fatto. -E' sveglio, s'è svegliato. Remo li sentì camminare fino a lui. L'avevano messo su un paio di cartoni. Erano in quattro. Quello con i guanti neri gli stava sopra. Si nascondeva la faccia con l'asciugamano. I capelli e gli occhi erano neri, trenta, trentacinque anni d'età. -Sei contento di rivedermi?- gli chiese. Ma doveva saperlo che lui non poteva rispondere. La bocca sembrava chiusa da una cicatrice. L'uomo con i guanti gli mostrava qualcosa, ma così da vicino che non riusciva a distinguerla. -Allora? La vuoi o no quest'autoradio? Stronzo. lo lavoro e tu m'inculi. Bravo. -Lascia perdere -disse uno da dietro. Lo stesso che aveva detto basta. Remo si disse che di lui in particolare si doveva diffidare. Del resto tutti, e questo lo sapeva, stavano pensando di ammazzarlo, anche se non ne parlavano. Forse ne avevano parlato mentre dormiva. L'uomo con i guanti cercava di sollevargli un braccio. -Lo muovi?-chiese. No che non si muove, imbecille, gli rispose Remo col pensiero. Ammazzami e basta, stronzo. I quattro formarono un capannello accanto a lui. -Gli leghiamo uno straccio sugli occhi e lo lasciamo sotto un lampione. -Quello ci ha visti, forse si ricorda un pezzo di targa, le facce. Si finisce in galera. anche per uno stronzo come lui. -Hai menato come un matto, ma che cazzo fai. Se crepa ... -Era peggio se parlava prima con qualcuno. E gli diceva che macchina aveva aperto. Se muore qui son cazzi suoi. -E' finito sullo spigolo del marciapiede, la faccia se l'è rolla da solo. -Addirillura ... -Fuori dai coglioni. -Ma che dici? -Fuori, andate a casa, lo porto via io più tardi. -Guarda che me ne vado sul serio. -E anch'io. Non c'è bisogno che ti scaldi. -L'idea è stata mia e ho picchiato io, va bene? Prendete su le vostre cose e andate via. Dopo un minuto sentì aprire una porta. L'uomo con i guanti era rimasto solo con lui. Ora guardava solo l'orologio e l'asciugamano gli copriva soltanto la bocca e il naso. Pensò a come suo padre l'avrebbe visto. Un corpo sdraiato sull'asfalto. Una storia di droga. Invece non era proprio così. Ormai la droga era una piccola parte di sé, piccolissima, neppure tutti i sabati. E l'assegno che aspettava? Forse il padre avrebbe potuto incassarlo, ma chissà, un assegno non trasferibile ... I carabinieri ... Sarebbe diventato una brutta foto sul giornale. Avrebbero fatto fatica a riconoscerlo. Poi l'avrebbero messo su una bareUa, coperto col lenzuolo, e l'avrebbero portato via. Accadeva quello che aveva sempre saputo, che non sarebbe morto in un letto. Ma sdraiato sulla strada, o sul pavimento. L'uomo con i guanti se ne stava seduto e se ne stava immobile. Poi si versò da bere e si accese una sigaretta. Remo invidiava i suoi soffi potenti, lui che poteva appena respirare. Quei soffi erano la vita, dicevano che l'uomo seduto avrebbe vissuto ancora. Remo cercò di voltarsi sul dorso ma si spostò di pochi millimetri. Pensò che avrebbe voluto dire all'uomo del soffio "E' così come temi, ho visto in faccia te e i tuoi amici. Vedo anche questo retrobottega. C'è il mio sangue sul tuo pavimento. Gli si · è strello il culo dalla fifa, a questo coglione. Ma che cazzo fumi, coglione." Ogi:ii soffio dell'uomo accresceva il suo odio. Lo malediceva dal suo silenzio. Perché non voleva romperlo, il suo silenzio, non poteva e non voleva. Nella sua vita da adulto non aveva mai incontrato uomini migliori di quello che gli stava accanto, e nonostante il male e la morte che pure portava, solo il papavero, la pianta dell' oppio, gli era stato amico. Alto, maturo, lo aveva visto in foto: i grandi petali aperti e l'interno grondante di polline e pace. L'odore della roba gli tornò nel naso solo a pensarla. Poi maledì in mille modi l'uomo che ancora non trovava il coraggio di ucciderlo. Fumava, il coglione, una sigaretta dopo l'altra. Invece di fumare avrebbe potuto, all'improvviso, portare acqua calda e bende, avrebbe potuto curare le sue ferite, chiedergli perdono, guarirlo. Remo pensò che sarebbe stato facile: bastava perdonare. L'uomo con i guanti doveva perdonare lui, ladro di autoradio, e lui doveva perdonare l'uomo con i guanti che lo aveva picchiato a sangue. Il perdono doveva prendere il posto dell'odio e della paura. Facile e impossibile, questa possibilità, dolcissima. Come il sapore del sangue sulla lingua. L'uomo con i guanti si era alzato e si muoveva verso di lui. Era a volto scoperto, lo guardava senza vederlo, con uno sguardo che non voleva mescolarsi col suo. Si chinò su di lui. Gli coprì il naso e quel che restava della bocca con l'asciugamano. • Nelle foto. In Nigeria un padre si congeda dal figlio condannato a morte per rapina a mano armata. In Louisiana, Stati Uniti, il "corridoio della morte" dell'Angola State Penitentiary. UNA CITTA' 9

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